S&F_scienzaefilosofia.it

Le relazioni riflessive tra società e tecnica

Autore


Simone D'Alessandro

Unidav.it e Unich.it

insegna Sociologia e Antropologia presso Unidav.it e Unich.it ed è Responsabile Ricerche della Fondazione Hubruzzo www.hubruzzo.net

Indice


  1. Dominare il divenire: destino dell’occidente
  2. La società contemporanea come sistema cibernetico
  3. Uomo-macchina o Macchina-uomo?
  4. Conclusioni: fare il passo indietro per costruire una relazione differente con la tecnica

↓ download pdf

S&F_n. 21_2019

Abstract


The Reflective Relationship between Society and Technique


The pervasiveness of the technique is at the center of the modern and contemporary debate, in philosophy and social sciences. Heidegger, Jünger, Hillmann, Severino, Luhmann, Bauman, Beck, Donati: are some of the most illustrious intellectuals who have reflected on the subject, reaching the conclusion that the technique takes on a substitute function of religion. For the man of the twentieth and twenty-first centuries, technique loses its instrumental nature and becomes the purpose of all his actions. The instrumental rationality, in an attempt to produce certainties, determines its opposite: concentration camps (where to contain lives considered dysfunctional, programming their elimination), techno-social engineering (where to trace the data of the individual to rearrange the “social” under the sign of a consumerist or revolutionary thought), techno-religious terrorism (where man becomes an “instrument” of death embedded in the technologies that make him “kamikaze-explosive”). The technique, as a tool used to put a brake on becoming through the forecasting capacity, is transformed into the ultimate end of man. The monotheism of forecast formulas implies anxiety-inducing imprisonment, total control of data and people. Is there an alternative? It is necessary to start from the origin of the cause: the knowledge used as a remedy for the inevitability of becoming. We need to find a path that can overcome the human tendency to exercise control, to reconstruct an ethics that considers the relationship without hierarchies between human beings and their becoming.

  1. Dominare il divenire: destino dell’occidente

La ricerca spasmodica del “rimedio” ha indirizzato il destino dell’Occidente, sin dal suo inizio.

La nascita della filosofia nella Grecia del VI secolo a.C. (philo-sophìa assume il significato di “aver cura del sapere” laddove sophìa si rifà a saphés che vuol dire: chiaro, manifesto, evidente), rovescia le prospettive del mythos (che è annunzio, sentenza ma anche favola e leggenda), ponendo l’idea di un sapere che sia innegabile. La sophìa è logos, alétheia, epistéme: ragione, verità e scienza che fondano un sapere incontrovertibile. Parole che dovrebbero far luce (phàos) tra le ombre della realtà che appare, contrapponendosi alle opinioni le quali, quand’anche siano rette, risultano prive di fondamenti certi. La filosofia nasce, quindi, ambiziosa avendo cura di ciò che «stando nella luce [...] non può in alcun modo essere negato»[1].

La verità delle cose che appaiono e degli uomini che esistono, si disvela solo grazie a essa, perché verità (alétheia) è ciò che non può non emergere, ciò che fatica a rimaner nascosto dopo che il filosofo abbia fatto luce con il suo filosofare che è un ragionar su elementi incontrovertibili.

La verità è anche certezza delle cose reali e non più apparenti, perché rivelate dalla conoscenza epistemica. La filosofia mette ordine nel caos mitico della realtà: si configura come «l’apparire del tutto nella verità»[2]; e nel tutto si nasconde una verità necessaria, assoluta e immodificabile.

Fisici e fisiologi sono i primi pensatori che giocano al “filosofare”, avendo come oggetto del loro studio quella parte del tutto che è la realtà diveniente, corporea, biologica e psichica.

Tuttavia, questa realtà diveniente viene osservata per desumere da essa ciò che “diveniente non è” in quanto permane: la matrice statica del divenire. Sotto questa prospettiva, il filosofo pone al centro della conoscenza la possibilità di isolare la stabilità, comprendendone i meccanismi che le permettono di generare l’instabilità. Questa è già conoscenza come dominio che parte dal tentativo di differenziare gli elementi per gestirli meglio, calcolandone le combinazioni, prevedendone i comportamenti. Il filosofo ha la presunzione (hybris) di poter conoscere, insegnare, manipolare e disporre di ciò che “non diviene, in quanto è”, al fine di guidare “ciò che diviene in quanto non è”.

Malgrado le differenze di prospettiva tra i primi grandi maestri del pensiero, tutti i filosofi antichi riconoscono all’essere il fondamento supremo o, comunque, cercano la stabilità di un principio originario dal quale scaturiscano gli altri elementi. In questo modo, la comprensione diventa un atto di decifrazione dei segreti nascosti della natura. La natura (nascor, il generare) è, appunto, il regno di ciò che diviene, mentre la ragione è il pensiero-strumento (“tecnica”, direbbe Heidegger[3] mentre Foucault[4] direbbe “tecnologia del sé”) che permette di “capire e carpire” le leggi divenienti della natura. Conoscere nel senso di dominare attraverso tecniche, sembrerebbe il destino tracciato sin dall’antichità. La filosofia lascia apparire ciò che si rende manifesto; ciò che si impone senza essere imposto dalla fantasia; essa contrasta il regno dell’immaginazione mitica con il ragionamento epistemico. La verità si disvela nella natura, perché nella natura c’è la physis, ma anche il kosmos, dalla radice indoeuropea kens, traducibile come “tutto ciò che annunziandosi si impone con autorità”. Quindi, il tutto che appare nella natura farebbe emergere, per forza di cose, una verità innegabile e indubitabile. Ecco perché la filosofia antica si auto-definisce episteme (ossia scienza) che letteralmente significa “stare” (steme) che si impone “su” (epi) tutto ciò che pretende di negare ciò che sta: lo stare s’impone perché è innegabile.

Il sapere filosofico nasce autoritario e torna più volte autoritario nel corso dei secoli: con Cartesio, Kant, Hegel, i positivisti, gli empiristi-logici del circolo di Vienna; con lo struttural-funzionalismo e le correnti sistemico-cibernetiche di una certa sociologia. Tale sapere impone l’incontrovertibilità delle sue leggi di ragione. Eraclito dichiara: «tutte le cose sono uno» e «da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose». La filosofia vincola ai principi, cerca la fonte originaria da cui possano scaturire gli elementi, dimostra la causa determinante dalla quale si diramano gli effetti.

Questo ragionare causalistico è motore della prima scienza e ancor oggi (pur con i dovuti distinguo del caso) influenza il pensiero scientifico quantitativo che orienta le discipline, umanistiche e non.

Il pensiero scientifico è pervaso da una dominante determinista (causa-effetto) e una riduzionista (molte cose si possono spiegare, riducendole a poche cose)[5].

Verità e certezza coincidono; lo stesso dicasi per i concetti, oggi distinti, di “comprensione” e “spiegazione”. Per i primi pensatori Greci l’unità, da cui le differenze provengono, rappresentava l’essenza del principio differenziante, ossia l’unità o identità delle differenze. Il divenire o generare delle cose, si articola attraverso il costituirsi della differenza delle cose a partire dall’uno.

La differenza tra le cose esisteva soltanto nel suo differenziarsi, ma ogni singola parte delle cose che subiscono differenziazione, si assomigliano per il fatto che sono venute fuori da un’origine unica che funziona attraverso il meccanismo della differenziazione.

Tuttora la filosofia sociale e la sociologia di orientamento sistemico luhmaniano pongono le fondamenta a partire da questo principio originario. La sistemica legge la società post-moderna, eppure le sue origini risalgono al pensiero dei primi fisici greci.

La filosofia antica, in questo senso, è già matura e declinante: costruisce il concetto di ciò che vi è di identico in ognuna delle cose diverse (ossia identità o unità del diverso) e il concetto dell’unità da cui tutto viene e in cui tutto ritorna. Il principio di differenziazione giustifica il divenire che scaturisce da un nulla e torna nel nulla. L’essere si origina da “ciò che non è” e “torna al ciò che non è”, perché nel frattempo è diventato altro e nel mutare ha, letteralmente, fatto morire ciò che era prima. Da questo punto di vista, nei fondamenti del pensiero antico è già inscritta la radice del nichilismo nietzschiano: la verità è che la verità cambia. Su tale principio della contingenza si alimenta la sociologia struttural-funzionale di Talcott Parsons, la sistemica luhmaniana e le teorie della complessità abbracciate da numerosi scienziati sociali e naturali contemporanei.

La verità assoluta (ciò che permane) non è visibile a occhio nudo: questo assunto aleggia negli antichi, ma verrà esplicitato e correttamente metabolizzato solo dai contemporanei.

Coloro che per primi filosofano si rivolgono alla verità e alla totalità degli enti. In questo rivolgersi al tutto, pensano l’elemento (stoichéion) da cui tutte le cose sono costituite, ossia l’identità del diverso che, al tempo stesso, è anche principio originante (arché) da cui le cose si generano e in cui le cose si dissolvono. Elemento e principio coesistono sotto l’identità del diverso, origine eterna del processo di differenziazione che governa il divenire: tutto questo è “natura come materia originaria e informe”, ossia: physis. La materia si conserva eternamente attraverso le continue trasformazioni dei suoi elementi. Non vi è nulla che si generi e perisca del tutto. Aristotele dimostra che quasi tutti i filosofi pre-socratici sono in linea con questa interpretazione della natura. L’unica eccezione può essere costituita da Parmenide.

Rimane, però, il fatto che anche Parmenide antepone il logos al mito e legge il sapere sotto la lente dominante (e di dominio) di un unico principio immutabile che è l’essere perenne di ogni cosa.

Per tutti gli antichi una cosa è certa: la sophìa consiste nella ricerca della verità e la verità si manifesta a partire dalle cose che tutti hanno in comune: le famose regolarità che ancor oggi fondano l’osservazione scientifica.

 

  1. La società contemporanea come sistema cibernetico

Sapere esplicito e sapere tacito governano i nostri sistemi, sociali e di conoscenza.

Noi pretendiamo di governare ciò che ci governa e, nel far questo, pretendiamo anche di anticiparne gli esiti. In realtà, possiamo solo osservarne gli sviluppi così come possiamo chiarire un concetto solo dopo averlo snocciolato, attraverso un pensiero elaborato che abbia un inizio e una fine.

Eppure l’uomo, impaziente per natura, non ama contemplare e preferisce agire dominando; interrompendo l’armonia della contingenza che nasconde una non-contingenza ontologica di fondo. Soprattutto esasperando il concetto della differenziazione, rivendicando confini ideologici, economici, politici, culturali.

I limiti linguistici e spazio-temporali del nostro sistema cognitivo, invitano al sapere come forma di tecnica che governa i processi differenzianti e suddivisi in aree disciplinari. Nelle pratiche sociali, nei processi di negoziazione, nel sistema di credenze e nell’elaborazione di policy, il sapiente specialista prevede, anticipa, programma, analizza per facilitare, agevolare, controllare e ordinare. La dialettica platonica (divenuta retorica con il sofista) è diventata, nel tempo, la matrice tecno-simbolico-pratica grazie alla quale si articola il micro e il macro, il qualitativo e il quantitativo, il pieno e il vuoto, l’alto e il basso, il discreto e il continuo, in un percorso infinito sostanzialmente binario che trova la sua sintesi nell’idea trascendentale di bene per la collettività. Questo peccato originale della matrix tecno-simbolica si è radicata in tutta la cultura occidentale; quindi, mondiale visto che l’oriente ha esasperato gli attuali codici dell’occidente come ben dimostra il filosofo contemporaneo Marramao[6].

Oggi la dialettica rivive le sue derive radicali nel binarismo della sistemica e nel determinismo tecnologico della digitalizzazione di ogni cosa (internet of things). Severino, in questo senso, afferma che l’origine viziosa del nichilismo tecnico risieda già in Platone.

Aristotele, dal canto suo, aveva portato al parossismo la pratica della classificazione sia nel campo della logica (classificando tutti i concatenamenti del ragionamento in un sistema sillogistico), sia nel campo biologico (classificando tutti gli organismi viventi, dando avvio alla moderna biologia).

Oggi il mondo digitale continua il sentiero tracciato in maniera ancor più contabilizzata e totalizzante di allora. Non è un caso che la cibernetica (termine che in greco antico significa: governare), domina in quasi tutte le discipline. Essa si è imposta a partire dalla seconda metà del XX secolo, tanto da destare l’interesse di un filosofo come Heidegger che in un’opera specifica dedicata al tema, dichiara: «Il concetto guida della cibernetica è per giunta sufficientemente vasto da poter un giorno assoggettare alle pretese della cibernetica anche le scienze storiche dello spirito»[7]. L’uomo contemporaneo vorrebbe, a questo punto, coronare il suo sogno contabile, automatizzando tutti i processi di socializzazione e di conoscenza, ottimizzando tempi e luoghi della relazione, standardizzando i processi, tentando di perdere l’imprevedibilità del divenire. In questo modo vorrebbe evitare del tutto la contemplazione (ozio dell’osservazione)[8], accelerando i processi decisionali, aumentando le cesure, gli atti di differenziazione e separazione dall’altro.

Di fronte al movimento perenne del divenire, sente l’esigenza di difendersi, costruendo una scienza in grado di ipostatizzare il movimento, velocizzando le modalità d’intervento di fronte all’imprevisto. I filosofi del divenire, come Eraclito, ma anche quelli dell’immobilità, come Parmenide, sono gli antichi responsabili del processo di instaurazione e affermazione della scienza come dominio dell’incontrovertibile. Nasciamo positivisti dai tempi dell’antica Grecia, inevitabilmente. Tutti loro hanno sentito l’esigenza di far originare qualsiasi cosa da un fondamento (che è: inizio degli inizi), ponendo una costruzione gerarchica ai modi del sapere e al modo di fare sistema tra saperi, disciplinandoli. Allora sorge un interrogativo: era possibile un’alternativa? Un sapere nomade, rizomatico, a-gerarchico, privo di sistemi di classificazione, privo di vertici?     

Un sapere rizomatico rende l’evoluzione più lenta, forse la nullifica: vanifica ogni sforzo.

Sembreremmo destinati al dominio della tecnica e ai tecno-saperi, perché sono gli unici che impongono delle scelte radicali. Eppure, altri autori antichi e moderni hanno tematizzato questo percorso alternativo, cercando di resistere alle tentazioni del dominio. Rileggendo Hillman che a sua volta rilegge il rinascimentale Marsilio Ficino il quale rilegge il neoplatonico Plotino che, a sua volta, rilegge Platone in modo nuovo: torniamo al mondo dell’anima che nasconde l’uomo interiore segreto, eternamente impegnato nella noesis. Questo perpetuo raziocinare viene definito da Ficino come la vera attività della psiche. La psiche riflette incessantemente sulla propria natura, senza arrivare a conclusioni stabili, perché la riflessione è la sua natura essenziale. Pertanto, questa attività psicologica non può mai avere termine e deve essere intesa come autentica causa formale dell’analisi interminabile (questo lo affermano sia lo psicologo junghiano Hillman, sia la filosofa e sociologa del realismo critico e della conversazione interiore Margaret Archer)[9].

Hillman, prende in considerazione quel pensiero eterodosso che parte dal neo-platonismo per arrivare al rinascimento (Ficino) e all’illuminismo italiano (Vico); sceglie un percorso anti-calvinista in quanto anti-tecnicista, arrivando a dichiarare che la psicologia (ma più in generale le scienze, non soltanto sociali) non possono

giungere a nessuna conclusione definitiva, ad alcuna sistematizzazione, anzi non possono formulare alcuna affermazione definitamente certa. Ciascuna interpretazione […] ciascuna intuizione sono insieme una risposta e una nuova domanda[10].

 

Nel rinascimento di Ficino l’unica scienza possibile era quella dell’anima. Eppure, noi abbiamo preferito dar retta ai pensieri che dal logos greco arrivano direttamente al Nord delle alpi, saltando il pensiero rinascimentale. Come dice Hillmann

I metodi tradizionali di insegnamento della filosofia (logica, metodologia empirica, metafisica teologica) richiedono anche una contro-educazione dell’anima […] e allora perché, domando a voi colleghi italiani, che avete nel sangue della vostra psiche il Rinascimento, di cui a tutt’oggi si nutre l’intera Europa, perché mai venite a cercare la psicologia da noi, nel Nord, nel marxismo e nell’esistenzialismo, in Adorno e Marcuse, in Freud […] Jung […] tutti sostituti secondari, quando la vostra terra custodisce una psicologia così straordinaria che si rifà a Ficino?[11]

 

L’anima non calcola, non viene strumentalizzata dallo strumento. L’anima può decidere anche di attendere, in assenza di informazioni. Ciò distingue l’umano dall’inumano. Cedere al dominio della tecnica calcolante significa entrare nel terrore dell’azione perpetua e del controllo totale. Ci siamo già passati! Dai campi di sterminio, dove si pretendeva di contenere vite considerate disfunzionali, programmandone l’eliminazione; agli esperimenti totalitari pseudo-rivoluzionari, veri e propri esercizi di ingegneria tecno-sociale, dove pochi ideologi di apparato e tecno-burocrati decidevano la felicità e l’infelicità di tutti gli altri.

Oggi questo controllo totale rivive nel mondo della rete, dove diventa necessario tracciare i dati dell’individuo per riordinare il sociale sotto il segno di un pensiero univoco e dedito al consumo, ma anche coloro che si oppongono al consumismo si comportano alla stessa maniera.

Un esempio per tutti può essere costituito dal cyber-terrorismo fondamentalista. Un terrore tecno-religioso che utilizza gli stessi strumenti tecnologici del suo nemico, perché anche il cyber terrorista deve tracciare, selezionare e reclutare i suoi seguaci. Anche in questo caso l’uomo diviene strumento di morte incorporato nelle tecnologie che lo rendono kamikaze-esplosivo. In tutti questi casi l’unico monoteismo possibile sembra, dunque, rappresentato dalla volontà di potenza della tecnica.

In queste tre rappresentazioni (campi di sterminio, ingegneria sociale tecno-rivoluzionaria e cyber terrorismo) echeggiano le parole di Severino

Gli strumenti di cui l’uomo dispone hanno la tendenza a trasformare la propria natura. Da mezzi tendono a diventare scopi. Oggi questo fenomeno ha raggiunto la sua forma più radicale. L’insieme degli strumenti delle società avanzate diventa lo scopo fondamentale di queste società. Nel senso che esse mirano soprattutto ad accrescere la potenza dei propri strumenti[12].

 

Da questo punto di vista tutti i tentativi di sistematizzare il sociale, dal capitalismo al socialismo reale, dal cattolicesimo al pensiero democratico liberale, hanno rinunciato all’anima del loro discorso, potenziando semplicemente i mezzi tecnici, sistemici e autoreferenziali dell’apparato burocratico. Dice ancora Severino

l’efficacia dell’Apparato non è determinata dal fine assegnatogli. Qualunque possa essere il fine assegnato dall’esterno all’Apparato, quest’ultimo possiede di per sé stesso un fine supremo: quello di riprodursi e di accrescere indefinitamente la propria capacità di realizzare fini[13].

 

La tendenza del nostro tempo è quella per cui la tecnica non è più chiamata a servire l’ideologia del profitto, dell’amore cristiano, della società degli eguali, e così via, ma è quella per cui l’organizzazione ideologica della tecnica lascia il passo alla sua organizzazione scientifico-tecnologica.

 

  1. Uomo-macchina o Macchina-uomo?

L’Apparato diventa forma suprema dell’agire, la forma entro cui ogni azione umana appare possibile e sensata. In tal senso l’apparato assume contorni mitici: si reifica la fede nella potenza della scienza, divenuta mitica non nel senso hillmaniano (immaginativo), bensì nel senso irrazionalistico della leggenda di cui i popoli hanno bisogno, pur di continuare a dare un senso alla vita.

L’uomo da essere pensante diventa macchina-strumento al servizio dell’apparato.

Il suo “essere come divenire” viene ipostatizzato dalle regole burocratiche seguite pedissequamente, rinunciando al sogno immaginativo e alla libertà dell’attesa e dell’ozio creativo.

I creativi di oggi non oziano più, stretti dalle maglie dei tempi, dei fatturati e delle inevitabili innovazioni incrementali determinate dalla dittatura delle esigenze di mercato.

L’uomo-macchina a una dimensione di Marcuse, muta in Macchina-uomo. Le sue tecnologie del sé vengono digitalizzate per bypassare la decisionalità oziosa, lenta, emotiva, imperfetta e non calcolante dell’essere umano. Ma anche in questa decisione radicale della macchinità dell’uomo, si nasconde un sublime paradosso sociale, determinato dalla resistenza dell’essere umano a tutti i tentativi della tecnica di abolire il pensiero non-calcolante, razionalmente limitato e indecidibile.

Per quanto veloce vada, prima o poi l’uomo paga il prezzo dell’estrema corsa, sentendosi affaticato, dovendo decelerare o, in alcuni casi, rinunciando alla corsa per esaurimento. Ammettiamo che un domani si possa produrre un innesto artificiale da applicare direttamente al cervello, capace di espandere la memoria umana e la sua capacità di calcolo. L’espansione dovrà essere gestita tenendo presente i meccanismi di cognizione e di riduzione di complessità rispetto a tale capacità espansa. Ma l’aver coscienza immediata di ciò che accade deve avere tempi brevi altrimenti ognuno di noi, preso da una concentrazione focalizzata nell’aver coscienza di un calcolo complesso, non riuscirebbe a porre uno stop, per decidere cosa fare.

Se ragionasse come una macchina, l’uomo deciderebbe di attendere il risultato definitivo con il rischio che arrivi quando non serve più; se tornasse a ragionare come un uomo prenderebbe una decisione anche in assenza di informazioni complete. Se decidesse di essere sia macchina che uomo (allo stesso tempo) andrebbe in tilt, perché il primo impulso contrasterebbe con il secondo. Su questo tema oggi si scontrano i dualisti transumanisti contro i monisti dell’iper-umano.

Il meccanismo della riduzione di complessità che permette di agire si sviluppa attraverso «l’avere coscienza che a un certo punto bisogna prendere le distanze da quel calcolo per decidere».

Questo impulso ha a che vedere con la volontà di decidere ed entra in conflitto con qualsiasi meccanismo di potenziamento generato da un innesto artificiale, perché l’innesto di potenziamento si arresterebbe solo dopo aver calcolato tutto: se si arrestasse prima sarebbe affetto da “razionalità limitata”[14]; quindi, sarebbe umano e, allora, parrebbe inutile potenziare un uomo che replica, in versione digitale, esattamente i suoi limiti.

In altre parole, solo a partire dai ben conosciuti limiti umani di memoria, cognizione e riduzione di complessità l’innesto potenziante può dare i suoi frutti; altrimenti il risultato sarebbe quello di riprodurre in toto una macchina. Qualsiasi incrocio prevede un dominante e un recessivo, se così non fosse si correrebbe il rischio di dar vita a un vivente-automa che non decide mai e cade nel loop.

C’è sempre bisogno di un misurato squilibrio per determinare un’inclinazione alla volontà, ma non sappiamo perché tale volontà si determini. Se in un innesto uomo-macchina vince l’umano, l’umano verrà potenziato senza rinunciare alla guida dei suoi strumenti di potenziamento. Se nell’innesto vince la macchina, essa guiderà il processo, annullando ciò che di umano entri in conflitto con la sua macchinità.

Una delle distinzioni cardine tra uomo e macchina rimane il processo creativo. L’umano produce creatività attraverso comunicazioni relazionali e intersoggettive organizzate. Parte integrante di questo processo è il linguaggio. Il linguista americano Noam Chomsky, in un incontro con Michel Foucault, tenutosi durante il terzo appuntamento dell’International Philosopher’s project, avvenuto in Olanda nel 1971, afferma

è proprio la limitazione iniziale presente nella nostra mente a segnare il limite entro il quale una scienza è possibile e a fornirci l’incredibile ricchezza e creatività proprie della conoscenza scientifica. È importante sottolineare – credo – che questo abbia a che fare con quel che lei (rivolto a Foucault) diceva a proposito del rapporto tra limitazione e libertà – che se queste limitazioni non esistessero, non potremmo agire in modo creativo. Non potremmo partire da una piccola quantità di conoscenze, una piccola quantità di esperienza, e arrivare a un sistema conoscitivo ricco, estremamente articolato e complicato: se per noi fosse possibile tutto, allora niente sarebbe possibile[15].

 

Questa visione non è “carentista”, perché non spiega il bisogno di emancipazione a partire dalla nostra carenza: semplicemente pone un freno alle possibilità (che non sono infinite, né possono sempre stabilire degli equivalenti funzionali) e ribadisce che la creatività esiste in quanto l’umano può apprendere “gradualmente” e sa di dover combattere con dei limiti, noti o ignoti, dati dal sistema. Ovviamente, questa visione non è neanche anti-carentista, in quanto la nuova conoscenza avvenuta durante il processo di apprendimento, se da un lato risolve un problema precedente (scatenato da una carenza precedente), dall’altro crea nuovi problemi e nuovi modi di ripensare la realtà (quindi nuove carenze). In altre parole, anche da Iperumani il limite umano rimarrebbe. Per definire bisogna partire da ciò che già abbiamo, preservandone almeno un pezzo, il pezzo originante e coordinante.

Se la tecnica non potrà dominare totalmente l’umano, pena l’estinzione di quest’ultimo, perché non riusciamo a uscire dalla prigionia della tecnica come destino e fine supremo?

Perché le relazioni creative, intersoggettive e oziose perdono la sfida contro il calvinismo veloce, efficentista, standardizzato, monologante e monoteistico?

Forse dovremmo riscoprire il potere riflessivo della relazione, per sostituirlo con la religione della tecnica. Esserci significa esistere entrando in relazione in un dato tempo e in un dato spazio, sottoponendosi alle inevitabili limitazioni poste dall’altro (questa definizione è accettabile all’interno di differenti paradigmi: pragmatico, costruttivista, fenomenologico, realista critico), ciò fa emergere i limiti della tecnica alienante, evidenziando le possibilità giocose di un dialogo privo di scopi contabilizzanti. Ciò che conta è continuare a entrare in relazione, senza dominare o essere dominati. Se osserviamo le dimensioni dell’essere sotto la lente di un paradigma teorico specifico, siamo costretti a prendere una decisione piuttosto che un’altra in merito all’essere. Se, al contrario, rinunciamo ai paradigmi di riferimento (che spesso ostacolano a monte il ragionamento che facciamo su ciò che osserviamo), finiamo per accogliere sia l’immutabilità che il divenire dell’essere. Per fare un esempio specifico: se accettiamo il paradigma costruttivista dei cileni Maturana e Varela – i quali affermano che tutto ciò che è detto, è detto da un osservatore[16] – dovremmo, forse, abolire la dicotomia struttura/flusso, entrando in una logica del continuum tra processo e (auto)organizzazione, in cui esiste una relazione circolare tra i due termini, ognuno dei quali fa da “sfondo/figura” dell’altro, come in un quadro di Escher[17]. Se, al contrario, abbracciassimo la visione aristotelica “fissista”, dovremmo concepire l’identità come essenza immutabile. Se, infine, tenessimo conto delle ricerche di Remotti, dovremmo ammettere che l’identità dipende dalle nostre continue decisioni[18]. Se prendessimo in considerazione la visione umanistica classica di Pico della Mirandola, dovremmo ritenere l’uomo “apice della catena evolutiva”, unico animale consapevole della propria incompletezza. Se, al contrario, accettassimo i presupposti post-umanistici dovremmo demolire il mito dell’uomo unico e puro e sostenere che egli sia sempre pronto a “ibridarsi” con le tecnologie che inventa, l’ambiente in cui vive e gli altri viventi non-umani, in una relazione in cui alienazione procedurale e umanità relazionale assumono nuove forme problematiche. In ogni caso, scalfiremmo una parte del sapere, prendendo le distanze da qualcosa, differenziando senza contenere il tutto. Ma il tutto si contiene se siamo accoglienti; se siamo simbolici (che in greco antico significa “mettere insieme”) e non diabolici (che nella stessa lingua vuol dire “separare”); se siamo relazionali e ragionevoli (non raziocinanti); se siamo immaginifici (ossia non-procedurali). Il discorso dell’essere (che implica il discorso sull’esistere, conoscere, immaginare, percepire, pensare, parlare e agire rispetto ai limiti imposti dallo spazio-tempo) è un discorso umano, troppo umano. Un umano che «non è un frutto puro, costruito per emanazione o per complementazione, ma un sistema attraversato da contaminazioni, dinamico proprio nel suo non essere chiuso in sé»[19], aperto alla relazione. Allora bisogna ripartire dalla relazione per comprendere l’essere, così come bisogna ripartire dall’essere per comprendere la relazione e ripensare l’identità/alterità della persona. Nella relazione vi è la contingenza del divenire e l’incontrovertibilità dell’essere. Il divenire è relazione che separa ciò che congiunge, congiungendo ciò che separa, stabilendo un legame (religo) tra ciò che “è” e ciò che “non è ancora”.

Possiamo arrivare a stabilire che essere (come ego), divenire (come tempo), differenza (come alter), “relazionandosi” danno vita all’identità mutevole della persona.

 

  1. Conclusioni: fare il passo indietro per costruire una relazione differente con la tecnica

Secondo Heidegger – quello della svolta (Kehre), che dal 1942[20] incentra un diverso rapporto tra pensiero ed essere rispetto alle opere precedenti e che tematizza un nuovo rapporto con la questione della tecnica – è possibile indagare sulla differenza tra essere ed ente solo a partire da un pensiero capace di “ritornare sui propri passi” nella triplice accezione del fare un “passo indietro”, del “prendere le distanze” da ciò che già si ritiene di sapere e, infine, del ri-tornare nuovamente verso passi che già si conoscono in modo da ri-conoscerli. Per il filosofo tedesco l’essere è in sé «originariamente mobile differenza e divergenza»[21].

Oltrepassando la metafisica classica, egli cerca di dare un volto alla “differenza in quanto differenza”: un luogo rimasto “impensato”. Nel tentativo heideggeriano si preconizza il paradigma sistemico delle “differenze-guida” del sociologo Luhmann, ma anche i segnali del suo oltrepassamento che approdano verso la sociologia relazionale, laddove viene recuperato il senso della “differenza come connessione”.

Per Heidegger (filosofo dell’essere) la relazione è l’identità della differenza. Per Luhmann (sociologo sistemico) la relazione è «la forma della esperienza di una differenza»[22] e l’esperienza di una differenza è «condizione della possibilità di un incremento di informazione e della sua rielaborazione»[23] essendo la differenza stessa, «logicamente parlando […] una terza componente»[24]. Per filosofi e sociologhi della relazione (Archer e Donati) la relazione è riferimento simbolico-intenzionale (refero), legame (religo) ed effetto emergente tra refero e religo.

Questi pensatori, che hanno tematizzato il rapporto tra uomo e tecnica, condividono una prospettiva che oltrepassa l’umanesimo, rinunciando anche all’antropocentrismo, per rifondare una co-esistenza tra essenza ed esistenza, soggetto e oggetto, conoscenza generale e saperi specialistici[25]: Heidegger vuole ripensare la tecnica tornando alla fusione di tutte le discipline governate dalla filosofia come meta-scienza (tesi); Luhmann vorrebbe ottimizzare l’utilizzo cibernetico della tecnica come unico elemento possibile di riduzione della complessità sociale (antitesi); Archer e Donati, esponenti della teoria relazionale, mettono in evidenza le relazioni riflessive tra essere umano e tecnica (sintesi). Nella sociologia relazionale, che riprende le visioni alternative già citate – da Ficino a Vico, da Hillman al realismo critico della filosofa Margharet Archer – il fondamento è la relazione riflessiva. L’identità può essere compresa solo a partire dalle relazioni stabilite tra ego e alter. Anche in questo caso si fa il passo indietro, cercando le categorie sociologiche e filosofiche dei predecessori sottoponendole a un riesame che prevede esiti nuovi: nella sociologia relazionale assistiamo a una riproposizione dell’ontologia che si sposta dall’essere alla relazione che fonda l’essere e la sua identità. Nel mondo di oggi si riparte dall’inizio, dai presocratici, per riaffrontare il viaggio a ritroso o meglio in avanti ma da un altro punto di vista perché l’inizio, come direbbe lo sciamano di Meßkirch, deve ancora arrivare. Tale inizio coincide con una svolta effettiva dell’uomo che deve oltrepassare se stesso, ma senza inseguire un ipotetico super-uomo. L’umano rinnovato è da intendersi come soggetto capace di relazionarsi con la tecnica oltrepassando il raziocinio contabilizzante.

Nella pre-modernità l’identità dell’uomo veniva prevalentemente interpretata come fondamento che scaturisce dal disvelamento dell’essere e dalla consapevolezza dell’esserci. Volendo utilizzare una formula logica dell’identità dell’uomo proto-moderno, potremmo dire che la sua identità relazionale è A = (A ↔ ¬A), laddove l’identità della persona scaturisce da una dialettica tra stasi e divenire, essere ed ente, ente e ni-ente, poiché l’essere non è l’ente, ma ciò non significa che esso coincida con il Niente. L’identità del soggetto-individuo antico era ancorato a una dimensione in cui l’alter rappresentava una costola stimolatrice del cambiamento che, tuttavia, dipendeva primariamente da ego (ossia da me). La relazione c’era, ma gli esiti dipendevano dal soggetto e dal suo rapporto con il tempo, non dalla riflessività relazionale. La relazione era abbozzata, ma non costituiva il fondamento.

Nel mondo contemporaneo vengono privilegiate altre visioni. Da una parte l’identità sistemica, impersonale e digitalizzata, perfettamente descritta dal sociologo Luhmann che configura l’identità umana come astrazione depurata dai “rumori” disfunzionali (noises in senso comunicazionale).

L’uomo rimane ambiente rispetto al sistema il quale, a sua volta, risulta più importante, in termini di sopravvivenza organizzativa, dell’uomo stesso.

Gli ingredienti identitari di Base del neo-uomo cibernetico luhmaniano sono i seguenti: differenziazione, comunicazione come trasmissione di dati, variazione, selezione e stabilizzazione dei suoi scambi, contingenza ed equivalenza funzionale dei suoi strumenti. L’identità dell’uomo post-moderno dipende dalle opportunità offerte dal sistema. La sua identità si fonda sull’adattamento funzionale. Non esiste valore in sé. I valori diventano tali se rispondono alle dinamiche di adattamento sistemico.

L’identità rappresenta una scelta opportuna e distintiva: consiste nel mettere in atto distinzioni efficaci, in grado di ridurre la complessità e gestirla sapendo cosa non è opportuno fare per avere maggiori vantaggi. L’identità si misura in base al modo di distinguersi dall’altro da sé. Nella visione sistemica post-moderna l’identità umana si esprime con la formula A= ¬[¬A]. Il soggetto-individuo (se sia o non sia anche “persona” è, per Luhmann, irrilevante) stabilisce il suo volto partendo, per semplificarsi l’esistenza, da ciò che non è. Citando Montale, potremmo dire: «noi sappiamo ciò che non siamo, ciò che non vogliamo»[26]. Sotto questa prospettiva io sono tutto ciò che gli altri non sono. La comunicazione con l’altro è monologo, in quanto l’altro viene compreso solo a partire dalle mie necessità. L’altro potrà perturbarmi con le sue informazioni, ma tali informazioni verranno metabolizzate da me (sistema) in modo da evitare la disgregazione del sistema, anche se ciò vuol dire mettere da parte l’altro assieme alla sua realtà. Ecco l’avvento della macchina-uomo, alienata dalla tecnica. L’auto-inganno diventa funzionale alla sopravvivenza.

D’altro canto, la nuova sociologia relazionale, opponendosi al pensiero precedente, propone una nuova sostenibilità non-tecnica del sociale, a partire da una nuova forma di ragione relazionale riflessiva. L’identità della persona umana deve costruirsi in base alle relazioni adeguate. Colui che sa costruire relazioni adeguate (non è necessario che siano funzionali, è necessario che riducano inutili conflittualità) mostra di avere un’identità determinata e, allo stesso tempo, disposta al cambiamento. Il cambiamento non è, però, il valore supremo (né eternamente contingente) cui genuflettersi, ma semplicemente un elemento con cui entrare in relazione, con cui fare i conti (come direbbe Sennett: bando all’uomo eternamente flessibile, mero ingranaggio)[27]. Le relazioni riflessive con la tecnica reinseriscono la persona lungo il sentiero della sua identità stabile. Esistono, certamente, anche relazioni irrisolvibili perché il fine ultimo della relazionalità non consiste nell’ottimizzazione della relazione, altrimenti nella società ci sarebbero meri scambi opportunistici. Il fine è la relazione stessa. L’essere e la sua identità si esprimono, in questo caso, con la formula A= R (A ^ ¬A)[28].

La propensione alla relazionalità è attivata per mezzo della riflessività, ossia: ripensare a cosa è accaduto in termini di relazione (con l’altro o con il dispositivo tecnologico), cercando di comprendere cosa ha prodotto benessere e cosa disagio. Il passo indietro heideggeriano diventa riflessività nella sociologia relazionale. È un modo rinascimentale di stare al mondo. Incontrare la tecnica non significa utilizzarla a fini prestazionali e di dominio, ma conoscerla per sapere quando è opportuno accostarsi a essa. Incontrare l’altro non vuol dire stabilire contatti utili, ma fare esperienza. Nel 2001 Bauman, in occasione del Festival della Filosofia di Modena dichiarava

Le risposte tecnologiche precedono anziché seguire le domande. L’opera tecnologica consiste nel trovare le domande per le quali sono già disponibili le risposte e nello spingere più individui possibile a porre tali domande, in modo che essi siano disposti a pagare per avere le risposte. Si tratta di innovazioni tecnologiche disperatamente alla ricerca di applicazione: esse cercano di costituire una soluzione, ma si disorientano nella ricerca dei problemi cui tali soluzioni potrebbero attagliarsi[29].

 

In che modo possiamo limitare il dominio tecnico nel sociale e nei processi conoscitivi? Solo attraverso una dimensione relazionale accogliente possiamo limitare la pervasività della tecnica. Esasperare il lato tecnico nel sociale significa illudersi che i sistemi sociali possano essere esemplificati e governati. Se un sistema complicato può essere ridotto ai suoi elementi, un sistema complesso è irriducibile in quanto non costituito soltanto dai suoi elementi, ma da fattori emergenziali non scomponibili né misurabili, né prevedibili. La complessità è ingestibile e produce casualità all’aumentare della sua complessità. Se tutto fosse semplice esisterebbero solo spiegazioni per ogni cosa; invece, le cose non sono semplici: ecco perché accanto alla spiegazione esiste la comprensione. La comprensione non spiega, accoglie. La relazione riflessiva non facilità, include. L’essere non può essere decifrato, ma intuito. L’esistenza non può essere guidata, va vissuta.

Per uscire dal monoteismo della tecnica, bisognerebbe eludere la dittatura delle previsioni, facendo affidamento sull’intelligenza relazionale intuitiva e riflessiva.

Certo è impossibile eliminare la volontà di potenza; allo stesso tempo anche il riduzionismo binario è una necessità derivante dai limiti cognitivi dell’uomo. Inoltre, dominio e previsione hanno consentito all’uomo di difendersi dalle forze della natura. Tuttavia, possiamo evitare l’abuso della logica del dominio tecnico. L’identità relazionale attenua tale logica, accogliendo l’inaspettato.

Questo presuppone che l’etica della comprensione vinca sulla prescrittività della spiegazione. Attendiamo una società dopo-moderna capace di incentivare tale identità relazionale.

Per il momento abbiamo individuato la patologia di fondo, ma il rimedio dipenderà dalla capacità riflessiva dei sistemi sociali. Bisogna, infine, essere coscienti del fatto che l’identità relazionale (che scaturisce dalla ragione riflessiva) offre rimedi temporanei da sottoporre a continui processi riflessivi. Altrimenti si trasformerebbe anch’essa nel male da curare. L’identità relazionale, a quel punto, diventerebbe un’altra tecnica da elaborare per risolvere asetticamente un problema, ma ciò non è. L’identità relazionale pone rimedi che devono essere sempre ridiscussi, per non ricadere nel dominio dogmatico della tecnica.


[1] E. Severino, La filosofia antica, Rizzoli, Milano 1984, p. 18.

[2] Ibid., p. 21.

[3] Cfr. P. Nerhot, Ernst Jünger, Martin Heidegger. Il senso del limite (o la questione della tecnica), tr. it. Cedam, Milano 2009.

[4] Cfr. L.H. Martin, H. Gutman, P. H. Hutton, Un seminario con Michel Foucault. Tecnologie del Sé (1988), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1992.

[5] Questo tema ritornerà nel primo, ma soprattutto nel secondo positivismo, in particolare nel neo-empirismo logico del circolo di Vienna che pretenderà di ricostruire una genealogia di assunti logici elementari in grado di costruire una fondazione certa della scienza dalla quale non poter prescindere. Questo sistema statico di certezza non prevede di aggiungere elementi di base a ciò che già si conosce, impedendo nei fatti qualsiasi processo inventivo ulteriore. I limiti del neopositivismo vengono brillantemente trattati in E. Sciarra, Motivi e sviluppi dell’epistemologia contemporanea, Libreria Universitaria Editrice, Chieti 2006.

[6] Cfr. G. Marramao, Passaggio a occidente. Filosofia e Globalizzazione, Bollati Boringhieri, Torino 2009. L’autore sostiene, che si sta assistendo a un progressivo passaggio valoriale a Occidente da parte di tutti i paesi del mondo, con un conseguente affievolimento della sovranità nazionale e identitaria; per cui, da certi punti di vista, oggi navighiamo (pur con le dovute differenze) in un brodo di valori molto più condiviso di quanto possa apparire: in questo senso le contrapposizioni duali tra culture differenti sembrano inevitabilmente crollate.

[7] M. Heidegger, Filosofia e Cibernetica (1984), tr. it. Edizioni Ets, Pisa 1988, p. 33.

[8] Sul tema cfr. D. De Masi, L’ozio creativo. Conversazione con Maria Serena Palieri, Ediesse, Roma 1995.

[9] J. Hillman, L’anima del mondo e il pensiero del cuore (1981), tr. it. Adelphi, Milano, 2013; M. Archer, Riflessività umana e percorsi di vita (2007), tr. it. Erickson, Trento 2009.

[10] J. Hillman, op. cit., pp. 27-28.

[11] Ibid., pp. 30-32.

[12] E. Severino, la tendenza fondamentale del nostro tempo, Adelphi, Milano 1988, p. 38.

[13] Ibid., p. 40.

[14] Sul tema cfr. H.A. Simon, Causalità, razionalità, organizzazione, tr. it. Il Mulino, Bologna 1985. Simon nelle sue analisi empiriche sul comportamento, ribadisce che l’uomo tenta sempre di superare o eliminare gli elementi di scarsità che vincolano l’azione, spesso auto-ingannandosi. La scelta non è un atto, ma un processo innescato da una razionalità limitata – per molti versi assimilabile alla progettazione; in questo processo non è definito a priori un insieme di regole che permettano di giungere automaticamente al risultato desiderato. L’uomo decide anche quando non ha tutte le informazioni per farlo, altrimenti non deciderebbe mai e non sarebbe un uomo.

[15] N. Chomsky, M. Foucault, Della natura umana. Invariante biologico e potere politico (1974), tr. it. Derive Approdi, Roma 2005.

[16] H.R. Maturana, F.J. Varela, Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente (1980), tr. it. Marsilio, Venezia 1985, p. 53.

[17] Sulla metafora figura/sfondo cfr. F. Gambardella, L’animale autopoietico. Antropologia e biologia alla luce del postumano, Mimesis, Milano 2010, p. 90.

[18] F. Remotti, Contro l’identità, Laterza, Bari 2007, p. 5.

[19] R. Marchesini, Il tramonto dellʼuomo. La prospettiva postumanista, Edizioni Dedalo, Bari 2009, p. 77.

[20] In realtà il cambiamento era pienamente sbocciato già dal 1936.

[21] M. Heidegger, Identità e Differenza (1957), tr. it. Adelphi, Milano 2009, p. 15.

[22] N. Luhmann, Sistemi Sociali. Fondamenti di una teoria generale (1985), tr. it. Il Mulino, Bologna 2001, p. 63. Da notare, tra l’altro, che in questo caso Luhmann utilizza proprio il termine Differenz, usato anche da Heidegger, e non il termine Unterschied, diversità, né Unterscheidung, distinzione.

[23] Ibid., p. 63.

[24] Ibid., p. 101.

[25] Ma con dei distinguo: in Heidegger l’identità è differenza in quanto differenza; in Luhmann l’identità è differenza tra identità e differenza, unità della differenza, identità del sistema dato dalla stabilizzazione della differenza fra interno e esterno; in Donati l’identità è l’essere della relazione tra identità e differenza. La relazione è ciò che permette identità e differenza. L’identità si costruisce a partire dal grado di significatività delle relazioni tra Ego e Alter.

[26] La nota poesia di Montale, tratta da Ossi di Seppia, s’intitola Non chiederci la parola ed è, se vogliamo, il manifesto della modernità tragica del secondo Novecento: «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato/l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco/lo dichiari e risplenda come un croco/ perduto in mezzo a un polveroso prato. / Ah l’uomo che se ne va sicuro,/ agli altri ed a se stesso amico,/ e l’ombra sua non cura che la canicola/ stampa sopra uno scalcinato muro! / Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,/ sì qualche storta sillaba e secca come un ramo./ Codesto solo oggi possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».

[27] In R. Sennett, L’uomo flessibile (1998), tr. it., Feltrinelli, Milano 2002, vengono indagati gli effetti del nuovo capitalismo sull’identità e il ruolo dell’essere umano.

[28] Su questa formula si veda anche P. Donati, Sociologia della relazione, il Mulino, Bologna 2013, p. 57, laddove Donati riporta “r (A, non A)”.

[29] Z. Bauman, La felicità nell’epoca dei piaceri incerti, paper presentato al Festival della Filosofia di Modena nel 2001, p. 25.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *