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«Ogni emozione è un’esperienza somatica»: sentimenti, organi interni e percezione in Goffredo Parise (tra Arendt e Merleau-Ponty)

Autore


Elisa Attanasio

Università Sorbona di Parigi - Università Alma Mater Studiorum di Bologna

insegna e svolge attività di ricerca all’Università Sorbona di Parigi, dove ha conseguito un Dottorato di ricerca in cotutela con l’Università Alma Mater Studiorum di Bologna

Indice


 

1. L’armonia tra contesto interno e contesto esterno

2. La superficie del visibile

3. Sentimenti e carne

 

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S&F_n. 21_2019

Abstract


«Every Emotion is a somatic Experience»: Feelings, internal Organs and Perception in Goffredo Parise (between Arendt and Merleau-Ponty)


The paper aims to relate some literary devices of Goffredo Parise’s writing to several philosophical concepts issued by Merleau-Ponty and Arendt’s thinking. The notion of perception proves, namely, to be a productive interpretation of Parise’s work; philosophy and literature converge on the same conclusions. On the one hand, we deal with the primacy of perception elaborated by Merleau-Ponty’s phenomenology and Arendt awareness regarding the supremacy of appearance. On the other hand, we analyse a literature writing marked by the intrinsic connection between inside and outside. Parise carries on a deep research using a multi-level approach (content, vocabulary, syntax and style) to “shake off” intellectual theories and enlighten individual experience as an act of knowledge of reality.

Il gregge è i miei pensieri

E i miei pensieri sono tutte sensazioni

Penso con gli occhi e con gli orecchi

e con le mani e i piedi

e con il naso e con la bocca.

F. Pessoa

 

 

  1. L’armonia tra contesto interno e contesto esterno

Goffredo Parise (Vicenza, 1929 – Treviso, 1986) non rientra certo in quella schiera di scrittori che hanno instaurato con la filosofia – per affinità, interesse o bisogno – un discorso costante e proficuo. Anzi, si direbbe che l’autore vicentino abbia cercato, a più riprese, di tenersi alla larga da correnti letterarie e filosofiche, da qualsivoglia griglia tassonomica relativa a comuni tendenze stilistiche e poetiche, a metodologie speculative. Quasi con sprezzo e orgoglio affermava di leggere e studiare poco, per avere più tempo per vivere; al massimo, riprendeva in mano sempre gli stessi due libri di Tolstoj, come scrive in una lettera a Omaira Rorato nel giugno 1976:

rileggo, per la millesima volta da molti anni, sempre i soliti due libri, “Guerra e Pace” e “Anna Karenina”. Li leggo da scienziato ormai, analizzando prima con la lente grande ogni aggettivo, ogni struttura di frase, ogni pausa, nel particolare. Poi con la lente piccola, il generale. È, secondo me, il più grande scrittore mai esistito, dopo Omero. Nessun altro libro riesco a leggere, dopo il grande conte, tale e così profondo è l’abisso. Tutto mi sembra acquetta e mi annoia. E poi lo leggo come il garzone di un calzolaio guarda il vecchio calzolaio fare scarpe: con la stessa reverenza e umiltà e massima concentrazione nel desiderio di imparare.

 

L’accostamento con certe osservazioni dei maggiori pensatori del Novecento (Merleau-Ponty e Arendt in primis) sembrerebbe a questo punto un azzardo, quasi un affronto verso un’idea di letteratura quale mero atto di un garzone che tenta di imparare dal vecchio calzolaio, servendosi solo del suo sguardo, della sua curiosità e delle sue mani. Tuttavia, proprio la consapevolezza critica di un contatto dell’opera parisiana – probabilmente non diretto, ma certo con pochi gradi di separazione – con l’ambito speculativo, permette di collocare sotto una diversa luce alcuni testi, a partire dai Sillabari (cinquantaquattro brani usciti sul «Corriere della Sera» dal 1971 al 1980, poi raccolti in volume). In particolare, in quella che può essere definita la soluzione percettiva – potente leva capace davvero di gettare un nuovo sguardo alla scrittura parisiana – si intrecciano due sistemi di pensiero: la teoria fenomenologica incontra la linea tracciata da Vico e Herder nella comune considerazione dell’atto percettivo quale superamento della distinzione fra soggetto e oggetto, interno ed esterno, mente e corpo.

Parise afferma, riflettendo sulla nascita del suo romanzo d’esordio, Il ragazzo morto e le comete (1951) che, nel momento della composizione del testo, non aveva prestato alcuna importanza al linguaggio, «profondamente convinto che il linguaggio scaturisce direttamente dal rapporto tra il contesto interno (microbiologia espressiva dell’autore) e il contesto esterno (macrobiologia del mondo storico-sociale e non) in armonia nei due sensi. Cioè quando uno dei due non prevale sull’altro ma entrambi si integrano»[1]. Certo, la dicotomia interno/esterno è antica quanto la filosofia stessa – e il rischio di banali semplificazioni è sempre alto – ma il modello percettivo di derivazione fenomenologica permette davvero di accedere alla scrittura di Parise da una diversa via. Le parole dello scrittore a proposito del linguaggio come prodotto di un’armonia profonda tra contesto interno e contesto esterno si rivelano infatti una pista di lettura avvincente. Parise crede fortemente nell’intrinseca relazione tra dentro e fuori: non si limita ad affermare l’importanza dell’aspetto visibile delle cose, ma arriva a ribaltare la tradizionale gerarchia tra un fuori superficiale, vacuo, approssimativo e un dentro profondo, intenso, completo. E qui, gli echi di alcune riflessioni di Arendt si impongono con forza. La filosofa dedica la prima parte dello studio rimasto incompiuto La vita della mente alla questione del Pensare: i primi due capitoli sono consacrati alle apparenze e al loro rapporto con la mente. Arendt sceglie, per introdurre il grande tema delle esperienze della mente, di soffermarsi proprio sul rapporto tra dentro e fuori, apparenza e interiorità; e lo fa utilizzando il pensiero antico (Aristotele) e contemporaneo (Merleau-Ponty, ma anche Portmann). La citazione in esergo di W. H. Auden - «Dio ci giudica mai dalle apparenze? Ho il sospetto di sì» proietta immediatamente il lettore nel vivo della questione: tutte le cose contenute nel nostro mondo – viventi e non viventi – hanno in comune «il fatto di apparire, e sono quindi destinate a essere udite, toccate, gustate e odorate, a essere percepite da creature senzienti munite degli appropriati organi di senso»[2]. Arendt apre il suo studio con l’affermazione che «Essere e Apparire coincidono»: il primato dell’apparenza è, in altre parole, un dato di fatto imprescindibile, connaturato al nostro stesso esistere e al quale scienziati e filosofi devono continuamente fare ritorno. Ma a questa convinzione si oppone «l’antichissima supremazia teoretica dell’Essere e della Verità sulla mera apparenza, cioè la supremazia del fondo che non appare sulla superficie che appare»[3]. È così affermato il valore della superficie, grazie al rovesciamento dei tradizionali assunti metafisici: ne è una prova, come ricorda Merleau-Ponty, il fatto che, nel momento in cui un’illusione viene meno, arriva subito una nuova apparenza a sostituire la precedente: «la disillusione non è la perdita di una evidenza se non in quanto è l’acquisizione di un’altra evidenza»[4]. Anche dall’ambito scientifico, in particolare zoologico, arrivano testimonianze del capovolgimento della gerarchia dentro/fuori: Portmann vi oppone una morfologia che pone al centro dell’interesse «non ciò che una cosa è, ma come essa “appare”»[5]. Se è vero che la vita è essenzialmente l’apparizione di un interno all’esterno, e l’individualità consiste nell’impulso ad apparire in un tal modo, allora sì che i nostri pregiudizi metafisici andrebbero corretti.

 

 

  1. La superficie del visibile

Credo sia proprio questo ribaltamento – è il superficiale a contenere quello che noi siamo – che, nella scrittura di Parise, prepara il terreno all’assimilazione della teoria fenomenologica. In particolare, i testi dedicati agli artisti (raccolti nella silloge intitolata Artisti) svelano chiaramente il dispositivo secondo il quale per accedere al senso profondo di un’opera è necessario fermarsi di fronte all’osservazione di ciò che è mostrato, senza farsi prendere da inutili considerazioni intellettualistiche (portando all’estremo questo meccanismo, Parise si sofferma a più riprese sulla descrizione dell’aspetto esteriore dell’artista – i suoi tratti fisiognomici, il modo di camminare, di vestire, di parlare – al posto dell’opera). La Vuccirìa di Guttuso parla chiaro: nel brano dedicato a quest’opera è il quadro stesso a invitare insistentemente l’osservatore a limitarsi a guardare, a fermarsi cioè alla superficie del visibile – senza perdersi in categorie artistiche – perché è in essa racchiuso il senso dell’opera. Una volta visti, uno a uno, nel dettaglio, tutti gli elementi che compongono il quadro – parmigiano, emmenthal, pecorino col pepe, provolone, trance di pesce spada, orate lucenti, spigole, merluzzi, polipi, calamari, albicocche secche, olive bianche, una donna giovane in primo piano e di schiena con dei capelli, dei fianchi e un sedere e delle gambe tipicamente italiane, cassette di finocchi freschi, melanzane, un sacco di noci, poi ancora limoni e una macelleria di mattonelle bianche, un mezzo bue sanguinolento e un coniglio scuoiato, con un coagulo di sangue che pende dal naso, poi due grandi ceste di plastica piene di uova, con dei giornali avvoltolati a imbuto per fare cartocci – l’esercizio sarà concluso. «Allora, se non hai visto altro, vuol dire che non c’era altro da vedere e che l’Italia, quella che tu hai visto ed enumerato così bene attraverso i suoi prodotti, è così»[6]. L’osservatore protesta, ancora imbrigliato nella tradizionale gerarchia apparenza/interiorità: «Ma dovrò pur rifarmi a un minimo di convenzione esplicativa, critica, ideologica, nominalistica, estetica, dovrò pure cercare di definire e incasellare dentro un qualche schema possibile quello che ho visto…», ma la voce della Vuccirìa lo zittisce una volta per tutte: «No, non c’è nulla da definire, né alcuna convenzione esplicativa dentro il quadro. Ci sono le cose che ci sono e che hai visto, e basta»[7]. Come afferma Antonio Delogu in uno studio sui rapporti tra fenomenologia e letteratura: «l’esercizio dell’ingenuità dello sguardo è, per il fenomenologo, il ritorno al senso essenziale, originario del mondo della vita»[8], e ancora: «la fenomenologia esige l’assenza di pregiudizi o presupposti al fine di portare a evidenza la verità del come stanno veramente le cose che ci riguardano; oltrepassa il campo dell’opinabile in cui sostano lo scettico, il relativista, il costruttivista e il campo della scienza»[9]. Nella premessa alla Fenomenologia della percezione, così riflette Merleau-Ponty:

Tutto ciò che so del mondo, anche tramite la scienza, io lo so a partire da una veduta mia o da una esperienza del mondo senza la quale i simboli della scienza non significherebbero nulla. Tutto l’universo della scienza è costruito sul mondo vissuto e se vogliamo pensare la scienza stessa con vigore, valutarne esattamente il senso e la portata, dobbiamo anzitutto risvegliare questa esperienza del mondo di cui essa è l’espressione seconda. […] Il reale è un tessuto solido, non attende i nostri giudizi per annettersi i fenomeni più sorprendenti e per respingere le nostre immaginazioni più verosimili. La percezione non è una scienza del mondo, non è nemmeno un atto, una presa di posizione deliberata, ma è lo sfondo sul quale si staccano tutti gli atti ed è da questi presupposta[10].

 

Nella scrittura parisiana avviene proprio questo: l’autore intraprende una profonda ricerca a più livelli (contenutistico, lessicale, stilistico, sintattico) per scrollarsi di dosso tutti gli strati di pregiudizi, categorie e teorie intellettuali ed entrare in una forma mentis (e corporis) in grado di vivere e restituire la realtà con piena fiducia nella percezione come atto di apprensione del mondo. Il primo passo consiste nel sovvertire il rapporto dentro/fuori; afferma Arendt: «a differenza dei pensieri e delle idee, sentimenti, passioni ed emozioni non possono divenire parte integrante del mondo delle apparenze più di quanto avvenga ai nostri organi interni»[11].

 

  1. Sentimenti e carne

La stretta relazione tra emozioni e organi interni appare nei Movimenti remoti di Parise, testo la cui stesura risale al 1948 ma apparso postumo solo nel 2007: i sentimenti del protagonista si decompongono insieme al corpo, entrambi abbandonati nel fondo del cofano di un’auto.

la carne si è staccata tutta fino alla fine gocciolando

nel fondo del cofano, non le forze sgorgate come un brivido

dentro un altro corpo, non le gocce calde dell’essenza umana.

Il liquido della stupida conformazione molle,

palpitante, retrattile che era il mio corpo

si sparge nel fondo del cofano, a disseccarsi

il liquido che contiene, dissolto e confuso, il prodotto

di incomprensibili

movimenti remoti, di apparizioni remote, di suoni remoti

non resta che unirsi a quelli che vanno, a quelli che come me vanno

e l’andare non comincia e non finisce

a nessuno si dice addio, nessuno-dire-addio,

movimenti remoti della bocca

i sentimenti

sono ancora movimenti remoti, scivolano anch’essi nel fondo del cofano assieme a quella parte di carne che ci determinava in attimi remoti[12]

 

I sentimenti marciscono insieme alla carne; organi interni ed emozioni sono un tutt’uno indistinguibile. Per utilizzare ancora una volta le parole di Arendt: «le passioni e i sentimenti dell’anima non solo sono vincolati al corpo, ma sembrano avere le medesime funzioni di sostentamento e conservazione della vita degli organi interni»[13]. La connessione con Merleau-Ponty, colui che ha teorizzato una «filosofia della carne» viene da sé: è soltanto grazie alla «fede percettiva» che questa sovrapposizione tra interno ed esterno può attuarsi. Dal Visibile e l’invisibile: «Il vero traluce attraverso un’esperienza emozionale e quasi carnale, in cui le “idee” – quelle dell’altro e le nostre – sono piuttosto dei tratti della sua fisionomia e della nostra, e, più che comprese, sono accolte o respinte nell’amore e nell’odio»[14]. Tale idea non abbandonerà mai Parise: se è vero che nei Movimenti remoti si tratta più che altro di un’intuizione, espressa attraverso il linguaggio poetico, nei Sillabari l’autore ha modo di dare maggiore spazio al modello percettivo. A guidare questi testi sono infatti le percezioni sensibili dei protagonisti, più che le loro azioni o decisioni. Gli stati dell’animo raccontati brano dopo brano nascono e si spengono per un odore, per un accenno di movimento, per uno sguardo un po’ superbo, che ferisce i battiti del cuore fino a farli rallentare. Lo stretto rapporto tra dentro e fuori, e l’importanza della percezione come conoscenza del mondo – questioni, come si è visto, già presenti in altri testi parisiani – innervano qui i racconti in maniera costitutiva e profonda, senza bisogno di essere esibiti (perché vantano di una lunga sedimentazione). Nel brano Paura, ad esempio, l’osmosi tra atti esteriori e moti interiori si riscontra nel particolare passo dell’anziana protagonista:

Camminava lentamente in quel modo infantile e un po’ pesante, come avviene quando lo spirito così vicino ai muscoli, ai tendini e ai nervi, ha già ceduto alle illusioni del passato e non resta altro che procedere un po’ alla deriva come una barca. Infatti, si udì per tre volte la sirena bassa e lunga di un rimorchiatore o addirittura una nave, un transatlantico che usciva dal Bacino di San Marco. Qui lo spirito della signora, come sempre quando udiva quelle sirene, si risvegliò, e anche il passo[15].

 

La prossimità fisica tra spirito, muscoli, tendini e nervi provoca certi modi d’essere: la donna ha un’andatura lenta, infantile e pesante perché prova ormai un forte senso di disillusione verso la vita (si veda anche, poco più avanti: «era il pensiero che aveva suggerito i passi o i passi avevano suggerito il pensiero?»[16]).

Il primato della percezione presuppone un contatto ingenuo con la realtà che ci circonda (non a caso Merleau-Ponty sottolinea il valore dell’intuizione quale accesso alle profondità del mondo): la filosofia e la pagina narrativa avranno allora il compito di riattivare la nostra capacità di conoscenza e lettura della realtà.

Questo processo non è semplice, così come l’intuizione fenomenologica non è qualcosa di dato. È infatti necessario riconquistare la percezione tramite un lavoro che Merleau-Ponty definisce «comparable à celui de l’archéologue». La scommessa consiste allora nel mostrare la profonda comunicazione che si instaura tra due mondi tenuti tradizionalmente separati: la percezione avviene in un soggetto incarnato, nel quale gli elementi “naturali”, “oggettivi”, sono inscindibili da quelli “intellettuali”.

L’apertura al mondo avviene grazie a un’operazione di «coexistence», «communion», «échange», «accouplement», «synchronisation» tra colui che sente e del sensibile, a un’esperienza individuale, contingente, sottomessa a tutti gli imprevisti del tempo, del corpo, e della presenza dell’altro. Ed è proprio la capacità a vivere la realtà in maniera diretta che, in vari racconti dei Sillabari, è ammirata e amata:

Lei era nera, con la pelle scottante e si muoveva sulle lenzuola e nei capelli come sulla neve. L’uomo (a cui la febbre era scesa) la guardava: nera sulle lenzuola, oppure nella vasca da bagno, oppure la seguiva con lo sguardo e con il cannocchiale, nuotare lontano nella calma e fidata acqua lagunare tra minuscoli guizzi, ogni tanto. Lei parlava poco e possedeva una autonomia animale, lenta e armonica, che la poneva in contatto diretto con le cose essenziali ed elementari della vita. Così il suo modo di camminare, di nuotare, di mangiare, di dormire e di amare e così il suo fiato profumato di sangue. Egli si sentiva escluso da questo contatto, perché era un uomo indiretto ma gli piaceva molto vederlo in lei e per questo l’amava (Gioventù)[17].


[1] G. Parise, Intervista, in C. Altarocca, Goffredo Parise, La Nuova Italia, Firenze 1972, pp. 17-18.

[2] H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 99.

[3] Ibid., p. 105.

[4] Ibid., p. 107.

[5] Ibid., p. 109.

[6] G. Parise, Guttuso, articolo pubblicato sul «Corriere della Sera» il 9 febbraio 1975 con il titolo L’Italia come è, ora in Artisti, Neri Pozza, Vicenza 1994, pp. 38-39.

[7] Ibid., p. 41.

[8] A. Delogu, Questioni di senso. Tra fenomenologia e letteratura, Donzelli, Roma 2017, p. 97.

[9] Ibid., p. 141.

[10] M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, tr. it. Bompiani, Milano 2003, pp. 16-18.

[11] H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 112.

[12] G. Parise, I movimenti remoti, Fandango, Roma 2007, p. 93.

[13] H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 117.

[14] M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, tr. it. Bompiani, Milano 2009, p. 39.

[15] G. Parise, Sillabario n. 2, in Opere, vol. II, a cura di B. Callegher e M. Portello, con introduzione di A. Zanzotto, Meridiani Mondadori, Milano 1987-1989, pp. 459-460.

[16] Ibid., p. 460.

[17] Ibid., p. 337.

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