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Il Sidereus Nuncius e l’origine della comunicazione pubblica della scienza

Autore


Pietro Greco

Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste

Giornalista scientifico e scrittore, è Direttore del Master in Comunicazione Scientifica della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste

Indice


  1. Uno spartiacque del Moderno
  2. Verso la comunicazione pubblica della scienza
  3. Sidereo, cannocchiali e opinion leaders: la verità come impresa sociale per una politica della scienza

 

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  1. Uno spartiacque del Moderno

 

Il 12 marzo 1610, quattrocento anni fa, Galileo Galilei pubblicava a Venezia, presso (l’allora) modesto tipografo Tommaso Baglioni, il Sidereus Nuncius[1]. Un libro di cui è difficile sopravvalutare l’importanza, perché semplicemente – come scrive Ernst Cassirer – segna «una svolta in cui le epoche si dividono»[2]. In realtà sono molti gli aspetti che assurgono il Sidereus a punto di svolta nella storia della cultura dell’uomo. In primo luogo, è persino ovvio ricordarlo, vi sono quelli strettamente scientifici. Il libro segna l’inizio di una nuova astronomia e, per certi versi, l’avvio di quella drammatica soluzione di continuità tra medioevo e modernità che molti chiamano «la rivoluzione scientifica del Seicento». Non solo e non tanto perché in poche pagine il fiorentino professore di matematica a Padova offre «agli studiosi della natura» tante “cose grandi invero” – una descrizione della superficie della Luna, l’annuncio della scoperta di quattro lune mai finora osservate che ruotano intorno al pianeta Giove e di innumerevoli stelle nella Via Lattea e nelle nebulose mai viste prima – da indurre Charles Singer a scrivere che «non esistono in tutta la letteratura scientifica 24 fogli più ricchi di rivelazioni»[3]. Ma anche e soprattutto perché tutte quelle rivelazioni sono “sensate”. Il Sidereus narra, letteralmente, di “cose mai viste prima” e che ora si possono “vedere” con gli occhi, sia pure per il mezzo di uno strumento tecnologico che Galileo ha perfezionato per la bisogna, il cannocchiale.

Ma il Sidereus merita la definizione di “libro spartiacque” anche per le sue implicazioni filosofiche. E non solo quelle indirette, che promanano attraverso mille rivoli dalle nuove conoscenze scientifiche. Ma perché falsificano direttamente, addirittura in puri termini popperiani, con “osservazioni cruciali”, un’intera filosofia, la filosofia naturale – o, almeno, la cosmologia – di Aristotele che domina la cultura occidentale da circa due millenni. Con i suoi occhi potenziati dal perspicillum Galileo ha dimostrato il “principio di simmetria cosmica”: non c’è nell’universo un luogo della perfezione e della immutabilità (il mondo sopra la Luna) distinto e separato dal mondo della corruttibilità e del cambiamento (la Terra). Nell’intero universo valgono ovunque le medesime leggi fisiche, come aveva ben filosofato (ma non dimostrato) quel certo nolano arso vivo in campo de’ Fiori a Roma, Giordano Bruno.

Il Sidereus, infine, separa le epoche anche nell’ambito della letteratura. Sia perché il libro, scritto in latino, inaugura un nuovo genere letterario, il report scientifico, che con il suo linguaggio asciutto, rigoroso, oggettivo è ancora oggi utilizzato dalla comunità dei ricercatori per comunicare al proprio interno[4]. Sia perché contribuisce ad accrescere la statura letteraria di Galileo Galilei che presto si eleva al di sopra di quella di tutti gli altri per diventare – è l’opinione autorevole di Giacomo Leopardi e Italo Calvino – il «più grande scrittore nella storia della letteratura italiana di ogni tempo»[5].

Non capita davvero tutti i giorni che qualcuno scriva un libro che costituisce uno spartiacque scientifico capace di cambiare la visione che l’uomo ha del mondo che lo circonda, che manda in soffitta un paradigma filosofico che ha dominato la cultura occidentale per un paio di millenni, che inaugura un nuovo genere letterario e dove si esprime il più grande scrittore di ogni tempo di un’importante letteratura nazionale.

Questa capacità unica al Sidereus Nuncius è stata ampiamente riconosciuta. E davvero non varrebbe la pena ritornarvi non fosse che – forse per la grandezza, unica e non più raggiungibile, del libro pubblicato in folio il 12 marzo 1610 – si è posta poca attenzione a una lettera che, a proposito degli effetti delle sue rivelazioni, Galileo Galilei scrive cinque giorni dopo, il 17 marzo 1610, a Belisario Vinta, primo ministro del Granduca di Toscana:

Parmi necessario, oltre a le altre circuspezioni, per mantenere et augumentare il grido di questi scoprimenti, il fare che con l’effetto stesso sia veduta et riconosciuta la verità da più persone che sia possibile: il che ho fatto et vo facendo in Venezia et in Padova[6].

 

  1. Verso la comunicazione pubblica della scienza

Cosa significano, queste parole? Beh, in primo luogo annunciano, con straordinaria lucidità, quali saranno gli impegni principali che, con coerenza, Galileo porterà avanti tra quei giorni di marzo del 1610 – giorni straordinari ma già forieri di preoccupazioni – e il resto della sua vita: cercare la verità intorno ai fatti della natura e fare in modo che questa verità «sia veduta et riconosciuta da più persone che sia possibile».

Galileo ha dunque chiaro che una necessità accompagna la verità intorno alla nuova filosofia naturale: «far conoscere tutto a tutti» e, dunque, portare a compimento quel processo che Paolo Rossi ha chiamato «l’abbattimento del paradigma della segretezza», che costituisce uno dei caratteri distintivi della «rivoluzione scientifica»[7].

In altri termini, questa è almeno la nostra tesi, il Sidereus Nuncius è un libro spartiacque nella storia della cultura umana non solo per tutte le ragioni su esposte, ma anche perché inaugura, in tutte le sue principali componenti e in tutte le sue relazioni principali, quel sistema che chiamiamo “comunicazione della scienza”[8]. Vediamo perché.

La nuova filosofia naturale di Galileo e di quegli uomini che all’inizio del XVII secolo vanno formando in tutta Europa un’inedita comunità transnazionale – la comunità scientifica o, per dirla ancora con Paolo Rossi, la «repubblica della scienza» – si fonda, come abbiamo già ricordato, sul combinato disposto delle «certe dimostrazioni» e delle «sensate esperienze» che consentono di attingere a verità intorno ai fatti della natura che, è convinzione del fiorentino, possono uguagliare – “intensive”, certo non “estensive”, su singole parti, non sul tutto – la conoscenza stessa che ne ha Dio.

Questo combinato disposto di costruzione di modelli coerenti e rigorosi di spiegazione che, attraverso precise regole di corrispondenza, sono in grado di “salvare i fatti” conosciuti intorno al mondo naturale costituisce, dunque, il principale carattere distintivo della “nuova scienza” che nasce nel Seicento.

Ma, per quanto sia il principale, questo non è l’unico carattere distintivo della “nuova filosofia naturale”. Ce n’è almeno un altro, che è co-essenziale al nuovo approccio. La “nuova scienza” non è un insieme di atti privati e segreti: è un’unica impresa collettiva e pubblica. La scienza del Seicento di distingue da quella medioevale anche e soprattutto perché nel Seicento nasce una “comunità scientifica”, il cui obiettivo è la trasparente costruzione tra i suoi membri di un consenso razionale di opinione intorno ai fatti della natura.

Ne deriva che la scienza è costituita da due parti co-essenziali. Uno privato: l’osservazione della natura e la formulazione di modelli di spiegazione. L’altro pubblico: la comunicazione dei risultati di questo lavoro all’intera comunità, affinché tutti possano non solo conoscerli, ma anche verificarli e insieme raggiungere un consenso razionale di opinione. Certo, non c’è scienza senza osservazione della natura (con sensate esperienze e certe dimostrazioni). Ma non c’è scienza neppure senza comunicazione dei risultati di queste osservazioni.

Ebbene, l’attività di Galileo tra l’autunno 1609 e l’inverno 1610 offre una plastica dimostrazione del rapporto co-essenziale tra le due componenti della “nuova filosofia naturale”. Per intere settimane Galileo è impegnato a osservare il cielo: a studiare la Luna e le sue rugosità; a seguire le traiettorie descritte intorno a Giove da quattro nuovi e inattesi oggetti cosmici; a collocare, quasi a contare, i nuovi punti luminosi che innumerevoli appaiono al cannocchiale nei cielo delle stelle fisse.

Ma mentre di notte svolge quella parte “privata” della sua attività scientifica, ecco che di giorno Galileo è impegnato con la stessa determinazione, con la stessa furia a realizzare la parte “pubblica” e a scrivere le note che pubblicherà con il titolo di Sidereus Nuncius. Perché sa che solo quando le avrà rese pubbliche, quelle note, e gli studiosi della natura potranno ripetere coi propri occhi quelle osservazioni si formerà un consenso razionale di opinione (ovvero libero) intorno alla nuova astronomia e i suoi faticosi studi notturni cesseranno di essere una conoscenza privata per diventare “nuova filosofia intorno ai fatti della natura”.

Galileo non è il primo a elaborare anche con una certa fretta un rapporto pubblico su “sensate esperienze” e/o “certe dimostrazioni” sui fatti della natura. È il primo a proporre un rapporto scritto che inaugura un genere letterario – il rendiconto scientifico, appunto. Ed è tra i primi ad avvertire “la necessità” che il rendiconto sia pubblicato subito e senza reticenze, affinché tutti gli studiosi della natura possano ripetere le osservazioni e vedere coi propri occhi, ancorché potenziati dal cannocchiale, quelle medesime cose “grandi invero” che egli stesso ha visto.

Per questi due motivi Galileo Galilei deve essere considerato non solo uno dei padri fondatori della “nuova scienza”, ma anche come uno dei padri fondatori della nuova “comunicazione pubblica della scienza”, capace di abbattere quel “paradigma della segretezza” (tipico il caso degli ermetici à la Paracelso) che aveva caratterizzato l’attività scientifica nei secoli precedenti.

 

  1. Sidereo, cannocchiali e opinion leaders: la verità come impresa sociale per una politica della scienza

 

E, tuttavia, Galileo sa che tutto questo non basta. Egli immagina quali effetti le sue rivelazioni avranno non solo tra la comunità degli studiosi – tra gli aristotelici e i copernicani, per esempio – ma anche presso il grande pubblico, nella Chiesa. In altri termini egli intuisce, come sostiene Ludovico Geymonat, che la “nuova scienza” non è né un fatto privato, né un fatto che interessa un gruppo ristretto di filosofi naturali, ma è: «un fatto di interesse pubblico, destinato a permeare di sé l’intera società»[9].

Inoltre intuisce che questo duplice carattere della sua “nuova scienza” – la conoscenza come bene pubblico, la conoscenza come interesse pubblico – contiene un ulteriore elemento di novità e di pericolo, perché, per dirla con Lewis Feuer, sposta «il foro, per così dire, competente alla discussione, dagli intellettuali direttivi clericali al pubblico istruito» e dunque porta «il suo caso scientifico in mezzo alla gente, come Lutero aveva fatto con le sue tesi religiose»[10].

Con i suoi portati filosofici, teologici, etici; con le nuove tecnologie che evoca e produce; con i suoi caratteri di trasparenza e pubblicità, la “nuova scienza” ha un carattere dirompente. Condiziona l’intera società in ogni e ciascuno dei suoi aspetti. Ed è condizionata dall’intera società.

Ecco perché, e vale la pena citare ancora, solo cinque giorni dopo scrive a Belisario Vinta:

Parmi necessario, oltre a le altre circuspezioni, per mantenere et augumentare il grido di questi scoprimenti, il fare che con l’effetto stesso sia veduta et riconosciuta la verità da più persone che sia possibile: il che ho fatto et vo facendo in Venezia et in Padova.

 

Ho necessità non solo che tutti vedano e riconoscano e quindi difendano la verità. Ma ho necessità di impegnarmi io, in prima persona – cosa che sto già facendo – perché tutti vedano e riconoscano e difendano la verità. Devo impegnarmi in prima persona per costruire una grande alleanza tra filosofi naturali e grande pubblico per la difesa della “nuova scienza”, a beneficio di tutti.

Galileo, dunque, riconosce l’importanza decisiva di due forme di comunicazione della scienza: quella rivolta agli studiosi (per i quali ha scritto, in latino, il Sidereus Nuncius) e quella rivolta al pubblico dei non esperti, per i quali si sta già impegnando a Venezia e a Padova. Facendo conferenze, illustrando agli intellettuali, ma anche confezionando cannocchiali da spedire a principi e persone influenti – oggi diremmo a opinion leaders – affinché anche questi possano effettuare le sensate esperienze e “vedere” la verità.

Con questa seconda operazione, che Geymonat definisce di propaganda, Galileo compie due ulteriori operazioni. Da un lato inaugura, contemporaneamente alla comunicazione interna alla comunità scientifica la comunicazione per il grande pubblico dei non esperti. E dall’altra chiede aiuto. Cerca di stabilire alleanze.

Continua, infatti, nella lettera a Belisario Vinta:          

Ma perché gl’occhiali esquisitissimi et atti a mostrar tutte le osservazioni sono molto rari, et io, tra più di 60 fatti con grande spesa et fatica, non ne ho potuti elegger se non piccolissimo numero, però questi pochi havevo disegnato di mandargli a gran principi, et in particolare a i parenti del S. G. D.: et di già me ne hanno fatti domandare i Ser.mi D. di Baviera et Elettore di Colonia, et anco l’Ill.mo et Rev.mo S. Card. Dal Monte; a i quali quanto prima gli manderò, insieme col trattato. Il mio desiderio sarebbe di mandarne ancora in Francia, Spagna, Pollonia, Austria, Mantova, Modena, Urbino, et dove più piacesse a S. A. S.; ma senza un poco di appoggio et favore di costà non saprei come incaminarli.

 

Caro Vinta, dice in altri termini, io sto costruendo a più non posso cannocchiali da inviare in giro per l’Europa insieme al libro perché tutti possano vedere e riconoscere la verità. Ma l’impresa è così grande che ho bisogno dell’aiuto di uno stato. Che ho bisogno dell’aiuto dello stato.

Nella sua campagna di “comunicazione pubblica” Galileo ottiene un successo straordinario. Il sidereo annuncio raggiunge in pochi giorni l’intera Europa e in pochi anni persino l’India, la Cina e la Corea. Si diffonde con ogni mezzo. Grandi pittori offrono le immagini del nuovo cielo galileano. E grandi poeti lo cantano. Galileo è non solo consapevole che la “nuova scienza” viene comunicata anche da “non scienziati”. Ma auspica esplicitamente e incoraggia questa “comunicazione della scienza da non esperto a non esperto”. «Si concede anco al Poeta il seminare [e il verbo non è stato scelto a caso] alcune scientifiche speculazioni», scrive in una lettera all’amico poeta Tommaso Stigliani[11] che ha parlato dell’annuncio sidereo nel suo Mondo Nuovo.

Possiamo, dunque, affermare che nel 1610 Galileo Galilei offre un formidabile contributo all’inaugurazione della moderna comunicazione della scienza, nella sua duplice forma di comunicazione interna alla comunità degli esperti e di comunicazione per il pubblico (per i pubblici) di non esperti. Nella consapevolezza che la scienza è un’impresa sociale il cui sviluppo ha regole precise, che coinvolgono gli esperti, ma anche che è un’impresa che ha effetti sociali enormi e che non può sottrarsi, anzi deve favorire, il confronto e il dialogo con l’intera società.

Nel breve periodo questa straordinaria lucidità di analisi abbinata a una capacità di azione altrettanto grande sembra non aver avuto successo. Galileo viene trascinato in tribunale e gli viene imposto di abiurare, ovvero di sconfessare le sue razionali opinioni. Ma alla lunga ha vinto la partita.

La comunicazione interna ha cementato una comunità, quella scientifica, che ha resistito alle temperie e oggi è considerata decisiva per lo sviluppo non solo culturale, ma anche sociale ed economico del mondo.

Quanto alla comunicazione della scienza ai pubblici di non esperti, oggi è considerata un elemento co-essenziale della stessa democrazia. Il cuore di nuovi diritti emergenti nella società, i diritti di cittadinanza scientifica. Fondati, a loro volta, su due basi: la conoscenza è un bene pubblico che deve essere accessibile a tutti; tutti hanno il diritto, ciascuno nel suo ruolo e con la sue competenze, a compartecipare alle scelte di politica della scienza. Ovvero a dare corpo e sostanza a un’altra indicazione che ci viene da uno dei pionieri della nuova filosofia naturale del XVII secolo, Francis Bacon, secondo cui la scienza non è un bene appropriabile, non deve essere a vantaggio di questo o di quello, ma è un bene comune: deve essere a vantaggio dell’intera umanità.

 


[1]  Cfr. ora G. Galilei, Sidereus Nuncius (1610), a cura di A. Battistini, tr. it. a cura di M. Timpanaro Cardini, Marsilio, Venezia 1989.

[2] Cfr. E. Cassirer, Storia della filosofia moderna, Einaudi, Torino 1963.

[3] Cfr. C. Singer, Breve storia del pensiero scientifico, Einaudi, Torino 1961.

[4] Cfr. A. Battistini, Introduzione a G. Galilei, Sidereus Nuncius, cit.

[5] Cfr. I. Calvino, Lezioni americane, Garzanti, Milano, 1988.

[6] G. Galilei, Lettera a Belisario Vinta, in Opere, a cura di A. Favaro, Barbèra, Firenze 1890-1909.

[7] Cfr. P. Rossi, La nascita della scienza in Europa, Laterza, Bari-Roma 1997.

[8] Cfr. P. Greco, L’idea pericolosa di Galileo. Storia della comunicazione della scienza nel Seicento, UTET, Torino 2009.

[9] Cfr. L. Geymonat, Galileo Galilei, Einaudi, Torino, 1969.

[10] Cfr. Lewis S. Feuer, L’intellettuale scientifico : origini psicologiche e sociologiche della scienza moderna, tr. it. a cura di E. Suriani, Zanichelli, Bologna 1969.

[11] Ora in G. Galilei, Opere, cit.

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