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Henri Bergson e l’intelligenza nelle cose

Autore


Alessandra Scotti

Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


  1. Premessa
  2. Intelligenza, tecnica e organismo
  3. Un passo indiestro: esteriorizzazione e percezione pura
  4. Un Bergson esternalista?
  5. La percezione nelle cose

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S&F_n. 30_2023

Abstract


Henri Bergson and the intelligence in things

Henri Bergson is one of those philosophers that the philosophical vulgata claims to have already boxed into certain stereotypical formulas, easily translated as the ‘spiritualist’, the ‘anti-positivist’, the ‘inner time’, etc. However, Bergsonian philosophy, and in particular his theory of perception, can provide some interesting insights for the contemporary debate around the relationship between consciousness and the world. Specifically, in this article, we aim to identify possible points of contact between the paradigm of externalisation as originally developed by Bergson in his philosophy and externalist theories, in particular the theory of the extended mind. What we would like to show here is that not only does the paradigm of externalisation receive an original interpretation in Bergson’s philosophy, which imagines the intellectual faculty as eminently fabricative, as a force of extrinsicity, but that in a deeper sense Bergson’s ontological proposal, in imagining a co-genesis of spirit and matter, implies a so to speak externalist vision in which the mind is dislocated outside the body, in the plane of pure perception.

  1. Premessa

Per lungo tempo, Henri Bergson è stato uno di quei filosofi che la vulgata filosofica pretendeva di aver già incasellato in alcune formule stereotipate, facilmente traducibili come lo “spiritualista”, l’“anti-positivista”, “il tempo interiore”, etc. Questa vulgata è stata contestata da quella che può essere definita una rinascita degli studi bergsoniani: già a partire dagli anni ‘90 la letteratura su Bergson ha mostrato una vera e propria rivoluzione ermeneutica[1]. In particolare, la filosofia bergsoniana, e nello specifico la sua teoria della percezione, sembra fornire degli interessanti spunti di riflessione per il dibattito contemporaneo attorno al rapporto tra la coscienza e il mondo. Non si tratta solo di opporsi al bergsonismo di maniera, quanto piuttosto di cogliere (evitando le insidie della categoria del precorrimento) i possibili punti di contatto fra il paradigma dell’esteriorizzazione – così come originalmente sviluppato da Bergson nella sua filosofia – e le teorie esternaliste, in particolare la teoria della mente estesa.

In sintesi, quello che qui vorremmo dimostrare, è che non solo il paradigma dell’esteriorizzazione riceve un’interpretazione originale nella filosofia di Bergson – che immagina la facoltà intellettiva come eminentemente fabbricatrice, come forza di estrinsecazione – ma che in un senso più profondo la proposta ontologica bergsoniana, nell’immaginare una co-genesi di spirito e materia, sottende una visione per così dire “esternalista” in cui la mente è dislocata all’esterno del corpo, nel piano della percezione pura.

 

  1. Intelligenza, tecnica e organismo

Per Bergson l’intelligenza è espressione di una razionalità pragmatica o fabbricatrice: una specifica funzione adattiva che procede spazializzando il reale in vista di un’azione, scevra dagli elementi distintivi della pura contemplazione. Nell’Evoluzione creatrice, come ne Le due fonti della morale e della religione, Bergson sostiene una continuità tra tecnica e vita in una prospettiva organologica; il processo attraverso il quale lo slancio vitale genera un organismo è del tutto analogo a quello tramite cui l’intelligenza umana converte la materia inorganica rendendola strumento: «se i nostri organi sono strumenti naturali, i nostri strumenti sono organi artificiali. Lo strumento dell’operaio continua il suo braccio; l’attrezzatura dell’umanità è dunque un prolungamento del suo corpo»[2]. Vale a dire che nella prospettiva bergsoniana cade ogni distinzione tra naturale e artificiale, lo strumento diviene protesi, continuazione dell’organismo con altri mezzi. Homo faber dunque, perché vive e opera nell’ambiente che lo circonda in virtù della propria intelligenza. È in questo preciso senso che, in Bergson, la dimensione intellettiva non ha alcuna accezione contemplativa, viceversa, essa è definita come «la facoltà di fabbricare oggetti artificiali e in particolare utensili atti a produrre altri utensili»[3]. Il prodotto dell’intelligenza non è altro che lo strumento di natura inorganica che chiama l’uomo a esercitare una nuova funzione, conferendogli una «dimensione organica più ricca»[4], essendo «organo artificiale che prolunga l’organismo naturale[5].

In altre parole, l’intelligenza bergsoniana è “protesi”, e la tecnica costituirebbe l’esito naturale del processo evolutivo umano. Inoltre, per il francese, la relazione tra la tecnica e l’intelligenza sarebbe presente fin dal principio della storia dell’uomo e senz’altro la sua lettura apre alle successive riflessioni in paleo-antropologia ed etnografia di Leroi-Gourhan[6]. L’utensile è solo «una delle possibili soluzioni inventate dall’uomo per meglio comprendere la realtà e per meglio agire»[7]: è esso stesso al servizio di una tattica vitale volta ad ampliare la capacità di azione e le possibilità di successo evolutivo.

Ma Bergson non si limita a immaginare l’intelligenza come un bene connesso alle necessità dell’azione, tesa a preparare la nostra azione sulle cose, a prevedere sulla base della ripetizione dell’identico.

Il presupposto dal quale prende avvio la filosofia di Bergson è che noi siamo là dove noi agiamo – in un certo senso un presupposto antropopoietico – alla vita ci si rivolge non per imprigionarla in un sistema di principi e relazioni formali, ma per sperimentare una pedagogia degli atti indivisibili e degli slanci e non degli arresti e delle frammentazioni dell’azione. È l’intelligenza che introduce arresti lì dove non ci sono ed è in ragione di ciò che il metodo-organo della filosofia è l’intuizione. L’intuizione, infatti, è «godimento della differenza»[8] e dove altri scorgono solo differenze di grado essa nota differenze di natura. Le differenze di natura ci conducono alla differenza interna al fine di ritagliare «un concetto tagliato sulla cosa stessa, che non conviene che a essa»[9], che a stento possiamo ancora chiamare tale, se, come voleva Kant, il concetto è la rappresentazione di rappresentazioni, la sussunzione comune a più rappresentazioni. Pertanto, il bergsonismo è una filosofia evenemenziale, anti-sostanzialista che, in luogo del “che cosa”, della descrizione di una sostanza, privilegia l’azione colta nel suo farsi. Nella biologia, e in particolare nell’evoluzione della specie, Bergson trova precisamente il segno di un certo processo essenziale alla vita: quello di generare differenze, e cioè la vita come durata creatrice, molteplicità di compenetrazione, eterogeneità nella continuità. La vita come creazione incessante e del tutto imprevedibile di novità sfocia nella pianta e nell’animale, oppure nell’istinto e nell’intelligenza, o ancora in forme diverse di uno stesso istinto. La tendenza al cambiamento non è qualcosa che avviene “tra” due momenti giustapposti, ma è l’evento, l’assoluto fluire delle forme che li genera[10]. Espressione di una virtualità che si realizza e al tempo stesso si differenzia, ossia dando luogo a serie divergenti, a linee evolutive, a specie dissimili. Insomma, si tratta di sottrarre Bergson alla vulgata che vorrebbe farne uno spiritualista e un antipositivista[11] e ripensare Bergson come un referente utile a riconsiderare l’idea di creazione, il virtuale, la relazione tra tecnica e vita e tra mente e corpo. Infine, di porre in dialogo alcuni concetti della filosofia bergsoniana con le questioni che emergono da una parte delle scienze cognitive contemporanee, con particolare attenzione alla proposta esternalista[12].

 

  1. Un passo indietro: esteriorizzazione e percezione pura

La trasformazione del paradigma evolutivo dall’homo sapiens all’homo faber segna un mutamento nella concezione antropologica classica e avvicina Bergson alle teorie antropotecniche: l’inizio dell’umano sarebbe da rintracciare in una discendenza dalla pietra[13]. Non sarebbe dunque l’uomo a inventare la tecnica, ma il contrario: è l’utensile a inventare l’uomo. Il corpo dell’uomo non coincide con il perimetro organico, ma è sin da subito esteso alle sue “macchine”[14]. Quest’intuizione sulla coestensività di uomo, tecnica e natura si ritrova già in Materia e memoria nella teorizzazione di un piano delle immagini, di una sorta di perceptio naturalis – di percezione senza soggetto o di “percezione pura” come la definisce Bergson – che è appunto antecedente all’emersione del soggetto.

Quello di Bergson è, fra l’altro, un problema mereologico: se immagino che la mia natura sia totalmente altra dalla natura delle cose, del mondo, dovrò necessariamente pormi il problema di trovare una comunicazione fra un piano e l’altro, tra la natura spirituale dell’uomo e la natura estesa dei corpi attorno a esso. Ma se immagino che la mia percezione sia innestata in un fondamento materiale[15] precedente alla distinzione tra soggetto e oggetto, in un piano di esperienza più originario, o, in altre parole, in un piano di immanenza[16], allora la coscienza assumerebbe un tratto emergenziale, una forma solidificata nell’assoluto fluire delle forme. Una coscienza, inoltre, che non è coscienza di qualcosa, espressione di una relatio rei et intellectus, ma una coscienza che è qualcosa[17]. In tal senso, la coscienza-correlazione è secondaria e derivata rispetto alla coscienza impersonale immaginata da Bergson quando parla della percezione pura.

Il tema della percezione pura in Bergson è uno dei più dibattuti e per comprenderlo occorre ripensare l’altrettanto complessa e dibattuta nozione di immagine[18], in quanto realtà «objective, dehors, ni dans le cerveau ni dans l’esprit», come afferma Worms nella presentazione all’edizione critica di Materia e memoria[19]. Pensando l’immagine come una realtà mediana tra la rappresentazione e la cosa – come si legge nel celebre avant propos del 1911 – Bergson imprime un nuovo senso al termine realismo. Come nota Cornibert:

la notion d’image apparaît chez Bergson au carrefour d’un double refus. [...] face à la sorte de gigantomachie philosophique que se livrent les tenants d’une conception idéaliste de l’être et ceux qui se réclament au contraire de son approche réaliste, Bergson ne vient nullement opposer une troisième voie alternative[20].

 

Tramite l’elaborazione del concetto di immagine, nel senso più neutro e vago possibile, Bergson traduce «la conviction la plus intime du sens commun, celle selon laquelle il y a de l’être, lequel se donne à nous à travers la perception que nous en avons. Ni plus, ni moins»[21]. Riassumendo schematicamente e provvisoriamente la teoria dell’immagine bergsoniana possiamo affermare che in prima istanza l’immagine per Bergson non è uno stato mentale, ma coincide con il percepibile; in secondo luogo che il corpo è un’immagine peculiare che opera per ritaglio e “diminutio” all’interno della materia, perseguendo un criterio pragmatico; e, da ultimo, che l’immagine è una “cosa”, sebbene in un senso non assimilabile al realismo moderno comunemente inteso.

Torneremo nell’ultimo paragrafo sul difficile concetto di immagine, prima forse occorre chiedersi, come accennavamo nella premessa, in che senso l’ontologia bergsoniana, che pensa una genesi doppia di spirito e materia, possa rivelare dei punti di contatto con le teorie della mente estesa.

 

  1. Un Bergson esternalista?

Sebbene vi siano degli studi che interrogano il rapporto tra Bergson, la sua teoria della percezione pura, e le neuroscienze[22], il potenziale critico di tale rapporto è ancora prevalentemente taciuto[23]. Non a caso, il sottotitolo di Materia e memoria è appunto Saggio sulla relazione tra il corpo e lo spirito e la filosofia della mente contemporanea, si occupa esattamente del cosiddetto mind-body problem, cioè di indagare i rapporti tra le funzioni mentali e il loro sostrato neuronale. Tuttavia, prima di passare all’analisi di alcuni passi dell’opera di Bergson utili a porre in evidenza la vicinanza tra Bergson e la filosofia della mente contemporanea, potrebbe essere opportuno tratteggiare a grandi linee il panorama dell’attuale filosofia della mente. In questo ambito di ricerca si assiste a un vero e proprio cambio di paradigma, cioè il paradigma di spiegazione del mentale si sta evolvendo da un modello internalista – ossia quello caratteristico della cosiddetta scienza cognitiva classica, che si sviluppa a partire dagli anni ‘50 del ‘900 – verso un modello esternalista, tipico della cosiddetta nuova scienza cognitiva[24]. Il modello internalista considera la mente come un sistema di elaborazione dei dati chiuso (cioè separato dall’ambiente circostante). Quindi gli input sensoriali provenienti dal mondo esterno sarebbero processati dal cervello che restituisce una certa immagine del mondo là fuori. Questi input sensoriali sono poi restituiti all’esterno sotto forma di una risposta motrice dell’organismo. In effetti, questo modello è definito inside-out ed è spesso semplificato con la nota analogia tra mente e computer. Come nota Susan Hurley:

If perception is input from the world to the mind and action is output from the mind to the world, then the mind as distinct from the world is what the input is to and the output is from. So, despite the web of causal relations between organisms and environments, we suppose the mind must be in a separate place, within some boundary that sets it apart from the world[25].

 

In estrema sintesi, per il paradigma internalista, la mente è “ciò che accade nella nostra testa”. La proposta esternalista è estremamente variegata e, con buona probabilità, sarebbe più corretto parlare di “esternalismi”[26]. In linea generale, senza temere di banalizzare troppo, possiamo abbozzare alcuni assunti di base della proposta esternalista: 1) la mente non è confinata nella scatola cranica, ma, per così dire, si “estende” oltre il cervello; 2) siccome la mente è vista come il risultato dell’interazione tra il soggetto e il mondo, secondo il modello esternalista per comprendere il fenomeno mentale bisogna indagare i rapporti tra soggetto e mondo, e con il termine mondo si fa riferimento non solo all’ambiente esterno ma anche al corpo.

Com’è noto, l’argomentazione bergsoniana in Materia e memoria è diretta contro i sistemi “parallelisti” – epifenomenista, realista, idealista – che ammettono l’equivalenza del cerebrale e del cosciente. Questa equipollenza, più o meno surrettiziamente operante in ogni metafisica “centripeta”, che vada dal fuori al dentro, non si confà alla visione spirituale di Bergson, per il quale nessuna modificazione cerebrale può risultare coestensiva all’intensità di uno stato d’animo. D’altronde, già nel primo capitolo del Saggio del 1889, Bergson – che intraprendeva un confronto serrato con le indagini condotte dagli psicofisici – escludeva che l’intensità dello stato psichico fosse “correlativa” a qualcosa di misurabile[27]. Non c’è nell’anatomia del sistema nervoso nulla che possa rendere conto della profondità e della ricchezza riscontrabili anche nel più banale fatto spirituale. L’encefalo è «un organo di pantomima»[28], il suo ruolo è mimare la vita dello spirito, non generarla. In una conferenza tenuta nel 1911 e intitolata La coscienza e la vita, Bergson spiega:

Talvolta sentiamo dire: “In noi la coscienza è legata a un cervello; dunque, bisogna attribuire la coscienza agli esseri viventi che hanno un cervello, e negarla agli altri”. Ma vi accorgerete subito del vizio di quest’argomentazione. Ragionando nello stesso modo, potremmo anche dire: “In noi la digestione è legata a uno stomaco; dunque, gli esseri viventi che hanno uno stomaco digeriscono, e gli altri non digeriscono”. In questo caso ci sbaglieremmo di grosso perché, per digerire, non è necessario possedere uno stomaco […]: un’ameba digerisce, nonostante non sia altro che una massa protoplasmatica appena differenziata. Tuttavia, man mano che il corpo vivente si complica e si perfeziona, il lavoro si divide […] e la facoltà di digerire si localizza nello stomaco […]. Allo stesso modo, nell’uomo la coscienza è incontestabilmente legata al cervello; ma non ne consegue che un cervello sia indispensabile alla coscienza[29].

 

Insomma, è innegabile parlare di una solidarietà tra i nostri stati di coscienza e il cervello, ma è ingiustificato ridurre gli stati mentali al loro sostrato neurale. Bergson affronta dunque la questione del rapporto mente-corpo/coscienza-cervello avviando un corpo a corpo con le tesi riduzioniste della psicologia scientifica a lui contemporanea, sostenendo l’irriducibilità della coscienza al sostrato neurale non contro i risultati provenienti dalle ricerche sperimentali, ma confrontandosi con questi ultimi[30]; e il valore che Bergson riserva all’esame dei dati sperimentali raccolti dalla ricerca scientifica del suo tempo già basterebbe a riformulare l’accezione “antipositivistica” della sua filosofia. A tal proposito è particolarmente rilevante l’analisi che Bergson fa delle afasie. Infatti, proprio nelle afasie, la psicologia dell’epoca sembra trovare una prova sperimentale del fatto che, in primo luogo, i ricordi sono localizzati e conservati nella corteccia cerebrale e, in secondo luogo, che la memoria è una funzione del cervello. Ora, Bergson studia molteplici casi di afasie per verificare se questa tesi è attendibile, e arriva alla conclusione che sono proprio i risultati scientifici che ci conducono a scartare l’ipotesi della localizzazione cerebrale dei ricordi.  Infatti, afferma Bergson,

nelle diverse afasie e nelle malattie del riconoscimento visivo o uditivo, non sono questi o quei determinati ricordi che sono come divelti dal luogo in cui risiedevano, è la facoltà del ricordo che è più o meno diminuita nella sua vitalità come se il soggetto facesse […] fatica a condurre i suoi ricordi a contatto con la situazione presente. È dunque il meccanismo di questo contatto che bisognerà studiare al fine di vedere se il compito del cervello non sia quello di assicurarne il funzionamento, piuttosto che di imprigionare i ricordi stessi nelle sue cellule[31].

 

Quindi, più che i ricordi stessi, sembra che a essere lesi siano i meccanismi che permettono alla memoria di agire. E, se questo è vero, allora la memoria non è una funzione del cervello. Come scrive Bergson: «La coscienza è innegabilmente appesa a un cervello, ma da questo non deriva affatto che […] la coscienza sia una funzione del cervello»[32]. Che funzione ha, allora, il cervello? Secondo Bergson è una specie di «centralino telefonico: la sua funzione è quella di “passare la comunicazione”, o di farla attendere. Non aggiunge niente a ciò che riceve»[33]. O ancora, una sorta di «interruttore che permette di erogare la corrente ricevuta da un punto dell’organismo, nella direzione di un apparato di movimento scelto a piacere»[34]. Ciò significa che il ruolo del cervello è quello di ricevere i movimenti provenienti dalle eccitazioni periferiche, di trasmetterlo ai meccanismi motori e di smistarlo tra questi ultimi, abbozzando una serie di azioni possibili. Quindi, rispetto all’azione riflessa, il cervello consente una risposta che non è automatica rispetto a un determinato stimolo, perché sceglie come e quando far partire la risposta, sulla base di un principio essenzialmente vitale: l’esitazione e la possibile dilatazione della risposta motrice. Gli organismi complessi, grazie al loro sistema nervoso, sono in grado di ricevere lo stimolo e di ritardare la risposta, scegliendo quella più appropriata: il criterio di scelta per Bergson è eminentemente pragmatico[35].

La percezione è atto e non rappresentazione e svolge precisamente un’azione selettiva: anziché illuminare un oggetto, oscura tutto ciò che non è utile al nostro processo di adattamento all’ambiente circostante.

 

  1. La percezione nelle cose

Immagine è una parola malfamata[36] che reca con sé un’ambiguità semantica dovuta al fatto che essa è manifestazione della natura mista della nostra esperienza ordinaria, che nasce dall’incontro di memoria e materia, della durata spirituale con la durata delle cose. L’immagine simboleggia quell’unità dell’esperienza[37] in cui non è ancora operata la frattura tra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto, tra un “interno” qualitativo e un “esterno” quantitativo: essa, secondo Bergson, pone la domanda filosofica più indietro di quanto non abbia fatto finora il pensiero metafisico, prima e al di là della distinzione fra idealismo e realismo, contraddistinguendo la tensione monistica della filosofica bergsoniana.

Ne L’Immaginazione, Sartre notava come l’immagine bergsoniana, non riducendosi allo statuto di un semplice contenuto mentale, manifestasse un’opacità che la rende partecipe del reale, lasciando così emergere una dimensione cosale e oggettuale che rinvia, nell’interpretazione sartriana, a un pregiudizio realista di Bergson, incapace di cogliere il carattere intenzionale della coscienza e la natura non oggettuale degli atti di coscienza, cioè delle immagini, per cui egli avrebbe «lasciato sussistere in seno alla durata pura queste immagini inerti, come pietre in fondo all’acqua»[38]. In realtà è precisamente questa sorta di realismo bergsoniano a interessarci: proprio perché l’immagine è qualcosa – una specie di sostrato residuale, «un’esistenza situata a metà strada tra la “cosa” e la “rappresentazione”»[39] – la percezione sta nelle cose prima ancora di essere una mia percezione. Detto altrimenti si dà un originario radicamento esterno della percezione. Si veda il seguente passo di Bergson:

Si prenda, per esempio, un punto luminoso P, i cui raggi agiscono sui differenti punti a, b, c della retina. […] Provvisoriamente limitiamoci a dire, senza troppo approfondire qui il senso delle parole, che il punto P rinvia alla retina delle vibrazioni luminose. […] Ora, io vedo che le vibrazioni trasmesse dal punto P ai diversi corpuscoli retinici sono condotti ai centri ottici sottocorticali e corticali, spesso anche a degli altri centri, e che questi centri a volte trasmettono a dei meccanismi motori, a volte le arrestano provvisoriamente. […] Si potrà dire, se si vuole, che l’eccitazione, dopo aver percorso questi elementi, dopo aver raggiunto il centro, qui si converte in un’immagine cosciente che in seguito è esteriorizzata nel punto P. Ma, esprimendosi così, ci si piegherà semplicemente alle esigenze del metodo scientifico; non si descriverà affatto il processo reale. In realtà non c’è un’immagine inestensiva che si formerebbe nella coscienza ed in seguito si proietterebbe in P. La verità è che il punto P, i raggi che emette, la retina, e gli elementi nervosi interessati, formano un tutto solidale, che il punto luminoso P fa parte di questo tutto, e che è proprio in P, e non altrove, che l’immagine di P è formata e percepita[40].

 

Si tratta di un passo su cui si eserciterà, come in un apprendistato filosofico, anche il fenomenologo Merleau-Ponty[41]. Come si evince da questo passaggio di Materia e memoria, una delle conseguenze essenziali della teoria della percezione bergsoniana è che noi percepiamo nelle cose stesse anziché in noi, che la percezione ha luogo là dov’è la cosa e non in una soggettività chiusa, data anticipatamente all’atto percipiente. Delle due l’una: o l’immagine di P è in noi (e allora può prendere le forme della sensazione o dell’allucinazione), oppure è fuori di noi, proprio in P. L’esperienza dunque è immediatamente legata all’esteriorità e non potrebbe costruirsi a partire dai nostri stati coscienziali.  Ciò vale a dire altresì esteriorizzare il processo di cognizione, il quale inizia nel mondo là ‘fuori’, precisamente nel punto P. E, da ultimo, che percepire un oggetto significa definire le linee della mia azione possibile con quell’oggetto: il nostro presente è essenzialmente sensomotorio e la percezione «è una specie di domanda posta alla nostra attività motrice»[42].

Il corpo è principalmente esitazione della risposta motrice, una sorta di limite mobile tra il futuro e il passato, situato all’ultimo scalino della nostra memoria, come un punteruolo che il nostro passato spinge incessantemente nel nostro futuro. Dal fondo virtuale per mezzo di uno slancio vitale la memoria si esteriorizza e si solidifica in un insieme di immagini che vanno a formare un sistema simbolico, ovvero un mondo culturale. Ma poiché l’attività della memoria è circolare, essa non si ferma alle immagini realizzate, e sempre di nuovo ritorna a quel fondo virtuale da cui attinge, innescando nuovi concatenamenti fra mondo organico e mondo inorganico. La memoria così intesa non è né una realtà soggettiva né una realtà oggettiva, piuttosto una dimensione più profonda dalla quale deriva la stessa distinzione gnoseologica superficiale di soggetto e oggetto. È appunto la stoffa ontologica del reale.

Attraverso una ridefinizione in senso pragmatico-operativo della percezione, Bergson intendeva senza dubbio modificare il modo tradizionale d’impostare il rapporto coscienza-mondo. Quando afferma, in Materia e memoria, di voler rendere conto della percezione senza ricadere nel postulato secondo cui essa possiede un interesse puramente speculativo, sta allo stesso tempo affermando che la percezione si distingue da ciò che percezione non è come ciò che ha un senso per la vita e, di conseguenza, come ciò che suscita una azione differita, in qualche modo deliberata, libera, differenziandosi dalla pura meccanica. Percepire è immergersi in uno spazio sensibile che guadagna profondità man mano che lo si attraversa, ritirandosi al ritmo della propria avanzata. Ogni aisthesis è anche una kinesis, ogni percezione è un movimento. Come scrive Bergson: «gli oggetti che circondano il mio corpo riflettono l’azione possibile del mio corpo su di essi»[43]. D’altronde in Bergson è precisamente il grado di attenzione alla vita, questa formula felice e bellissima, a rivestire il criterio in base al quale la percezione pura diviene percezione vera e propria.

In conclusione, è possibile affermare che percepiamo il mondo com’è perché siamo il mondo che conosciamo. In Bergson il paradigma dell’esteriorizzazione è presente non solo nella forma di una originale appropriazione del mondo fabbricato – utensili, strumenti, tutto ciò che ha a che fare con la dimensione solida dell’inorganico –, ma anche e soprattutto in una teoria della percezione che sposta l’asse teorico dal rapporto coscienza-cervello a quello coscienza-mondo, immaginando nel mondo il luogo sorgivo della nostra cognizione.


[1] Gilles Deleuze, con la sua raccolta di saggi Il bergsonismo, fu senz’altro il primo a compiere un’operazione storiografica di tal sorta e a lui spesso ci si riferisce, anche a più di cinquant’anni di distanza dalla sua formulazione, quando si tenta di ripensare un Bergson “eterodosso”. In tempi più recenti, Frederic Worms in Francia e Rocco Ronchi in Italia, hanno contribuito a svecchiare l’immagine filosofica di Bergson tramite un originale lavoro ermeneutico che ha evidenziato i caratteri innovatori e persino anticipatori della filosofia bergsoniana e i loro ritrovati nella filosofia contemporanea. Cfr. G. Deleuze, Il bergsonismo e altri saggi (1966), tr. it. Einaudi, Torino 2001. Si veda inoltre F. Worms, Bergson ou les deux sens de la vie, Puf, Paris 2013, gli Annales bergsoniennes e l’edizione critica dell’opera omnia di Henri Bergson per PUF da lui diretta, corredata di un importante apparato critico; per i testi di R. Ronchi si rinvia a Bergson filosofo dell’interpretazione, Marietti, Bologna 1990; Id., Bergson. Una sintesi, Marinotti, Milano 2011.

[2] H. Bergson, Le due fonti della morale e della religione (1932), tr. it. SE, Milano 2006, p. 237.

[3] Id., L’evoluzione creatrice (1907), tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2002, p. 117.

[4] Ibid., p. 118.

[5] Ibid., (corsivo mio).

[6] A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola (1964), tr. it. Einaudi, Torino 1977.

[7] C. Zanfi, Bergson, la tecnica, la guerra. Una rilettura delle Due fonti, BUP, Bologna 2009, p. 36.

[8] G. Deleuze, Il bergsonismo, cit., p. 128.

[9] Ibid., p. 22.

[10] Come si legge in Pensiero e movimento: «il movimento è la realtà stessa e ciò che chiamiamo immobilità è un certo stato di cose analogo a ciò che si produce quando due treni procedono alla stessa velocità, nello stesso senso, su due binari paralleli: ognuno dei due treni è allora immobile per i viaggiatori seduti nell’altro». E tuttavia «ragioniamo sul movimento come se fosse fatto di immobilità e, quando lo osserviamo, finiamo per ricostruirlo con delle immobilità». Il mutamento non ha bisogno di nessun substratum per sussistere e ogni mutamento è concepito da Bergson come «reale» e «indivisibile»; Cfr. H. Bergson, Pensiero e movimento (1934), tr. it Bompiani, Milano 2000, pp. 135-136.

[11] Per il rapporto tra la filosofia bergsoniana e le scienze si veda il testo di P. Miquel, Bergson dans le miroir des sciences, Paris 2014 e il numero monografico degli Annales bergsoniennes Bergson et la science, III, Paris 2007.

[12] A proposito del rapporto tra la filosofia bergsoniana e i caratteri essenziali dell’ontologia sottesa alla proposta dell’esternalismo radicale si veda l’importante lavoro di A. Lanzieri, Il corpo nell’anima. Henri Bergson e la filosofia della mente, Mimesis, Milano 2022.

[13] Sarebbe interessante ravvisare i punti di contatto fra questa origine tecnologica immaginata da Bergson e la visione antropotecnica di Sloterdijk che individua alcune tecniche primarie attraverso le quali si dà l’uomo e, in particolare, nello strumento, nel mezzo duro e nel lancio, la prima capacità di produrre azioni a distanza, una primordiale forma di teoria e di elaborazione di valori di verità. Si rinvia nello specifico a La domesticazione dell’essere e a Regole per il parco umano in P. Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger (2001), tr. it. Bompiani, Milano 2004.

[14] Si veda G. Piatti, Il corpo esteso dell’uomo. Tecnica e vita in Bergson e Simondon, in «Lo Sguardo», n. 26, 2018 (I), pp. 87-106.

[15] Deleuze è il primo a sostenere il materialismo di Bergson, sin da quando curerà, su invito di Maurice Merleau-Ponty la voce “Bergson” per Les Philosophes célèbres, dove, in risposta alla linea che ascriveva Bergson a mancato filosofo dell’existence, Deleuze ne fa uno straordinario filosofo della différence e, appunto, un materialista. Per Deleuze, infatti, il primo capitolo di Materia e memoria è il testo più materialista della storia della filosofia. Cfr. Les philosophes de l’antiquité au XX siècle, Le Livre de Poche, Paris 2006.

[16] È ciò che intendeva Deleuze quando parlava del piano di immanenza come campo trascendentale: «un campo trascendentale si distingue dall’esperienza in quanto non si riferisce a un oggetto né appartiene a un soggetto (…) si presenta come pura corrente di coscienza a-soggettiva, coscienza pre-riflessiva impersonale, durata qualitativa della coscienza senza io»; cfr. G. Deleuze, Immanenza: una vita... (1995), tr. it. Mimesis, Milano 2010, p. 7.

[17] Sartre, in Un’idea fondamentale della fenomenologia di Husserl: l’intenzionalità, afferma a tal proposito che «la coscienza non ha un “di dentro”» e che «conoscere è “esplodere verso”». La coscienza, allora, catapultata nel mondo, riscopre nelle cose le qualità che è solita attribuire loro, come la bellezza di una cosa bella o l’amore per una donna amabile; cfr. J.P. Sartre, Un’idea fondamentale della fenomenologia di Husserl: l’intenzionalità (1939), in F. Fergnano e P.A. Rovatti (a cura di), Materialismo e rivoluzione, Il Saggiatore, Milano 1977, pp. 139-143; qui pp. 140-141-142. Sul tema si veda anche E. Alliez, De l’impossibilité de la phénomenologie sur la philosophie française contemporaine, Vrin, Paris 1995, pp. 73-75.

[18] La letteratura sul tema dell’immagine in Bergson è vastissima. Ci limitiamo qui ad alcuni rimandi essenziali: L. Husson, L’Intellectualisme de Bergson. Genèse et développement de la notion bergsonienne d’intuition, Puf, Paris 1947; L. Adolphe, La Dialectique des images chez Bergson, Paris 1951; N. Cornibert, Image et matière. Étude sur la notion d’image dans matière et mémoire de Bergson, Hermann, Puf, Paris 2012; S. Grandone, Struttura, imitazione, evento: la filosofia della vita in Henri Bergson, Aracne, Roma 2015.

[19] Cfr. H. Bergson, Matière et mémoire. Essai sur la relation du corps à l’esprit, Puf, Paris 2017, p. 11.

[20] N. Cornibert, Image et matière, cit., p. 13.

[21] Ibid.

[22] Si veda in particolare gli atti del convegno tenutosi a Lille nel 1996 a cura di G. Forzy, P. Gallois, Bergson et les neurosciences, Institut Synthélabo, Le Plessis Robinson, Lille 1997; o, ancora, all’attenzione che dedica il neurologo Alain Berthoz nei suoi lavori alla teoria della percezione bergsoniana. Nel suo Il senso del movimento, Bergson è più volte evocato per avvalorare la tesi che «la percezione non è solamente un’interpretazione dei messaggi sensoriali: essa è condizionata dall’azione, è una sua simulazione interna, è giudizio, scelta, è anticipazione delle conseguenze dell’azione», ossia la percezione è un’azione simulata. Cfr. A. Berthoz, Il senso del movimento (1997), tr. it. McGraw-Hill, Milano 1998, p. 1.

[23] Il giudizio di Ronchi a tal proposito è particolarmente severo. Come si legge in Bergson: una sintesi: «la teoria bergsoniana della percezione pura è forse uno dei più importanti contributi che la filosofia del Novecento abbia dato al secolare dibattito sul rapporto mente-natura. Vederla così spesso ignorata o fraintesa nelle infinite discussioni sull’argomento presenti nella letteratura scientifica contemporanea (soprattutto nell’ambito delle cosiddette “neuroscienze”) lascia veramente di stucco»; cfr. R. Ronchi, Bergson: una sintesi, cit., p. 93.

[24] La letteratura sul tema è davvero ampissima, rinviamo ad alcune indicazioni bibliografiche a nostro giudizio essenziali rispetto ai due paradigmi: F. Caruana – A. Borghi, Il cervello in azione. Introduzione alle nuove scienze della mente, Il Mulino, Bologna 2016; A. Paternoster, I fondamenti epistemologici della «nuova» scienza cognitiva, in L. Floridi (a cura di), Linee di ricerca, SWIF, Bari 2005; M. Di Francesco, G. Piredda, La mente estesa. Dove finisce la mente e comincia il resto del mondo?, Mondadori, Milano 2012.

[25] S. Hurley, Consciousness in action, Harward University Press, Cambridge 1998, p. 2.

[26] Per una ricognizione sull’argomento, ferma la varietà degli indirizzi, si veda almeno: M.C. Amoretti, La mente fuori dal corpo, Franco Angeli, Milano 2011; L. A. Clark, D.J. Chalmers, The extended mind, in «Analysis», vol. LVIII, n. 1, pp. 7-19; R. Manzotti, La mente allargata. Perché la coscienza e il mondo sono la stessa cosa, Il Saggiatore, Milano 2019 e M.C. Amoretti, R. Manzotti, Esternalismi, in «Rivista di Filosofia», vol. CIII, n.1, pp. 41-67; S. Hurley, The varieties of externalism, in The extended mind, a cura di R. Menary, Cambridge 2010, pp. 101-155.

[27] A fronte del senso comune che abitualmente si pronuncia sulla differenza di quantità tra stati puramente interni (per cui affermiamo di avere più o meno caldo, di sentirci più o meno tristi, etc.), una prima soluzione per Bergson consisterebbe nel definire l’intensità di una sensazione attraverso il numero e la grandezza delle cause oggettive e quindi misurabili che l’hanno determinata. Ma, a ben guardare, questa soluzione si mostra subito come inadeguata, poiché spesso il paragone fra due intensità è condotto senza tener conto del numero delle cause né del loro modo d’azione. La quantità negli stati psicologici deriva dai movimenti di reazione che li accompagnano, e se astraessimo da quelli percepiremmo la qualità pura. L’esito del primo capitolo pertanto è: «o la sensazione è una qualità pura, oppure se è una grandezza bisogna cercare di misurarla»; Cfr. H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza (1889), tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2002, p. 48.

[28] Cfr. H. Bergson, L’energia spirituale (1919), tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2008.

[29] Ibid., p. 7.

[30] Come afferma P.A. Miquel nel dossier su Bergson et la science degli Annales bergsoniennes: «la perspective du philosophe français est celle de la confrontation entre la philosophie et la science. Il n’est plus question pour cet auteur de dissocier ces deux disciplines»; Cfr. Bergson et la science, cit., p. 165. In generale il lavoro di P.A. Miquel ha avuto l’encomiabile merito di mostrare come Bergson, in ogni suo testo, si confronti i risultati provenienti dalle scienze, dalla psicofisica alle relatività, dagli studi sulle alterazioni e i deficit memoriali alla teoria evoluzionistica. Si rinvia in particolare a P.A. Miquel, Bergson dans le miroir des sciences, Kimé, Paris 2014.

[31] H. Bergson, Materia e memoria (1896), tr. it. Laterza, Roma-Bari 2009, p. 198. Per un’analisi più dettagliata del rapporto tra Bergson e la scienza si rinvia al terzo volume degli Annales bergsoniennes, Bergson et la science, III, Puf, Paris 2007.

[32] H. Bergson, L’anima e il corpo, in L’energia spirituale, cit., pp. 23-45, p. 28.

[33] Id., Materia e memoria, cit., p. 23.

[34] Id., La coscienza e la vita, cit., p. 8.

[35] Si tratta di una visione che mostra delle straordinarie consonanze con le tesi funzionaliste avanzate circa negli stessi anni da William James, amico e corrispondente di Bergson. Come si legge in una lettera di Bergson del 6 gennaio 1903, indirizzata proprio a James: «sono convinto che la vita è, da cima a fondo, un fenomeno d’attenzione. Il cervello è la direzione stessa di questa attenzione: esso segna, delimita e misura il restringimento psicologico che è necessario all’azione; infine, non è né il duplicato né lo strumento della vita cosciente, è piuttosto la punta estrema, la parte che si inserisce negli avvenimenti – simile alla prua dove la nave si restringe per fendere l’oceano»; o, ancora, nella risposta di James del 25 febbraio 1903: «sono convinto che una filosofia dell’esperienza pura, così come io ritengo essere la vostra, si potrebbe mettere all’opera, per riconciliare molte delle croniche opposizioni tra scuole di pensiero. Penso che la vostra radicale negazione [...] che il cervello possa in qualche modo essere la causa fiendi della coscienza abbia introdotto un’improvvisa chiarezza, ed eliminato una parte del paradosso idealista»; Cfr. H. Bergson, W. James, Durata reale e flusso di coscienza. Lettere e altri scritti (1902-1939), Raffaello Cortina, Milano 2014, qui p. 6 e 8.

[36] Come nota Merleau-Ponty in L’occhio e lo spirito «la parola immagine ha una cattiva fama»; cfr. M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito (1961), tr. it. SE, Milano 1989, p. 21.

[37] Vale la pena rievocare ancora una volta il carteggio con James. In una lettera datata 20 luglio 1905, Bergson equipara il concetto di esperienza pura alla sua nozione di immagine: «c’è l’esperienza pura, che non è né soggettiva né oggettiva (io impiego la parola immagine per indicare una realtà di questo genere)»; cfr. H. Bergson, W. James, Durata reale e flusso di coscienza, cit., p. 24.

[38] J. P. Sarte, L’immaginazione (1936), tr. it. Bompiani, Milano 1962, p. 55. Nel saggio introduttivo all’edizione italiana de L’imaginaire – l’altro saggio sartriano dedicato all’immagine e concepito assieme a L’immaginazione – Raoul Kirchmayr ricostruisce in maniera efficace questa particolare fase dell’iter speculativo sartriano, ossia l’apprendistato fenomenologico e la ricusazione dell’originario bergsonismo: «Il commiato a Bergson ha luogo in alcune pagine dense e dure dell’Immaginazione, nelle quali Sartre discute il pensiero bergsoniano all’interno della critica alle metafisiche dell’immagine […] Il tono del discorso con cui Sartre regola di fatto i propri conti con il bergsonismo è chiaro e già lascia intendere qual è, secondo Sartre, il punto debole di quel pensiero: volendo rifondare la concezione dell’immagine, il bergsonismo rimane impigliato nella metafisica che voleva criticare…»; R. Kirchmayr, Introduzione a L’immaginario di J.-P. Sartre, in J.-P. Sartre, L’immaginario, psicologia fenomenologica dell’immaginazione (1940), tr. it. Einaudi, Torino 2007, pp. 16-17.

[39] H. Bergson, Materia e memoria, cit., p. 5.

[40] Ibid., pp. 33-34.

[41] Nell’anno accademico 1947-1948, Merleau-Ponty tiene parallelamente un corso sia alla Facoltà di Lettere a Lione sia all’École Normale di Parigi che ha per oggetto l’unione dell’anima e del corpo in Malebranche, Biran e Bergson (scelti come autori di riferimento per il programma dell’agrégation di quell’anno). Le ultime cinque lezioni del Corso costituiscono un vero e proprio commento a Materia e memoria, opera che, ingiustamente trascurata nel’45, appare ora decisiva nel riaprire la “pratica Bergson” e nel tentativo di restituirlo al dibattito filosofico. In quell’occasione il fenomenologo scopre che il modo attraverso cui sono legati oggetto percepito e soggetto percipiente nella gnoseologia bergsoniana è straordinariamente peculiare nonché innovativo. Ciò che vi è di rivoluzionario in Bergson agli occhi di Merleau-Ponty è il fatto che ignora la filosofia riflessiva: «grazie a questa ingenuità [naïveté], egli si trova a scoprire ciò che rimane inaccessibile all’analisi riflessiva: la cosa e la coscienza della cosa sono collegate, non come dei correlativi, ma in quanto assolutamente simultanei, senza alcuna priorità»; Cfr. M. Merleau-Ponty, L’unione dell’anima e del corpo in Malebranche, Biran e Bergson (1978), tr. it. Orthotes, Napoli-Salerno 2017, p. 112.

[42] H. Bergson, Materia e memoria, cit., p. 195.

[43] Ibid., p. 16.

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