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Lo sfruttamento della libertà come fondamento del neoliberalismo: Una riflessione attraverso la filosofia politica di Byung-Chul Han

Autore


Luca Valentino

Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa-IUSS Pavia

Dottorando di Ricerca presso La Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa-IUSS Pavia


  1. Introduzione
  2. Potere, libertà e violenza
  3. Il neoliberalismo e la fine della libertà
  4. Oltre la crisi della libertà

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S&F_n. 30_2023

Abstract


The exploitation of freedom as the foundation of neoliberalism: A reflection through the political philosophy of Byung-Chul Han

The aim of this paper is to establish an analysis of Byung-Chul Han’s political philosophy in order to show how neoliberal power is based on the exploitation of individual freedom and, therefore, puts people in a new condition of subjection to power, to which Han refers with the expression of “crisis of freedom”, in which they are forced to live with the only goal of improving their performances and exploiting themselves up to exhaustion. Continuing the critical comparison with Han’s work, the reflection concludes by examining the philosopher’s proposal on how to exit this crisis of freedom, highlighting the flaws and the inconsistencies that could undermine its actual effectiveness.

  1. Introduzione

Volendo usare un’espressione coniata da Pierre Dardot e Christian Laval, si potrebbe sostenere che la storia politica globale degli ultimi trent’anni sia stata segnata dall’ascesa del neoliberalismo al rango di “nuova ragione del mondo”[1]. Come dimostrano efficacemente i due intellettuali francesi nei loro studi, il processo dell’imporsi della razionalità neoliberale come unica possibile forma di governo non va interpretato come un ritorno al liberalismo classico ottocentesco e alle politiche del laissez-faire, bensì come l’emergere di nuova forma di governo fondata sull’idea che lo Stato e il potere pubblico debbano intervenire sia in maniera diretta sia indiretta per realizzare il progetto di estensione generalizzata della logica di mercato e del principio della concorrenza a tutte le sfere della vita degli individui, comprese quelle che in precedenza sarebbero state considerate escluse dal dominio dell’economia di mercato (sanità, istruzione, tempo libero…).

Tale progetto si è realizzato concretamente attraverso le politiche di liberalizzazioni, privatizzazioni, tagli alla spesa pubblica e compressione dei salari che hanno contraddistinto le azioni di governo globali, e in particolar modo delle democrazie occidentali, degli ultimi decenni. È bene sottolineare che, come illustrato, ad esempio, dagli studi di David Harvey[2], sebbene la neoliberalizzazione del mondo non sia consistita in un processo lineare e regolare, bensì in un’evoluzione caotica e geograficamente irregolare dovuta alle diverse condizioni storiche e politiche proprie di ogni paese, è possibile identificare pratiche, risultati ed effetti comuni a tutti i contesti che sono stati investiti da tale processo. Senza entrare nello specifico delle politiche di governo neoliberali e della violenza che spesso ha accompagnato l’affermarsi di tali politiche, basti pensare ad esempio a casi emblematici come il colpo di Stato in Cile del 1973 o le repressioni dei movimenti di contestazione come nel caso del movimento No-Global a Genova nel 2001 e delle proteste anti-austerity seguite alla crisi finanziaria del 2008, poiché farlo richiederebbe uno spazio ben più ampio di quello del presente contributo, ciò che qui si intende fare è porre al centro della riflessione proprio uno dei principali risultati del processo di neoliberalizzazione. Si tratta di evidenziare, nello specifico, come uno dei maggiori punti di forza e di novità del neoliberalismo consista nell’aver condotto gli individui ad interiorizzare la logica del mercato e a comportarsi in accordo ad essa tramite l’impiego di tecnologie disciplinari, che non si presentano però, agli occhi di chi le subisce, come limitazioni della propria libertà bensì come strumenti di difesa e garanzia della libertà individuale. Riguardo questo punto, la tesi che si vuole qui dimostrare è che il neoliberalismo, piuttosto che garantire la difesa della libertà individuale, si fonda in realtà sullo sfruttamento di tale libertà per far sì che gli individui si adeguino autonomamente alle norme di comportamento del nuovo soggetto di prestazione neoliberale.

A tal fine, le riflessioni che seguono si presentano come il tentativo di ricostruire e analizzare i principali snodi teorici della filosofia politica di Byung-Chul Han[3], ad oggi una delle più interessanti voci di critica della società neoliberale, ed istituire, così, un confronto con il pensiero del filosofo sudcoreano da cui far emergere un chiara descrizione della paradossale condizione di sfruttamento della libertà in cui vivono gli individui sotto il dominio della razionalità neoliberale e di come ciò costituisca il fondamento stesso del potere neoliberale.

Tale confronto si articola in tre parti: la prima parte è dedicata alla ricostruzione delle riflessioni di Han in merito all’elaborazione di un concetto generale e flessibile di potere, con particolare attenzione alla chiarificazione della relazione tra potere, libertà e violenza; nella seconda parte si prende in esame come tali riflessioni vengano ulteriormente approfondite e applicate da Han nella sua critica della società contemporanea, mettendo in risalto il carattere di novità radicale che il potere neoliberale porta con sé in termini delle tecnologie di governo impiegate per assoggettare gli individui; nella terza ed ultima parte si esamina in che modo secondo Han sia possibile uscire dalla crisi della libertà determinata dal sistema politico-economico dell’attuale società post-industriale cercando però, in particolare, di far emergere i limiti e le problematiche a cui va incontro la proposta di Han per la società futura e come essa possa risultare, in ultima analisi, incapace di realizzare e garantire una reale emancipazione dei soggetti.

 

2. Potere, libertà e violenza

Il punto di partenza della riflessione appena delineata non può non essere che il saggio del 2005 su Che cos’è il potere?. In tale testo, purtroppo spesso trascurato dalla critica, il filosofo sudcoreano si propone di elaborare una definizione generale di potere e di quegli elementi strutturali del potere, ovvero la libertà e la violenza, la cui interazione e il cui reciproco slittamento sarebbero da ritrovarsi all’origine di tutti le molteplici manifestazioni di potere possibili.

Il punto di partenza di tali analisi è la critica alla concezione conflittuale e oppressiva del potere, ovvero la concezione più diffusa, quantomeno al livello del senso comune, di potere. «Con potere (Macht) – scrive Han – s’intende di solito la seguente relazione causale: il potere di Ego dà origine a un determinato comportamento di Alter contro la volontà di quest’ultimo»[4]. La relazione di potere è concepita così come un rapporto conflittuale tra Ego ed Alter in cui il primo è in grado di imporre le sue decisioni e la sua volontà contro la volontà del secondo. «In tal modo – afferma l’autore – il potere di Ego limita la libertà di Alter, il quale subisce la volontà di Ego come qualcosa di estraneo»[5], costringendolo all’ubbidienza. Secondo il modello causale, dunque, il potere si esprimerebbe attraverso la forma della costrizione. Tale modello, però, sostiene Han, non è in grado di rendere adeguatamente conto della complessità che caratterizza l’insieme di tutte le possibili manifestazioni delle relazioni di potere. Il potere, infatti, non deve necessariamente basarsi sulla violenza e, anzi, quando ciò accade non si ha comunque a che fare con la forma più forte e stabile di potere poiché essa è, piuttosto, espressione di un conflitto tra la volontà di chi subisce il potere e quella di chi lo esercita.

Ben più stabili e difficili da sradicare sono, invece, quelle forme di potere in cui entrambe le volontà coincidono poiché in una tale situazione «il sottoposto segue il volere del potente come se fosse il suo, o addirittura lo anticipa»[6]. Ciò che realmente conta nella distinzione tra le due forme di potere, infatti, non è tanto il contenuto dell’azione, che può anche risultare invariato, ma la forma che si accompagna a tale contenuto. Nel caso del potere più forte, le azioni comandate dalla volontà del potente non vengono percepite da chi le subisce come estranee, bensì vengono accettate e interiorizzate come proprie. Da ciò è possibile comprendere, allora, perché Han affermi che il potere sia in realtà un fenomeno della forma. «Il punto dirimente – scrive Han – è come un’azione viene motivata. Non è il “devo comunque”, bensì il “voglio” a dimostrare che vi è in campo un potere superiore. La risposta a questo tipo di potere non è infatti un “no” interiore, ma un enfatico “sì”»[7].

In altri termini, l’emergere della violenza sarebbe espressione di una relazione tra Ego ed Alter povera di mediazione e può, a volte, essere una caratteristica del potere ma non ne costituisce l’essenza. Come si è visto, infatti, il potere più forte è quello che prevede la sottomissione volontaria di Alter al volere di Ego. Da ciò se ne deriva – nelle parole di Han – che «chi vuole raggiungere un potere assoluto dovrà fare uso non della violenza bensì della libertà dell’Altro»[8]. In una tale relazione di potere «libertà e sottomissione combaciano»[9].

Han, tuttavia, non si limita esclusivamente a criticare il modello causale di potere contrapponendogliene uno opposto, ma punta all’elaborazione di un concetto generale di potere in grado di riassumere al suo interno tutte le diversi tipologie di potere. A tal scopo, è necessario comprendere che il potere basato sulla libertà e quello basato sulla violenza non costituiscono due modelli contrari, bensì due possibili manifestazioni del potere che, se analizzate ad un livello più astratto, rivelano la medesima struttura fondamentale. Han descrive così tale struttura:

Il potere mette in condizione Ego di essere a proprio agio nell’Altro. Produce una continuità del sé. […] Questa continuità si può raggiungere sia con la costrizione, sia adoperando la libertà[10].

 

La caratteristica essenziale del potere è, dunque, quella di permettere ad Ego di continuarsi in Alter, di propagare sé stesso e la propria volontà attraverso la creazione di uno spazio che permetta all’Io di ritornare a sé nell’Altro. Il ritorno-a-sé-nell’Altro è il movimento specifico compiuto dall’Io in una situazione di potere. Tale movimento è ciò che accomuna tutte le tipologie di potere e caratterizza tanto il potere che fa uso della violenza quanto quello che sfrutta la libertà.

Il continuum di Ego che si genera nel caso del potere fondato sulla libertà è stabile poiché è mediato dall’adesione volontaria di Alter alle decisioni di Ego. Quando questa mediazione viene meno, allora il potere è costretto a far ricorso alla violenza per piegare la volontà di Alter. Tale violenza, però, sopprimendo la libertà dell’Altro non permette l’instaurarsi di alcun tipo di continuità interiore tra Ego ed Alter, condannando così il potere ad una condizione di estrema fragilità. Un potere a cui l’Altro oppone resistenza, anche se solo interiormente, è infatti un potere che è sempre in pericolo di essere rovesciato. In questo senso, allora, è possibile affermare che la libertà e la violenza costituiscono «gli estremi della gamma del potere»[11] e la forma esterna assunta da quest’ultimo è determinata proprio dall’intensità del senso di libertà che provano gli individui. Non importa che tale senso di libertà abbia un fondamento reale o sia solo un’illusione, ciò che conta è solamente l’intensità con cui i governati dicono “sì” alla volontà dei governanti, modellando volontariamente le loro azioni secondo i criteri imposti da chi detiene il potere.

La libertà, dunque, assume un ruolo centrale nella riflessione politica di Han in quanto discriminante sia tra le diverse forme del potere sia tra il potere in quanto tale e la nuda violenza. Han descrive così la relazione che intercorre tra potere, libertà e violenza:

Il potere non è contrapposto alla libertà. È proprio la libertà a distinguere il potere dalla violenza o dalla costrizione. […] Nel caso di azioni forzate non si crea alcun potere. L’obbedienza in sé prevede libertà, in quanto è pur sempre una scelta. La violenza fisica distrugge invece anche la possibilità dell’obbedienza. Viene subita passivamente[12].

 

Il potere presuppone sempre la libertà di Alter, ovvero la possibilità di un’alternativa rispetto al volere del potente. Tale possibilità potrebbe anche rivelarsi essere solamente un’illusione ma si tratterebbe, per l’appunto, dell’illusione di essere libero, ovvero dell’illusione che le proprie decisioni dipendano esclusivamente dalla propria volontà. In altri termini, la libertà, anche se solo un’illusione, è la condizione necessaria perché si istauri una relazione di potere.

Le considerazioni fin qui analizzate conducono Han ad ammettere come ipotesi possibile quella dell’esistenza di un “potere libero”[13], ovvero un potere che non avrebbe bisogno di far ricorso ad alcuna sanzione negativa poiché la mediazione tra Ego ed Alter sarebbe al massimo grado e la volontà del secondo coinciderebbe integralmente con le decisioni prese dal primo. È chiaro, però, che si tratti esclusivamente di una possibilità logica che difficilmente potrebbe mai realizzarsi concretamente. Lo stesso Han, infatti, non fornisce mai un esempio concreto di tale potere. Si potrebbe essere tentati frettolosamente di individuare una manifestazione del potere fondato sulla libertà nell’attuale sistema di potere neoliberale. Tuttavia, come si cercherà di dimostrare in seguito, nonostante la razionalità neoliberale si fondi sullo sfruttamento della libertà degli individui, l’adesione del comportamento di quest’ultimi alle leggi della razionalità economica e al criterio della massimizzazione dell’utile si accompagna all’emergere di un nuovo tipo di violenza, diverso da quello della violenza fisica e del quale però, nel testo del 2005, non vi è ancora alcuna traccia. La violenza è, in tal caso, ancora solamente la violenza della negatività e della costrizione che è sempre negazione della libertà dell’Altro.

Sarebbe sbagliato, pertanto, ritenere che le posizioni espresse in Che cos’è il potere? costituiscano un punto di arrivo del pensiero del filosofo sudcoreano. Piuttosto, le tesi fin qui esposte possono essere interpretate come un punto di partenza, la base di un pensiero che nella sua evoluzione verrà rivista e profondamente ampliata.

Il punto più problematico dell’argomentazione portata avanti nel testo del 2005 è probabilmente quello relativo alla possibilità del potere libero. Tale potere viene presentato da Han in maniera appena accennata ed esclusivamente come una pura possibilità logica. Un potere libero sarebbe un potere che si fonda esclusivamente sulla libertà degli individui, in cui dunque la mediazione tra l’Io del potere e l’Altro è al massimo, al punto tale che l’Altro finirebbe per coincidere totalmente con l’Io e in cui, di conseguenza, non vi sarebbe violenza. Tale possibilità, tuttavia, non viene pensata a fondo in tutte le sue conseguenze nel saggio del 2005 e, in questo senso, la produzione successiva del filosofo, dedicata all’analisi del potere neoliberale e dei suoi aspetti violenti e problematici potrebbe essere letta, nonostante Han non lo affermi mai esplicitamente, proprio come l’approfondimento della struttura reale di quel “potere libero” che manca nel testo del 2005.

È importante, pertanto, continuare la presente riflessione per mostrare come l’analisi della società neoliberale conduca Han a rivedere alcuni dei punti teorici centrali della questione del potere e, in particolare, della relazione tra potere, libertà e violenza.

 

3. Il neoliberalismo e la fine della libertà

A partire dal 2010, anno di pubblicazione de La società della stanchezza, il pensatore sudcoreano sposta il focus delle sue riflessioni sull’analisi critica della società tardo-moderna neoliberale e sul modo in cui questa trasforma radicalmente la soggettività degli individui.

La riflessione di Han ha origine nella presa d’atto che l’attuale società neoliberale non può più essere compresa applicando il modello foucaultiano della società disciplinare. La società tardo-industriale, afferma il filosofo sudcoreano, non è più la società descritta da Foucault, «fatta di ospedali, manicomi, prigioni, caserme e fabbriche»[14]. Si tratta, infatti, di «una società molto diversa, fatta di fitness center, grattacieli di uffici, banche, aeroporti, centri commerciali e laboratori genetici»[15]. Nel XXI secolo la società sarebbe così passata dall’essere una società disciplinare a quella che Han definisce una “società della prestazione”.

Nonostante in Han manchi un riferimento esplicito, è possibile far risalire l’origine di tale definizione alla riflessione elaborata da Marcuse in Eros e civiltà. In tale opera, l’intento dell’autore, infatti, era quello di operare una revisione della freudiana teoria della civilizzazione sottolineando come, nella società capitalista, il “principio di realtà” assumesse la forma storica del “principio di prestazione”, ovvero di un principio di realtà a cui si aggiunge una repressione addizionale frutto delle «restrizioni rese necessarie dal potere sociale, o dominio sociale» e che «si distingue dalla "repressione fondamentale", o di base, cioè dalle “modificazioni” agli istinti strettamente necessarie per il perpetuarsi della razza umana nella civiltà»[16].

A partire da tale riferimento, seguendo la ricostruzione effettuata da Agostino Cera, è possibile definire la società della prestazione di cui parla Han come «quel particolare tipo di società nella quale il principio di prestazione raggiunge lo statuto di “cifra antropologica” ovvero si erge al rango di paradigma»[17] e «assume i caratteri di una obbligazione morale ovvero allorché l’essere umano diventa al tempo stesso soggetto e oggetto della prestazione»[18], interiorizzando il principio di prestazione e rendendo l’individuo il fine ultimo della stessa.

Nello specifico, secondo Han, la società disciplinare era una società pervasa di obblighi e divieti finalizzati a dare una precisa forma ai comportamenti degli individui. «Il verbo modale negativo in essa dominante – afferma il filosofo sudcoreano – è il “non-potere” (Nicht-Dürfen[19]. Al contrario, a dominare nella società della prestazione è il verbo modale positivo del “poter-fare” (Können) illimitato. Si tratta, cioè, di una società della positività in cui, attraverso un radicale processo di de-regolamentazione, i soggetti non si trovano più invischiati in un’intricata rete fatta di obblighi, divieti e leggi, ma sono incoraggiati e invogliati a condurre la propria vita come imprenditori di se stessi con l’unico obiettivo dell’aumento costante del loro capitale umano e del miglioramento illimitato delle loro prestazioni.

Il passaggio da un tipo di società all’altro è determinato, nella ricostruzione di Han, dalla ricerca costante dell’aumento della produttività:

A un certo punto della produttività la tecnica disciplinare, ovvero lo schema negativo del divieto, cozza rapidamente contro i propri limiti. Con l’incremento della produttività il paradigma della regolamentazione viene rimpiazzato dal paradigma della prestazione, ossia dallo schema positivo del poter-fare poiché, a partire da un determinato livello di produttività, la negatività del divieto finisce per bloccare e inibire un ulteriore incremento[20].

 

Il soggetto di prestazione, in questo senso, si rivela essere ampiamente più produttivo ed efficiente del soggetto disciplinare.

Tuttavia, l’aspettò più emblematico della novità radicale rappresentata dalla società della prestazione è, secondo il filosofo sudcoreano, il manifestarsi di un nuovo tipo di violenza, una «violenza sistemica che connota la società della prestazione e provoca infarti psichici»[21], esercita dall’io contro se stesso e non più contro l’Altro. Tale violenza assume la forma di una pressione che spinge gli individui a sfruttare se stessi nella ricerca costante del miglioramento delle proprie prestazioni fino allo sfinimento, sfociando così, in ultimo, in sindrome da depressione e burnout. In questo senso, l’individuo depresso, avendo interiorizzato l’imperativo della prestazione, è al tempo stesso vittima e carnefice di se stesso. La depressione, dunque, è strettamente legata alla società del poter-fare. Scrive Han:

Il lamento dell’individuo depresso, “niente è possibile”, è concepibile soltanto in una società che ritenga che “niente è impossibile”. Il “non-esser-più-in-grado-di-poter-fare” conduce a un’autoaccusa distruttiva e all’auto-aggressione. Il soggetto di prestazione si trova in guerra con sé stesso. Il depresso è l’invalido di questa guerra intestina. La depressione è la malattia di una società che soffre dell’eccesso di positività[22].

 

La società della prestazione è una società della positività poiché viene a mancare la negatività rappresentata dall’istanza esterna di domino che obbliga i soggetti a comportarsi in un determinato modo. Il venire meno di tale istanza, però, ed è questo il punto fondamentale da cui bisogna partire per una comprensione approfondita del potere neoliberale, non significa che gli individui godano di una maggiore libertà. Al contrario, afferma Han, la caratteristica del dominio neoliberale è che libertà e costrizione coincidono. Il soggetto neoliberale, infatti, avendo interiorizzato la normatività economica alla base della razionalità neoliberale, adegua volontariamente il proprio comportamento a quest’ultima, sfruttandosi autonomamente fino all’esaurimento. «Così il soggetto di prestazione – scrive Han – si abbandona alla libertà costrittiva o alla libera costrizione volta a massimizzare la prestazione»[23].

L’autosfruttamento del soggetto di prestazione, argomenta il filosofo sudcoreano, è ben più efficace dello sfruttamento da parte di altri poiché si accompagna ad un sentimento di libertà. Tale sentimento, però, non fa altro che peggiorare le condizioni di sfruttamento dell’individuo che, sentendosi adesso l’unico responsabile della propria sorte, sfrutta se stesso fino allo sfinimento e incolpa esclusivamente se stesso dei propri fallimenti. In questo senso, allora, è possibile affermare che l’eccesso di positività che caratterizza la società della prestazione, il venir meno dell’Altro e del dominio esterno, genera «una libertà paradossale che, in virtù delle strutture costrittive a essa connaturate, si rovescia in violenza»[24].

Contrariamente a quanto si poteva ricavare dalle riflessioni di Che cos’è il potere, l’analisi della società della prestazione conduce Han a ripensare radicalmente la sua idea dei rapporti tra potere, libertà e violenza. Tale ripensamento può essere condensato nell’idea che violenza e libertà non rappresentano più i due poli opposti della gamma del potere. Ciò accade poiché Han affianca alla vecchia concezione negativa della violenza l’idea di una violenza positiva che non va più contro la libertà, ma la accompagna.

È bene evidenziare che, sulla scia di quanto sostengono alcuni interpreti che accusano il filosofo sudcoreano di “primomondismo”[25], nonostante Han non affermi mai cha tale violenza sostituisca ed elimini del tutto la violenza fisica propria della costrizione e della repressione, di cui il neoliberalismo ha fatto e continua spesso a fare uso per affermare le proprie politiche, specialmente nelle aree del Sud globale, è evidente che le sue riflessioni assumono senso solamente se assunte come il tentativo di descrivere l’emergere di un nuovo tipo di violenza che caratterizza principalmente le società sviluppate del Nord globale. Tale violenza, ed è questo l’aspetto fondamentale della critica haniana della società della prestazione, non è un elemento estrinseco alla libertà ma è un effetto stesso della libertà paradossale su cui si fonda il potere neoliberale. Distaccandosi ormai nettamente dalle considerazioni ottimistiche riguardo la possibilità di un “potere libero”, l’analisi della società neoliberale rivela l’esistenza di una dialettica che muta la libertà in costrizione e ne fa la causa del nuovo tipo di violenza che pervade la società post-industriale.

Tali riflessioni sono ulteriormente approfondite in Psicopolitica, saggio del 2014 in cui l’autore mette esplicitamente al centro delle sue riflessioni il neoliberalismo e le nuove tecniche di potere neoliberali.

In tal testo, Han parla del neoliberalismo come una forma di “potere intelligente” poiché, piuttosto che manifestarsi come repressione o negazione della libertà, seduce gli individui affinché questi si sottomettano autonomamente al rapporto di potere. Si tratta di un potere che fa a meno della negatività della violenza fisica e del divieto per assumere quella che Han definisce una “forma permissiva”. Tale forma di potere è ben più forte e subdola di quella negativa poiché è in grado di rendere il potere invisibile. Il potere che si fonda sulla libertà degli individui, infatti, non suscitando resistenza non viene neanche mai messo a tema in quanto tale e ciò gli permette di essere assai più efficace. Scrive il filosofo sudcoreano:

La tecnica di potere neoliberale assume una forma subdola, duttile, intelligente e si sottrae a ogni visibilità. Qui, il soggetto sottomesso non è mai cosciente della propria sottomissione: il rapporto di dominio resta per lui del tutto celato. Così, si crede libero[26].

 

La tecnica di potere neoliberale si rivela così molto più efficace del potere disciplinare poiché l’istanza di dominio rimane celata agli occhi dei soggetti che, credendosi liberi, si sottomettono autonomamente alla razionalità dominante.

Tale potere intelligente «ci invita di continuo a comunicare, a condividere, a partecipare, a esprimere le nostre opinioni, i nostri bisogni desideri o preferenze, e a raccontare la nostra vita»[27] evitando così che si formi un qualsiasi tipo di resistenza e impegnando gli individui in un continuo processo di auto-ottimizzazione delle proprie vite e delle proprie prestazioni. Tale impossibilità di resistere ad un potere fondato sulla libertà degli individui è la causa che genera quella che Han definisce la “crisi della libertà” nella società contemporanea:

La crisi della libertà nella società contemporanea consiste nel doversi confrontare con una tecnica di potere che non nega o reprime la libertà, ma la sfrutta. La libera scelta viene annullata in favore di una libera selezione tra le offerte.[28]

 

L’ascesa della razionalità di governo neoliberale porta con sé una fatale dialettica che, alterando il senso della libertà individuale, trasforma quest’ultima da strumento di emancipazione a fonte di costrizione e dominio. Così, sotto il dominio della razionalità neoliberale, «non ci riteniamo soggetti sottomessi, ma progetti liberi, che delineano e reinventano se stessi in modo sempre nuovo»[29]. Nonostante tale passaggio ad una nuova forma di vita sia sentito come un momento di liberazione, però, quest’ultima si rivela essere in fondo una forma di assoggettamento e di dominio ancora più efficace delle precedenti. Nel testo di Han si legge:

L’io come progetto, che crede di essersi liberato da obblighi esterni e costrizioni imposte da altri, si sottomette ora a obblighi interiori e a costrizioni autoimposte, forzandosi alla prestazione e all’ottimizzazione[30].

 

In tale contesto, i disturbi psichici a cui si faceva riferimento in precedenza si rivelano essere espressioni patologiche della crisi della libertà che attanaglia le società delle attuali democrazie liberali occidentali. La libertà è in crisi poiché essa conduce ad un’interiorizzazione della costrizione e dello sfruttamento. «Il soggetto di prestazione, che si crede libero, è in realtà un servo: è un servo assoluto nella misura in cui sfrutta se stesso senza un padrone»[31].

Tale condizione di assoluta servitù è realizzata dal neoliberalismo attraverso la trasformazione di ogni lavoratore in imprenditore. Polemizzando tanto con la dialettica servo-padrone di Hegel[32] quanto con il materialismo dialettico di Marx, Han afferma che l’esito dello sviluppo della società capitalista e delle sue contraddizioni interne non è né la liberazione del servo tramite il lavoro né tantomeno l’avvento della società comunista, bensì la totalizzazione del lavoro che, elevando ogni individuo al rango di imprenditore di se stesso, elimina qualsiasi distinzione tra servo e padrone, rendendo ognuno al tempo stesso sfruttato e sfruttatore di se stesso.

Il neoliberalismo costruisce così una società di imprenditori, ciascuno isolato in se stesso, preoccupati esclusivamente dell’aumento della propria capacità produttiva e del proprio capitale umano. Non vi è più alcuna lotta di classe poiché una tale società non si basa più, secondo la ricostruzione del filosofo sudcoreano, su una distinzione tra classi antagoniste. Tale sistema politico-economico si rivela essere altamente stabile proprio perché elimina qualsiasi idea di conflitto dalla coscienza degli individui che non sia quello del conflitto con se stessi per il superamento continuo dei propri limiti. Come afferma Han: «In conseguenza dell’isolamento del soggetto di prestazione che sfrutta se stesso, non si forma neppure un Noi politico capace di un agire comune»[33]. La violenza generata dalla crisi della libertà non suscita alcuna resistenza poiché non proviene da un Altro esterno che aggredisce l’Io, bensì deriva dalla guerra che l’Io muove a se stesso. Nella società neoliberale, il soggetto che fallisce, in nome della libertà illimitata che gli è stata riconosciuta, viene erroneamente ritenuto l’unico responsabile della propria sorte e, piuttosto che mettere in dubbio la società stessa, incolpa se stesso e si vergogna del proprio fallimento.

Han definisce la tecnologia di potere peculiare del neoliberalismo, che è all’origine della crisi della libertà, con il termine di “psicopolitica”. L’autore elabora tale concetto attraverso un confronto diretto con l’idea foucaultiana di “biopolitica”. Ancora una volta, il punto di partenza per ricostruire il pensiero di Han è il passaggio dalla società disciplinare alla nuova società post-industriale. 

Nella ricostruzione foucaultiana, il processo di industrializzazione della società occidentale aveva fatto emergere una nuova forma di potere che non si manifestava più come il potere di morte detenuto dal sovrano sui suoi sudditi ma come un potere di vita, ovvero un potere la cui funzione non era più quella di uccidere, ma quello della gestione e dell’organizzazione della vita degli individui e che Foucault indentificò con il termine “biopolitica”. Tale cambiamento di paradigma fu dovuto principalmente al passaggio alla nuova forma di produzione del capitalismo industriale. L’obiettivo del nuovo potere era infatti quello di disciplinare i corpi attraverso la loro irreggimentazione in un rigoroso sistema di norme e di pratiche ortopediche finalizzate a rendere gli individui più adeguati al sistema della produzione meccanica industriale.

Tuttavia, nota Han, la biopolitica non è in grado di esercitare un controllo completo sugli individui poiché «la tecnica ortopedica della società disciplinare è troppo rozza per accedere agli strati più profondi della psiche – con le sue voglie, le sue necessità e i suoi bisogni nascosti – e soggiogarli»[34]. La biopolitica, infatti, nella lettura di Han, si concentrerebbe esclusivamente sull’amministrazione dei corpi e sulla regolazione della vita della popolazione. In questo senso, il concetto di biopolitica non sarebbe adatto alla descrizione del potere della società neoliberale che, invece, è interessato soprattutto al controllo e allo sfruttamento della psiche. Tale materiale è invece oggi accessibile e ormai ampiamente sfruttato dal regime neoliberale grazie all’impiego delle moderne tecnologie digitali e dei big data. Tuttavia, è bene sottolineare che, nonostante nei lavori di Han abbondino i riferimenti e le riflessioni sulle nuove tecnologie informatiche e sulle conseguenze che l’impiego di quest’ultime ha per la società e per gli individui, è difficile riscontrare la presenza, nella filosofia del pensatore sudcoreano, di una vera e propria filosofia della tecnologia. Come scrive Federica Buongiorno, «Han’s philosophy is not a philosophy of technology at all because it does not distinguish and investigate the technical aspect of technology, but remains on a more general descriptive level»[35]. Piuttosto che riflettere sul concreto statuto delle diverse tecnologie digitali, infatti, Han opera una riduzione, tutt’altro che scevra di criticità, dell’essenza della tecnologia al paradigma dell’efficienza e della prestazione, che lo rende incapace di pensare ad un uso emancipativo della tecnologia che viene, dunque, considerata esclusivamente come tecnologia di potere e strumento di dominio[36].

Pertanto, Han propone il superamento della categoria di biopolitica e l’impiego del nuovo concetto di “psicopolitica” per la descrizione del potere neoliberale.

Nella ricostruzione del filosofo sudcoreano, Foucault avrebbe deciso sul finire degli anni Settanta di dedicarsi all’analisi delle forme di governo neoliberali poiché convinto anch’egli che il paradigma della società disciplinare non fosse più adeguato a descrivere la società del suo tempo. Ciononostante, rimanendo legato al concetto di biopolitica, Foucault non sarebbe riuscito a compiere quello che per Han avrebbe dovuto essere il necessario passaggio alla psicopolitica.

La conversione alla psiche e all’immaterialità delle informazioni e dei prodotti del capitalismo neoliberale fa sì che il corpo perda la sua centralità come forza produttiva e venga sostituito dalla psiche. Tale conversione è così all’origine della psicopolitica poiché l’attuale sistema di potere agisce principalmente sui processi psichici e mentali, sui desideri e sulle motivazioni degli individui al fine di coinvolgere gli individui in un processo auto-distruttivo di auto-ottimizzazione perenne allo scopo di aumentare indefinitamente la produttività di ogni singolo lavoratore.

Com’è ben noto, in seguito alle sue analisi sul concetto di biopolitica e sulla governamentalità liberale e neoliberale, gli ultimi sviluppi del pensiero di Foucault sono dedicati all’analisi delle tecnologie del sé e delle pratiche di soggettivazione considerate come gli strumenti per l’elaborazione di un’etica del sé come pratica di resistenza alle tecniche di potere e di dominio. Confrontandosi con quest’ultima parte del pensiero di Foucault, Han afferma che il neoliberalismo rappresenterebbe il punto cieco dell’analitica foucaultiana del potere: «Foucault non riconosce che il regime di dominio neoliberale monopolizza integralmente la tecnologia del sé, che l’auto-ottimizzazione permanente come tecnica neoliberale del sé non è altro che una forma più efficace di dominio e di sfruttamento»[37]. In ciò consiste la sottile intelligenza della tecnica di potere del regime neoliberale. Essa non si preoccupa di regolare dall’esterno la vita degli individui, piuttosto fa sì che il soggetto di prestazione, in quanto imprenditore di se stesso, «agisca in autonomia su se stesso così da riprodurre in sé il rapporto di domino e, di conseguenza, da interpretarlo come libertà»[38]. Il neoliberalismo realizza così la coincidenza tra tecnologie del sé e tecnologie di potere nella forma dell’auto-ottimizzazione che si rovescia immediatamente in auto-sfruttamento. Allo stesso modo, la libertà individuale finisce per coincidere con la sottomissione volontaria agli imperativi della logica dell’economia concorrenziale, interiorizzati dagli individui come leggi naturali e immutabili alle quali bisogna necessariamente sottostare, pena il fallimento e l’emarginazione sociale. In tal modo, la psicopolitica neoliberale, riuscendo a penetrare fin nei luoghi più intimi della psiche individuale realizzerebbe, di fatto, la fine della libertà[39].

 

4. Oltre la crisi della libertà

Il confronto svolto fin qui con le riflessioni del pensatore sudcoreano ha dimostrato come il potere che basa la sua forza sulla libertà, cioè il potere che realizza pienamente la coincidenza tra la razionalità dominante e la volontà dei soggetti, si riveli essere ben più oppressivo e almeno altrettanto violento delle forme di potere fondate sul divieto e sulla coercizione. Il potere neoliberale sfrutta la libertà degli individui e ne fa un fondamentale strumento di sottomissione che conduce quest’ultimi ad interiorizzare la logica della razionalità economica ed elimina ogni possibilità di resistenza facendo ricadere esclusivamente sull’individuo, e non sulle storture dell’intero sistema socioeconomico, la colpa dei suoi fallimenti.

Nell’ultima sezione del presente contributo si intende proseguire ulteriormente il confronto con Han per prendere in esame in che modo, secondo l’autore sudcoreano, sia possibile uscire dalla crisi della libertà in cui è invischiata l’attuale società posti-industriale. Il proposito è anche quello di far emergere alcuni punti critici del discorso di Han che lo renderebbero potenzialmente insufficiente per affrontare i problemi da egli stesso delineati e che si è tentato di ricostruire fin qui.

L’ultima sezione di Che cos’è il potere? è dedicata da Han ad affrontare la questione della possibilità dell’eticizzazione del potere. La caratteristica fondamentale del potere, come si è visto, è quella di essere un fenomeno ipsocentrico in cui il sé punta a continuare se stesso nell’Altro. Così «il potere accentra, riunisce ogni cosa in sé, riduce il tutto all’unità»[40] e tutto ciò che invece rimane fuori da questa unità o oppone resistenza a tale movimento viene immediatamente percepito come qualcosa da emarginare o distruggere. È pertanto caratteristica del potere, in quanto fenomeno dell’ipseità, la contrapposizione tra l’Io e l’Altro. Ciò non significa, come dovrebbe essere chiaro alla luce di quanto detto in precedenza, che la struttura del potere coincida con il modello della lotta tra Io ed Altro. Al contrario, il potere dispone della capacità di mediare tra queste due istanze attraverso la libertà. La questione è, però, capire fino a che punto tale mediazione possa portare ad un’eticizzazione del potere, e cioè ad una situazione di affabilità in grado di sottrarre l’Altro al movimento ipsocentrico dell’Io. Equiparando il potere ad un fenomeno di localizzazione, Han scrive:

l’eticizzazione del potere richiede però che il luogo vada oltre il proprio afflato ipsocentrico, che garantisca spazi, anzi luoghi di soggiorno non solo all’Uno ma anche al molteplice, a ciò che resta, ovvero che il luogo scaturisca da un’affabilità originaria che tenga fermo, trattenga questo afflato, questa volontà rivolta al sé[41].

 

La possibilità di questa affabilità è però, secondo Han, assolutamente estranea al potere. «L’affabilità – afferma il filosofo sudcoreano – emana un altro movimento rispetto al potere»[42]. Al potere, in quanto fenomeno della soggettività e del continuum, manca qualsiasi apertura all’alterità, esso tende invece esclusivamente alla «ripetizione del sé e dello stesso»[43].  In questo senso, il potere neoliberale, ovvero la forma di potere più stabile poiché presenta il massimo grado di mediazione essendo fondata sullo sfruttamento della libertà, è anche quello che più di qualsiasi altro espelle qualsiasi alterità dalla vita degli individui rendendo possibile il proliferare infinito dell’Uguale e impendendo il formarsi di qualsiasi soggettività alternativa al soggetto di prestazione neoliberale. Se si rimane sul piano del potere, tale è la conclusione di Han, non è possibile alcuna etica poiché il movimento del potere è per definizione quello del continuarsi di Ego in Alter.

L’affabilità, e dunque l’etica, secondo Han sono possibili solamente in una dimensione che è totalmente altra rispetto a quella del potere. Anche l’affabilità, come il potere, è una forma di mediazione alla quale, però, manca del tutto l’intenzionalità della soggettività. Essa permette che l’Altro non venga percepito esclusivamente a partire dall’Io che punta a continuarsi in esso, ma piuttosto nel suo più proprio esser-così. Tutto ciò è particolarmente rilevante poiché, non ravvisando la possibilità di un’eticizzazione del potere e trovandosi di fronte al compito di dover pensare la possibilità di un modello di società alternativo a quello della società della prestazione neoliberale, Han individuerà proprio nell’affabilità e nel movimento di de-interiorizzazione dell’Io che la caratterizza il principio su cui fondare la società futura.

In Psicopolitca, il filosofo sudcoreano indica esplicitamente nella de-psicologizzazione dell’individuo l’unica possibile via d’uscita dal dominio della psicopolitica neoliberale: «Essa disarma la psicopolitica come medium della sottomissione. Il soggetto viene de-psicologizzato, anzi svuotato, così da renderlo libero per una nuova forma di vita, che non ha ancora un nome»[44].

L’idea di Han è che attraverso la de-interiorizzazione dell’io, venendo meno qualsiasi netta separazione tra Io e Altro, venga meno anche qualsiasi rapporto di potere e di sottomissione, aprendo così la possibilità per una nuova forma di vita che possa svilupparsi su un piano di immanenza in cui scompare qualsiasi trascendenza legata al dominio del capitale e dell’imperativo della prestazione. «Su questo piano immanente della vita – scrive Han – non è possibile stabilire alcun ordine dominante: il capitale si manifesta come trascendenza, che aliena la vita da se stessa. L’immanenza come vita supera questo rapporto di alienazione».[45] Solamente svuotandosi e accedendo così al piano dell’immanenza il soggetto può essere autenticamente libero e lasciare al tempo stesso l’Altro libero di essere nel suo esser-così. «La pura immanenza – specifica Han – è il vuoto, che non si lascia psicologizzare né soggettivizzare. Nel vuoto, la vita immanente è più leggera, più ricca, più libera»[46]. Tale stato di vuoto e di pura immanenza, tuttavia, risulta del tutto inaccessibile, secondo Han, finché l’esistenza dei soggetti è ancora dominata esclusivamente dal paradigma del lavoro e della vita activa. Tale paradigma è infatti ancora quello della rigida separazione tra Io e Altro. In altri termini, non è con l’azione che si può raggiungere quello stato di affabilità e di in-differenza che sarebbe invece condizione necessaria per la liberazione dell’uomo e per la possibilità di un’esistenza nel segno dell’eticità e della felicità. Come fare allora per raggiungere tale stato?

L’idea di Han è che per liberare i soggetti dal giogo del potere neoliberale sia necessario operare una forte rivalutazione della dimensione della vita contemplativa, a scapito della vita activa. «Nello stato contemplativo – afferma Han – ci si ritrae, per così dire, fuori di sé e ci si immerge nelle cose»[47]. L’atmosfera di tale stato è «lo stupore per l’esser-così delle cose»[48]. Contrapporre la quiete della contemplazione all’iperattività della società contemporanea significa, per Han, che bisogna fare affidamento su quella che egli definisce la capacità trasformativa del pensiero, e non dell’azione, per ottenere la liberazione dei soggetti. L’azione, secondo Han, prevede, come il potere, sempre la contrapposizione tra Io ed Altro. Solo il pensiero contemplativo, al contrario, è in grado di disfare la relazione di potere tra Io e Altro e con ciò elevare l’esistenza degli individui sul piano dell’immanenza in cui le relazioni tra gli enti non sono più determinate dalla razionalità economica dell’interesse individuale e in cui ogni cosa diviene libera di presentarsi nel suo più proprio esser-così.

Ciò che si intende mettere in luce adesso è, però, in che senso la proposta di Han per la società futura, così come è presentata nei suoi scritti, potrebbe risultare difficilmente realizzabile e apparire eccessivamente semplificativa. Al di là delle divere problematicità del discorso di Han già evidenziate nel corso di questo contributo, come la mancanza di un approfondimento degli aspetti di violenza fisica e repressiva che pure hanno accompagnato l’affermarsi del neoliberalismo reale, oppure l’assenza di una vera e propria filosofia della tecnica nel discutere dello statuto odierno delle tecnologie digitali, le criticità che si intende evidenziare in conclusione al presente contributo sono principalmente due e sono strettamente collegate tra loro.

Il primo problema ha a che fare direttamente con la questione dell’irrealizzabilità della proposta di Han, se presa in considerazione così come egli la presenta. Nei testi da La società della stanchezza in poi, il filosofo sudcoreano, come si è visto, presenta la dimensione dell’affabilità e dell’abbandono descritta fin qui come l’unica alternativa possibile alla società neoliberale della prestazione e dell’individualismo esasperato; tuttavia, egli non specifica mai nel dettaglio cosa effettivamente cambi nella società al mutare del paradigma alla base dei rapporti sociali.

La proposta che si intende avanzare qui è che, se si vuole comprendere più nel dettaglio che cosa comporti il passaggio al modello dell’affabilità bisogna, piuttosto, fare riferimento ad un testo scritto da Han ben prima che egli spostasse il focus delle sue riflessioni sulla critica della società contemporanea: il saggio sulla Filosofia del buddhismo zen.

Alla base del concetto di vuoto buddhista, secondo Han, infatti, vi è lo stesso movimento di negazione e di de-interiorizzazione dell’Io che si ritrova alla base del concetto di affabilità. I due concetti sono allora, dal punto di vista dell’interesse della presente analisi, equiparabili e in sostanza equivalenti. Ciò che Han dice a proposito del vuoto buddhista, pertanto, si ritiene possa essere applicato anche al problema della società futura.

L’identificazione dei due concetti, infatti, diviene particolarmente rilevante nel momento in cui si nota che nel testo sul buddhismo zen l’autore si sofferma in maniera esplicita a considerare quali siano gli effetti del movimento di negazione che è alla base del concetto di vuoto. La negazione del mondo che si ritrova nel concetto di vuoto buddhista, sostiene Han, ha come effetto finale la reintegrazione del mondo in una nuova forma. «Essa [la negazione] conduce di nuovo al Sì, cioè al popolato mondo multiforme»[49].

Però, per precisare ancora ulteriormente cosa cambi nel passaggio a questa nuova modalità dello stare al mondo Han scrive: «Quanto al “contenuto”, il mondo è lo stesso. Ma, gravitando intorno al vuoto, è diventato più leggero. […] [Il vuoto] Fa abitare senza essere a casa presso di , senza insediarsi in se stessi, senza attaccamento verso se stessi e verso il proprio possesso»[50]. De-interiorizzando il soggetto, il vuoto fa venire meno qualsiasi attaccamento alla soggettività e dunque qualsiasi relazione economica o di potere. A venire meno, per l’esattezza, è proprio il primato dell’interesse individuale su cui invece si fonda il modello neoliberale della società.

La difficoltà contro cui si scontra la proposta di Han è però che, come dice lo stesso autore, la trasformazione che può accadere attraverso il pensiero contemplativo riguarda solo la forma dell’esistenza individuale e non il suo “contenuto”, ovvero la materialità della società.

Una tale trasformazione però, è questo il punto che si vuole qui sostenere, difficilmente sarebbe possibile senza un intervento che muti radicalmente le condizioni materiali che inevitabilmente determinano la vita dei singoli. Non si tratta qui di negare la capacità trasformativa del pensiero, ma piuttosto di sottolineare come il pensiero da solo potrebbe non essere sufficiente e di rivalutare, al contrario, il ruolo dell’azione. È difficile capire, infatti, come potrebbe realizzarsi un’autentica liberazione in assenza di un’azione che sia in grado di intervenire per eliminare i dispositivi di coercizione impiegati dall’attuale sistema di potere e che tengono gli individui legati al perseguimento esclusivo del proprio interesse individuale. Si giunge così al secondo punto critico della proposta di Han: l’impossibilità di pensare un’azione rivoluzionaria e autenticamente emancipatoria.

Per l’azione, secondo Han, valgono le stesse riflessioni che si possono rifare riguardo al potere. Alla sua base vi è sempre il paradigma della rigida separazione tra Io ed Altro. Vi è sempre un soggetto agente guidato esclusivamente dal proprio interesse personale e che punta a continuare la propria volontà nell’Altro. L’impossibilità di disinnescare l’ipsocentrismo caratteristico dell’azione conduce, come si è visto, il pensatore sudcoreano ad affidare esclusivamente al pensiero contemplativo la possibilità della costruzione della società futura senza comprendere bene, però, come ciò possa avvenire lasciando inalterate, così come i testi di Han sembrerebbero suggerire, le strutture e le condizioni materiali della società stessa e che fanno da cornice alla vita degli individui.

In definitiva, quella che si ritrova nel pensiero di Han è dunque un’eternizzazione del modello dell’attuale società neoliberale, che viene così elevato al rango di modello del potere e dell’azione in generale. Alla luce di tale conclusione, allora, è possibile sostenere che Han si rivelerebbe essere egli stesso vittima dell’operazione ideologica di neutralizzazione e naturalizzazione della razionalità neoliberale finalizzata ad indurre gli individui ad accettare passivamente, come fosse un destino naturale ed ineluttabile, la struttura economica e di potere attualmente dominante.

In tal senso si può affermare, allora, che la riflessione di Han, come giustamente sottolineano anche altri interpreti, «pur nella denuncia della passivizzazione, finisce per essere essa stessa passivizzante e destinale»[51]. Ciò che infatti emerge al termine del percorso delineato nel presente contributo è che, nonostante il discorso del pensatore sudcoreano si riveli molto attento ed efficace nell’analizzare e descrivere la paradossale condizione di crisi e sfruttamento della libertà che attraversa la società neoliberale, a mancare è una reale prospettiva di superamento del modello egoistico della libertà individuale e dell’elaborazione di un paradigma dell’azione alternativo, in grado di intervenire sulle strutture materiali della società per realizzare un’autentica emancipazione dei soggetti e condurre la società futura al di fuori della crisi della libertà.


[1] Cfr. P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista (2009), tr. it. DeriveApprodi, Roma 20192.

[2] Cfr. D. Harvey, Breve storia del neoliberismo (2005), tr. it. il Saggiatore, Milano 2007.

[3] È importante notare che, ad oggi, nonostante il significativo successo editoriale e commerciale dei testi di Han, i contributi scientifici dedicati all’analisi del suo pensiero, sia nel contesto italiano sia in quello internazionale, sono ancora in numero abbastanza esiguo. Si segnalano qui, in particolare, F. Buongiorno, Communication in the Digital Age. Byung-Chul Han’s Theory of Power and Information Exchange, in «Azimuth», III, n. 5, 2015, pp. 119-138; Id., Beyond Efficency: Comparing Andrew Feenberg’s and Byung-Chul Han’s Philosophy of Technology, in The Necessity of Critique, D. Cressman (ed.), Springer 2022, pp. 181-197; A. Cera, Il paradigma prestazione. Contributi per un’antropologia del presente, in Trasformazioni del concetto di umano, a cura di C. Di Martino, R. Redalli, M. Russo, InSchibboleth, Roma 2020, pp. 189-221.

[4] B.-C. Han , Che cos’è il potere? (2005), tr. It. Nottetempo, Milano 2019, p. 9.

[5] Ibid.

[6] Ibid., p. 10.

[7] Ibid.

[8] Ibid., p. 14.

[9] Ibid.

[10] Ibid.

[11] Ibid., p. 15.

[12] Ibid, p. 18.

[13] Cfr. Ibid., pp. 14 e sgg.

[14] B.-C. Han, La società della stanchezza (2010), trad. it. Nottetempo, Milano 20202, p. 23.

[15] Ibid.

[16] H. Marcuse, Eros e Civiltà (1955), tr. it. Einaudi, Torino 1967, p. 79.

[17] A. Cera, Il paradigma prestazione. Contributi per un’antropologia del presente, cit., pp. 191-192.

[18] Ibid., p. 193.

[19] B.-C. Han, La società della stanchezza, cit., p. 24.

[20] Ibid., p. 25.

[21] Ibid., p. 26.

[22] Ibid., p. 28.

[23] Ibid., p. 29.

[24] Ibid.

[25] Cfr. V. Carofalo, D. Salottolo, Il neoliberalismo vuole la pandemia? Giorgio Agamben, Byung-Chul Han e la crisi sanitaria, in «S&F_scienzaefilosofia.it», 25, 2021, pp. 132-168.

[26] B.-C. Han, Psicopolitica (2014), tr. it. Nottetempo, Milano 2016, p. 24.

[27] Ibid., p. 25.

[28] Ibid.

[29] Ibid.

[30] Ibid.

[31] Ibid., p. 10.

[32] Per una riflessione critica dell’interpretazione della dialettica hegeliana fornita da Han, cfr. F. Buongiorno, Communication in the Digital Age. Byung-Chul Han’s Theory of Power and Information Exchange, cit., p. 128.

[33] B.-C. Han, Psicopolitica, cit. p. 15.

[34] Ibid.

[35] F. Buongiorno, Beyond Efficency: Comparing Andrew Feenberg’s and Byung-Chul Han’s Philosophy of Technology, cit., p. 196.

[36] Per un’analisi più approfondita dei limiti e delle criticità della riflessione di Han sulla tecnologia, cfr. Ibid., pp. 181-197; Id., Communication in the Digital Age. Byung-Chul Han’s Theory of Power and Information Exchange, cit., pp. 119-138.

[37] B.-C. Han, Psicopolitica, cit., p. 37.

[38] Ibid., pp. 37-38.

[39] Ibid., p. 75.

[40] B.-C. Han, Che cos’è il potere, cit., p. 116.

[41] Ibid., pp. 117-118.

[42] Ibid., p. 118.

[43] Ibid.

[44] B.-C. Han, Psicopolitica, cit., p. 93.

[45] Ibid., p. 99.

[46] Ibid.

[47] B.-C. Han, La società della stanchezza, cit., p. 35.

[48] Ibid.

[49] B.-C. Han, Filosofia del buddhismo zen (2002), tr. it. Nottetempo, Milano 2018, p. 109.

[50] Ibid., p. 110.

[51] V. Carofalo, D. Salottolo, op. cit., p. 157.

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