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Estetica dell’artefattuale

Autore


Roberto Terrosi

Tohoku University, Sendai, Japan

insegna Italian Language e Aesthetics and History of Western Art alla Tohoku University, Sendai, Japan

Indice


1. A mo’ di premessa 

2. Artefattuale_1: sull’estetica classica_Artefattuale_1.1: tra Oriente e Occidente

3. Artefattuale_2: estetiche tecnologiche 

4. Artefattuale_3: l’estetica del corpo rovesciato

5. Artefattuale_4: l’inganno 

6. Artefattuale_5: alterazioni digitali

 

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S&F_n. 06_2011


  1. A mo’ di premessa

Artefattuale è una parola relativamente di moda. In realtà il suo impiego nel mondo anglosassone è un fatto normale da molto tempo, anche in estetica, dove in particolare George Dickie ha parlato di artefatti riferendosi alla sua teoria istituzionale dell’arte[1]. Tuttavia questo termine in Italia è stato declinato con sfumature diverse rispetto all’accezione di Dickie, in quanto è stato utilizzato prevalentemente in relazione a tematiche più eminentemente tecnologiche. Da tempo mi occupo sia di estetica, sia di culture tecnologiche, perciò quando mi è stato chiesto di scrivere un articolo sull’estetica degli artefatti è subito scattato in me un campanello di allarme che mi avvertiva circa il pericolo di elaborare macrocontenitori concettuali onnicomprensivi che avrebbero l’effetto di confondere il lettore piuttosto che di informarlo; per questo motivo ho deciso di tenere un tono analitico a costo di sembrare pedante in alcuni passaggi, distinguendo uno per uno i vari usi del termine artefattuale, attenendomi nelle sue accezioni alle tematiche tecnologiche ed esprimendo su di esse considerazioni di ordine estetico.

 

2. Artefattuale_1: sull’estetica classica

Credo che per cominciare occorra prendere in esame i due concetti espressi nel titolo: quello di estetica e quello di artefattuale. Parlare di estetica dell’artefattuale significa innanzitutto rivolgersi all’esame di un determinato oggetto dal punto di vista di una specifica disciplina filosofica. Bisogna allora in prima istanza volgersi verso l’oggetto. Artefattuale è un neologismo che letteralmente sarebbe inutile e ridondante in quanto ha lo stesso significato di un termine già esistente: artificiale. L’introduzione di tale neologismo è dovuto al suo impiego nella lingua inglese dove artifactual e artificial presentano sfumature diverse. A questo si può aggiungere che anche in italiano è possibile ravvedere una sfumatura diversa se si ricorda che si tratta di due aggettivi sostantivati che derivano da due sostantivi diversi che sono artefatto e artificio. Si può anche facilmente constatare che l’etimologia è pressappoco la stessa in quanto sono due composti delle parole latine ars e facere, verbo di cui cambia solo la coniugazione: al passato (ars + factum) nel primo caso e al presente (ars + facio) nel secondo. Le due parole ci rimandano comunque al concetto centrale del termine latino ars che non indica le belle arti, come potremmo essere portati a pensare oggi, ma traduce il greco techne, che sta per tecnica, ma che in generale indicava tutti i saperi sia applicativi sia astratti, che potevano essere appresi e dunque trasmessi, di contro a quei saperi che invece venivano conosciuti per intuizione, per ispirazione divina, o che sovente erano ineffabili, o non chiaramente trasmissibili. L’unione con il verbo fare sta a specificare che si tratta di saperi destinati a essere applicati all’esperienza o alla realizzazione di cose. In questo senso l’artificio è più precisamente orientato a definire procedure, procedimenti tecnici e solo talvolta gli esiti di tali procedimenti, mentre l’artefatto tende a definire più direttamente l’oggetto della produzione tecnica ovvero il prodotto artificiale. In linguistica per esempio sono considerati artefatti tutti quegli oggetti a cui si riferisce il linguaggio, che non sono di origine naturale e che sono prodotti dall’uomo, dalle sedie ai razzi spaziali, e di conseguenza l’artefattuale è l’ambito di tale tipo di oggetti.

A questo punto vorremmo sapere che significato hanno le classi di tutti gli oggetti prodotti dall’uomo per l’estetica. Ma di cosa si occupa l’estetica? Non è facile dare una risposta univoca a questa domanda dato che su ciò si sono interrogati molti filosofi senza trovare una risposta universalmente accettata. Il termine estetica deriva come si sa da aisthesis che in greco significa percezione attraverso i sensi. Baumgarten era ancora memore di questo significato originario che legava l’estetica all’esperienza e alla sensazione in quanto tali, tanto che Kant se ne servì nella prima Critica, dove l’estetica trascendentale non ha nulla a che vedere col bello o con l’arte più di quanto non lo abbia con l’esperienza in generale. Perché tuttavia si parla di estetica in relazione al bello, al gusto ecc.? Una risposta potrebbe essere che l’estetica come scienza filosofica del senso o della sensibilità si debba concentrare su ciò che riguarda il sensibile in quanto sensibile, senza altre finalità di carattere conoscitivo, tecnico o morale. Quindi ha valore per l’estetica ciò che soddisfa il senso per i suoi soli aspetti sensibili, e dunque ciò che desta interesse per le sue sole qualità sensibili ovvero per sue sole qualità formali. L’idea centrale dell’estetica è quindi che il bello riposi sulla considerazione dei soli valori formali della forma, o dei valori sensibili dell’esperienza sensibile a cui dà luogo l’oggetto senza altra considerazione per altro tipo di finalità pratiche o conoscitive. Questo però implica che il campo dell’estetica sia anche un campo di valori e di valutazioni in merito alle proprietà sensibili della cosa, o dell’esperienza a cui la cosa ha dato luogo. Questo tipo di definizione breve dell’estetica potrebbe non essere condivisa da tutti ma è abbastanza coerente e generale da includere vari approcci.

Tornando alla relazione con l’artefattuale l’estetica avrebbe dunque il compito di interrogarsi sui valori sensibili degli oggetti ovvero degli artefatti, tenuto conto però solo delle loro caratteristiche sensibili fini a se stesse. Ora quali sono tra gli artefatti quelli realizzati al solo fine di essere considerati interessanti riguardo alle loro caratteristiche sensibili o alla loro forma? La risposta è facile, o almeno lo era fino al XVIII secolo: sono le opere d’arte. D’altronde l’arte nel senso moderno del termine, che sarebbe più preciso specificare come belle arti, è costituita da quelle opere dell’industria umana che vengono realizzate per essere considerate solamente (o almeno in prima istanza) in relazione alle loro caratteristiche sensoriali, senza riguardo per altro tipo di funzioni. Il caso più tipico è quello del quadro che non ha altra funzione se non quella di essere guardato, contemplato e ammirato. Casi come quelli del quadro o della scultura di solito escludono altri impieghi soprattutto di tipo utilitaristico. Ma questo non implica che persino oggetti utili possano avere una connotazione estetica anche predominante. A questo riguardo viene citato spesso il caso dell’architettura, ma ne esistono anche di altri. L’importante è che la dimensione sensoriale venga messa al primo posto (sempre seguendo questa impostazione dell’estetica che possiamo definire classica). Per esempio una sedia può essere un’opera d’arte solo se si propone al fruitore in primo luogo per l’esame e la valutazione delle sue qualità sensibili o formali anche a discapito della sua più immediata utilità funzionale e pratica (ovvero il sedervisi). È il caso per esempio della famosa sedia di Rietveld.

Da questo punto di vista allora un’estetica dell’artefattuale si risolverebbe nella più tipica accezione dell’estetica moderna e in particolare romantico-hegeliana in cui l’estetica coincide con la considerazione filosofica dei valori formali delle arti. Parlare di artefattuale allora sarebbe solo dare un nome nuovo a una cosa vecchia.

Ma probabilmente chi mi ha suggerito questo titolo non aveva affatto in mente quadri, sculture e altri oggetti da museo.

 

_Artefattuale_1.1: tra Oriente e Occidente

A questo punto si inserisce la questione trattata da Dickie, che riguarda non tanto il fatto che un’opera d’arte possa essere considerata un artefatto, ma piuttosto il contrario, e cioè che l’arte possa essere non artefattuale. La questione è stata discussa da Dickie ma è stata sollevata nel dibattito della filosofia analitica degli anni ’50 e si basa sulla filosofia del linguaggio del secondo Wittgenstein applicata al caso della filosofia dell’arte. Com’è noto secondo Wittgenstein le parole possono avere tra loro una somiglianza che lui chiama somiglianza di famiglia. Paul Ziff, Morris Weitz e William Kennick[2] hanno applicato questo principio alla filosofia dell’arte sostenendo che viene riconosciuta come opera d’arte ciò che ha una somiglianza di famiglia con una precedente opera d’arte. Quindi data la presenza dell’opera d’arte A, può essere riconosciuta come opera d’arte la cosa somigliante B, data la presenza di B può essere riconosciuta C e così via. Ora Z avrà delle somiglianze con V ma non necessariamente con A, e addirittura potrebbe benissimo non avere nessuna proprietà in comune con A. Ora, se A viene supposta come un artefatto, per esempio una scultura o un dipinto, Z potrebbe invece essere un ramo contorto o qualsiasi altra cosa anche naturale e cioè non artefattuale. Questo assunto è poi rafforzato dalla pratica artistica dell’appropriazione e della decontestualizzazione. Infatti nulla vieta a un artista di esporre come opera un sasso, o un ramo secco, o altri oggetti naturali. Operazioni di questo genere sono state effettuate in Italia dall’arte povera. Ma, aggiungiamo noi, c’è anche il caso significativo, sebbene relativo a un’altra tradizione estetica, della Cina e del Giappone, in cui venivano ricercate ed esposte delle pietre di strana conformazione, elevate al rango di opere della fantasia umana, in quanto la stessa espressione plastica umana non dovrebbe fare altro che trovare le forme capaci di suggerire il disegno generale della natura, cosa che dunque può essere fatto dall’uomo ma anche dalla natura stessa (sebbene occorra comunque il riconoscimento da parte dello spirito umano che gli conferisca questo surplus di significato rispetto agli oggetti normali, per proporle all’apprezzamento degli altri uomini).

Dickie obbietta ai tre autori che il fatto di definire un’opera d’arte come dipendente da un esempio precedente li fa incorrere in un regressus ad infinitum, che richiede quindi un caso originario di arte in modo tale che il regressus possa essere bloccato. Ora, secondo Dickie, questo caso dovrebbe essere comunque un artefatto. Da ciò se ne deduce che comunque l’arte al suo centro semantico non può essere che artefattuale sebbene possa non esserlo in casi eccezionali. Riguardo ai casi di appropriazione come quelli dei ready made introdotti nel discorso artistico da Duchamp, Dickie fa un altro tipo di ragionamento; intanto fa osservare che essi spesso sono già degli artefatti, come nel caso dell’orinatoio o dello scolabottiglie. Si potrebbe però sostenere che questi oggetti, pur essendo fabbricati, non siano stati creati, né modificati da Duchamp che si è limitato a prenderli e a esibirli in una sede espositiva. Dickie però obbietta che anche questa semplice operazione di esposizione sia, a livello “minimale”, un’attività dell’artista sull’oggetto, che pertanto ne risulta un artefatto. Il problema è a nostro avviso più fondato nel caso dell’estetica orientale, in quanto se al centro dell’estetica occidentale e in particolare della filosofia dell’arte occidentale sta sempre l’uomo e la sua attività, sia essa manuale, di direzione, o semplicemente intellettuale, al centro della concezione estremo-orientale sta invece la natura, ragion per cui l’azione umana è (sarebbe meglio dire era) accettata come artistica (anche qui sarebbe meglio dire poetica in quanto la categoria di arte bella non esisteva), nella misura in cui essa non tradisce la sua naturalezza. Quindi se in Occidente permane sempre uno scarto ontologico tra il naturale e l’artefattuale, anche per il solo fatto di esporre il naturale, per l’Estremo Oriente questo scarto non c’è, o almeno non dovrebbe esserci, tanto più nel caso di qualcosa di poetico. Quindi per il cinese non c’è ragione di porre una particolare discriminazione ontologica tra la bella pietra, il bel vaso, la bella poesia. Quello che comunque è chiaro relativamente all’Occidente, è che nel caso dell’arte di appropriazione (come i ready made), indipendentemente dalla costituzione fisica di quanto viene esposto, la vera opera d’arte è un artefatto concettuale, in quanto è propriamente a un livello concettuale che l’opera viene prodotta come opera d’arte, a prescindere da chi l’ha fatta o da chi l’ha materialmente portata in galleria. L’opera d’arte contemporanea occidentale nasce al mondo delle opere d’arte grazie a un’operazione concettuale, dunque a un artefatto concettuale che però non è detto che vada fatto coincidere con la semplice e pura intenzione dell’artista di candidarla come tale, come sembra sostenere Dickie, ma sia il prodotto di una meccanica sociale o culturale che vede le istituzioni dell’Artworld non come successive alla candidatura ma come l’effettivo punto di partenza della produzione sociale di artisticità. In questo senso cioè intendiamo affermare che la teoria istituzionale di Dickie andrebbe radicalizzata per depurarla dai residui della concezione soggettivista ereditata dalla tradizione moderna e romantica in particolare. 

 

3. Artefattuale_2: estetiche tecnologiche

Un’altra accezione di artefattuale costituisce una specificazione della precedente: con mondo dell’artefattuale ci si riferisce al mondo delle tecnologie, in particolare quelle più avanzate. In questo caso la questione dell’estetica dell’artefattuale viene a coincidere di fatto con la cosiddetta estetica tecnologica. L’estetica tecnologica potrebbe in un certo senso essere reperita già nelle macchine di Leonardo da Vinci. Qui il termine estetica sta a indicare una particolare fascinazione di tipo sensoriale per le macchine. Le macchine quindi al di là della loro utilità specifica divengono anche belle sotto il profilo sensoriale e formale. Questo tipo di estetica non è un’estetica in senso stretto e in senso universale. Si tratta piuttosto di una delle tante possibili estetiche declinate al plurale in quanto estetiche di qualcosa, laddove l’estetica è intesa come il criterio preferenziale dal punto di vista delle qualità sensibili o formali relative a un certo tipo di oggetti o a un certo ambito o settore. Questo tipo di estetiche vanno intese come tipi di sensibilità in senso culturale e talvolta in senso individuale, come manifestazioni di una predilezione per un determinato oggetto che trova la sua motivazione principale in un gusto o in una sensazione che in qualche modo viene reputata gradevole, ma che trattandosi di un sentimento psicologico e sociale non è necessariamente puro sotto il profilo filosofico. In altre parole la bellezza delle macchine potrebbe non essere una pura bellezza formale, ma un sentimento misto e spurio in cui gioca una parte importante anche l’immaginazione a livello indefinito delle possibilità e della potenza che queste macchine potrebbero avere nello svolgimento di propri compiti, anche qualora questi compiti non venissero poi specificati. Da questo punto di vista se è lecito notare un interesse estetico per le macchine già con Leonardo e poi con il meccanicismo, il vero punto di svolta e forse il vero punto di avvio di questa sensibilità a un livello socialmente rilevante si avverte solo dopo la rivoluzione industriale. È infatti con la rivoluzione industriale che complesse e potenti tecnologie entrano nella vita di tutti i giorni. Fino a quel momento vigeva un paradigma artigianale in cui la macchina era semplicemente uno strumento nelle mani dell’individuo umano. Esistevano già delle macchine grandi, come per esempio le macchine da guerra, ma il loro uso era eccezionale. Con la rivoluzione industriale invece le macchine sovrastano l’uomo per potenza, robustezza e capacità. Il singolo uomo non è più il soggetto che ne dispone, ma spesso una sorta di schiavo che se ne prende cura e che talvolta ne è anche vittima. La civiltà delle macchine è una civiltà in cui la tecnologia acquista una dimensione culturale di potenza di sviluppo per l’intera umanità ma che a livello dell’individuo è percepita come sovrastante e quasi sovrumana. Nasce così l’estetica del sublime macchinino, dove macchine e industrie spaventano e affascinano. Anche in questo caso il senso di piacevolezza è spurio perché non è legato solo alla forma ma anche alla suggestione della loro travolgente potenza. Come ho notato altrove questa estetica prende avvio agli inizi del Novecento in due forme: una è quella dell’ammirazione connessa al fascino della potenza, in cui il carattere spurio si acutizza e che è portata avanti dai Futuristi, che vedono nella potenza delle macchine il mezzo per il riscatto della decadente patria italiana; l’altra è quella invece del Bauhaus che, diversamente, ha un carattere più propriamente estetico, in quanto è molto forte l’ammirazione per l’essenzialità delle forme della macchina che devono essere strettamente confacenti allo scopo, sebbene anche l’evocazione della pura funzionalità sia a sua volta un carattere spurio che evade dalla semplice considerazione della composizione formale. Il fatto però che già dalla prima forte affermazione della civiltà industriale si assista alla formazione di due estetiche così diverse significa che non è possibile parlare di un’estetica della tecnologia (avanzata) in generale, ma solo di estetiche o addirittura di poetiche. Se andiamo avanti nel tempo infatti troviamo altre estetiche della società industriale. C’è la percezione della macchina in forma enigmatica nello pseudo-animismo della pittura metafisica; c’è una retorica opposta a quella futurista con la considerazione della debolezza delle macchine e quindi con la poetica del rottame portata avanti soprattutto in America dalla junk art; la riconsiderazione ludica della macchina in Fluxus; troviamo poi gli esperimenti volti a utilizzare la tecnologia per rinnovare e potenziare il portato estetico delle vecchie belle arti come è accaduto nel caso dell’EAT o in quello di Tinguely; ancora le poetiche dell’elettricità e dell’illuminazione che dialogano con le insegne luminose di cui si sono riempite le città nel frattempo (Dan Flavin, Mario Merz, Bruce Nauman, Jenny Holzer ecc.); infine troviamo le poetiche della rivoluzione digitale che riguardano l’arte contemporanea degli ultimi vent’anni, ma che sorprendentemente non hanno avuto il grande sviluppo che da loro ci si aspettava. Una delle ragioni di questo flop delle arti e delle estetiche tecnologiche è che esse nascono paradossalmente proprio dallo iato che separa la tecnologia da chi la percepisce come oggetto di ammirazione. Il sentimento di apprezzamento estetico, infatti, necessita di una distanza o di un distacco. Nel momento in cui sopraggiunge invece una sempre maggiore confidenza e familiarità con la tecnologia, questa cessa di essere oggetto di ammirazione o di esposizione per entrare nel modo normale di vivere. Quindi a questo livello più familiare, pur entrando la tecnologia anche all’interno delle belle arti, non si può parlare più di estetiche tecnologiche in quanto la tecnologia (avanzata) diviene un mezzo come un altro per la trasmissione di altre proposte poetiche. Con Foucault potremmo dire che il momento delle estetiche tecnologiche è quello in cui la nuova tecnologia non ancora normalizzata e assimilata dalla cultura, viene problematizzata. Faccio un esempio concreto tratto dalla mia personale esperienza: nel biennio 2004-2006 stavo facendo una ricerca di post-dottorato con Renato Barilli nella quale studiavo l’impatto delle nuove tecnologie e della globalizzazione sul sistema dell’arte. Pensai che il luogo in cui questo elemento fosse più evidente fosse il paese extraeuropeo in cui più erano sviluppate le nuove tecnologie ovvero il Giappone. Una volta giunto sul posto con mia sorpresa notai però che tutte le manifestazioni dedicate all’arte elettronica e tecnologica in generale erano in netto e rapido declino, o che stessero addirittura sparendo. Trovai una sola grande istituzione superstite tra quelle che erano state dedicate a questo settore, l’Inter-Communication Center (ICC) di Tokyo, ma rimasi sorpreso dal fatto che presentava quasi esclusivamente mostre ed eventi relativi all’arte tecnologica occidentale. Non si trattava cioè di un laboratorio di sviluppo delle poetiche giapponesi, ma dell’ennesima finestra aperta sul mondo occidentale per seguirne l’andamento. Di contro invece l’arte contemporanea giapponese andava riterritorializzandosi inseguendo un progetto di ritorno alle radici o ai fattori tipici della tradizione plastica e figurativa giapponese: quella della piattezza (super-flat) e della chincaglieria (kawaii). Come mai il paese più tecnologico del mondo non mostrava interesse estetico per l’arte tecnologica? Semplice, perché aveva già assorbito la tecnologia che non era più di per se stessa motivo di interesse estetico ma solo un mezzo, insieme ad altri, per la realizzazione di prodotti artistici e industriali. Lo stesso accadeva quando, insieme ad alcuni amici, andavo a mostrare la realtà virtuale in giro per l’Italia: ebbi l’impressione che ci fosse un’atmosfera da fenomeno da baraccone, che è un sintomo di quell’arretratezza analoga a quella dell’Italia futurista, ma ritenevo comunque meglio una manifestazione di interesse un po’ da circo, che non una cupa indifferenza, segno di un paese chiuso senza scampo nella sua arretratezza culturale.

Inoltre c’è un secondo fattore da considerare: come mi fece notare Joseph Kosuth, non ha senso parlare di movimenti artistici basati sul fatto che i vari artisti siano accomunati solo dall’uso di uno stesso tipo di mezzo. In altre parole non ha senso, stavolta dal punto di vista storico-artistico, parlare di video-arte, di arte fotografica, o infine di arte tecnologica. Le tendenze artistiche vanno valutate sulla base della loro proposta poetica relativa al compito che si assegna alla produzione artistica. Lo stesso discorso dei movimenti artistici può essere fatto per l’estetica, cioè non ha senso parlare di un’estetica tecnologica quando risulta problematico anche farlo al plurale rispetto alle varie sensibilità e alle varie fasi tecnologiche come abbiamo provato a fare noi in questo caso.

 

4. Artefattuale_3: l’estetica del corpo rovesciato

Nel mondo anglosassone e di conseguenza poi anche in quello italiano l’uso del termine artifactual è entrato nel gergo della medicina. Anche all’interno di questo ambito troviamo un’accezione più generale e una più specifica che sembra anche quella più adottata in questo momento.

Se vogliamo potremmo aggiungere a queste due accezioni una generalissima che chiariamo subito con un esempio. Si dice che un uomo ha una ferita artefattuale in quanto questa non è stata prodotta naturalmente o casualmente ma appositamente: è cioè il prodotto di un’azione volontaria e finalizzata all’esito in questione. Si tratta dunque di un atto propriamente tecnico e quindi doloso.

Veniamo poi all’accezione generale: nella medicina vengono utilizzate molte strumentazioni, alcune di esse servono a intervenire sul paziente, altre invece servono a scandagliare a scopo diagnostico il corpo del paziente.

Molte di queste tecnologie vanno infatti sotto il nome di medical imaging. Alcune di queste tecniche sono presenti già da molti anni come le lastre a raggi x, altre sono più recenti come la TAC o la risonanza magnetica. Soffermiamoci allora sulla questione di come possa essere interpretata un’estetica del madical imaging. Ho avuto già modo di soffermarmi su questo punto nel mio libro sul postumano[3]. In quell’occasione ho parlato di un’estetica del corpo rovesciato. Infatti il tratto comune di tutte queste strumentazioni è quella di rendere visibile l’invisibile che nel caso del corpo umano è soprattutto il suo interno. Il carattere dominante di questo tipo di sensibilità è quella di un interesse verso l’interno del corpo, anche se occorre ricordare che nel caso del medical imaging il suo ruolo e il suo fine è fondamentalmente strumentale. È piuttosto difficile infatti parlare di un interesse estetico avulso da quello diagnostico, almeno per l’uso che ne fanno i medici. Talvolta sono i pazienti a testimoniare invece un uso estetico di questi artefatti, specialmente come forma di souvenir. Tipico è il caso delle prime ecografie della gravidanza in cui si può vedere l’embrione del nascituro, che vengono donate dai medici come souvenir e che vengono gelosamente custodite dai futuri genitori alla stregua delle prime foto dopo la nascita. Anche in questo caso però l’interesse affettivo ha la meglio su quello meramente formale, e a dimostrarlo basta il fatto che nessuno penserebbe di collezionare con la stessa attenzione le ecografie dei figli di estranei. C’è poi il caso delle riviste scientifiche che fanno ampio uso del medical imaging anche talvolta andando al di là della stretta necessità esplicativa per corredare o decorare l’articolo in questione. Questo tipo di apparato iconico ha finito col creare un immaginario che ritroviamo anche nel cinema. Alle radici storiche dell’estetica del corpo rovesciato troviamo ancora una volta Leonardo da Vinci. Fu lui, infatti, il primo a lasciarci pagine e pagine di dissezioni anatomiche testimoniando un interesse quasi morboso per l’interno del corpo. Questo interesse lo ritroviamo poi in tutta la diffusione di incisioni e disegni anatomici diffusi soprattutto a partire dal XVII secolo. La coincidenza con gli stadi nascenti dell’estetica delle macchine (da Leonardo al meccanicismo secentesco) forse è qualcosa di più che una mera concomitanza. Non è un caso infatti che dal momento in cui si sviluppa l’interesse per le macchine e per la dimensione del funzionamento, nasca anche l’interesse di smontare in un certo senso l’uomo come se fosse una macchina per indagarne i meccanismi interni che ne consentono il funzionamento. In questo senso l’estetica del corpo rivoltato è una delle tante declinazioni delle estetiche del macchinico e dell’artificiale, in quanto si fondano sul parallelo funzionale tra l’essere vivente e la macchina.

A questo punto bisogna fare un riferimento alla questione del medical imaging usato come supporto nelle scienze cognitive e occorre aprire una breve parentesi. Il problema delle scienze cognitive è che esse insistono su un percorso tipico della modernità che ha ridotto tutta la questione del rapporto tra razionalità, linguaggio e cose, al solo rapporto tra l’io e le proprie rappresentazioni. Questo collasso di tutto l’orizzonte ontologico nelle sole funzioni del soggetto, come sappiamo, è iniziato ben prima della cosiddetta rivoluzione copernicana di kantiana memoria e ha permeato di sé tutte le maggiori correnti della filosofia moderna a esclusione di poche eccezioni. Questo aspetto della vita del soggetto non era ignoto alla filosofia antica ma era considerato solo come una parte della filosofia e più precisamente la psicologia. Nell’età antica al centro invece si trovava la componente impersonale delle idee platoniche o degli universali nel loro rapporto con la sostanza. Esisteva comunque sempre in questi sistemi una dimensione indipendente dal soggetto mentale ovvero dall’io psicologico. Nella filosofia moderna questo io può essere un io metafisico o un io empirico o infine un io trascendentale. Il problema è che la filosofia del Novecento su queste basi si è trovata sempre esposta al rischio dello psicologismo, perché la diluizione della filosofia nella psicologia empirica è di fatto lo scheletro nell’armadio di tutta la svolta moderna. Una volta tramontata l’esigenza di difesa dello specifico filosofico contro gli assalti delle scienze positive, che aveva caratterizzato la filosofia della prima metà del secolo scorso, le scienze cognitive sembrano decisamente aver aperto la strada all’indagine empirica e psicologica ovvero a ciò che era sempre stato trattenuto e negato dai sostenitori del primato della filosofia. Questo però non è il problema, il problema è che in questo modo la mente e il cervello (che per alcuni sono la stessa cosa) divengono infine l’ultimo ricettacolo del soggetto filosofico e dell’essenza dell’uomo. In questo caso allora il medical imaging, applicato alle scienze cognitive, ha una pretesa del tutto particolare rispetto alle altre accezioni dell’artefattuale e cioè quella di mostrare infine l’essenza stessa dell’uomo, mostrandone il suo tratto fondamentale e distintivo: il suo potente cervello. Non possiamo a questo punto che denunciare il portato ideologico di questo uso dell’artefattuale e appellarci al contrario all’esigenza di rilanciare un punto di vista impersonale, le cui forme e modalità non possono essere trattate in questa sede, ma che comunque riteniamo coerente con la svolta postumana nell’ambito dell’episteme, che è necessariamente anche una svolta rispetto alle filosofie del soggetto e dell’individuo che hanno caratterizzato la modernità.

 

5. Artefattuale_4: l’inganno

Abbiamo parlato di due accezioni all’interno del campo medico. La seconda di queste è forse quella attualmente più in voga e che interessa oltre alla medicina anche l’informatica.

Questa ultima accezione dell’artefattuale deriva sempre dalla lingua inglese, dove il significato di artifactual ha una somiglianza di famiglia, purtroppo di tipo negativo, con quello di altre espressioni come alterazione, mistificazione, sofisticazione, manipolazione, adulteramento ecc. Si tratta come è facile constatare di tutte nozioni che implicano un occultamento anche solo parziale della verità e che quindi inducono in errore, ingannando e fuorviando il soggetto conoscente e agente. In questa accezione dell’artefattuale, a differenza che in altre, c’è l’elemento fuorviante ma non c’è la componente del dolo. Quindi si tratta di un inganno senza un intento ingannatore. Ma com’è possibile una caratteristica di tal genere? Essa è possibile dal momento che l’inganno non dipende dalla cattiva volontà di un individuo ma da un automatismo o un effetto collaterale e involontario di una tecnica o di una tecnologia. Se per esempio abbiamo a che fare con delle strumentazioni di medical imaging, queste ci dovranno offrire una rappresentazione di uno stato di fatto non altrimenti percepibile. Queste tecnologie, essendo delle tecnologie di rappresentazione, dovrebbero rendere in maniera limpida e inalterata la rappresentazione o l’informazione che essa è chiamata a offrire. Tuttavia questo non sempre accade. Esistono dei casi in cui la tecnologia può mostrare delle evidenze che il medico imputa coerentemente al paziente ma che in realtà andrebbero imputate solo all’azione dello strumento di indagine. In questo caso si parla allora di evidenze artefattuali. Si tratta cioè di quella che gli anglosassoni chiamano misrepresentation e che noi possiamo rendere come rappresentazione falsata. In questo caso l’artefatto è qualcosa di artificiale che non è fatto dall’uomo bensì dalla macchina o dalla tecnica di analisi. Il caso più chiaro potrebbe essere quello di una strumentazione di medical imaging che fa apparire delle discontinuità nell’immagine che vengono interpretate come rappresentazioni di parte dell’organismo ma che in realtà non sono altro che disturbi di visualizzazione. In altri casi però l’alterazione della rappresentazione può non corrispondere a un’alterazione dell’immagine nel senso visuale del termine: per esempio si potrebbero usare dei reagenti o delle sostanze di contrasto che servono a evidenziare dei dati negli esami ma che al tempo stesso influiscono sull’organismo alterando i risultati stessi delle analisi. Non si tratta dunque di immagini, ma di risultati di esami che comunque si presentano alterati dalla procedura adottata. Infatti infine ci può anche essere il caso di regolarità statistiche illusorie e ingannevoli che sembrano dimostrare l’esistenza di una correlazione tra due fenomeni patologici che invece non c’è.

Rispetto a questa accezione è anche l’uso del termine estetica a variare. Infatti non si tratta più di pensare l’estetica come sensibilità verso qualche tipo di bellezza. Qui la bellezza non c’entra. Qui è in gioco invece un altro aspetto dell’estetica ovvero quello che le consente di interrogarsi su questioni inerenti alla struttura del sensibile e, tra queste, casi speciali della sensibilità ma normali per lo studio dell’estetica, come quello dello statuto ontologico della rappresentazione. Normalmente quando parliamo di rappresentazione abbiamo in mente un’immagine composta da un supporto e da un contenuto sensibile che rimanda a qualcosa di diverso dal supporto stesso, perché altrimenti avremmo la semplice percezione del supporto in sé e cioè della cosa. Il meccanismo della rappresentazione è attivato proprio dalla disgiunzione tra questi due livelli, per cui quello che vediamo non è semplicemente il supporto, ma non è semplicemente neanche l’oggetto a cui si riferisce il contenuto sensibile presente nel supporto. In altre parole noi non vediamo semplicemente una cosa, ma una cosa che rimanda a un’altra cosa, ovvero né la cosa rappresentante né la cosa rappresentata ma il rappresentante che rimanda al rappresentato[4]. Quando noi invece vediamo qualcosa tramite un mezzo non parliamo di rappresentazione ma di semplice percezione. Per esempio quando guardiamo un paesaggio da un finestra a vetri non pensiamo di guardare una rappresentazione del paesaggio sul vetro, ma pensiamo di guardare il paesaggio e basta. Tuttavia il vetro è il mezzo che ci consente di vedere il paesaggio attraverso la sua trasparenza. Lo stesso accade quando vediamo le cose tramite gli occhiali, anche se l’immagine a occhio nudo e quella con gli occhiali differiscono in definizione. Lo stesso pensiamo di fare quando usiamo un telescopio o un microscopio. Quindi lo stesso avviene anche quando usiamo una telecamera a circuito chiuso, come nel caso del videocitofono. Noi pensiamo di vedere semplicemente il postino che ci ha suonato, ma in realtà stiamo guardando un monitor. Fino a che punto allora un mezzo è solo un accidente completamente trasparente e inesistente rispetto al suo oggetto e quando invece esso diventa un supporto vero e proprio di una rappresentazione?

Nel caso in esame, quello del medical imaging, questo mezzo di rilevazione dell’interno del corpo o di parametri biomedici, non solo è un supporto che non può essere paragonato a un semplice paio di occhiali, ma in più, presupponendo delle procedure tecniche complesse, è soggetto a produrre delle conseguenze formali che inficiano e alterano i dati stessi che si vogliono trarre attraverso lo strumento di indagine. Questa ingerenza del mezzo sull’oggetto della rappresentazione però non è sempre facilmente identificabile. Infatti la presenza di rumore dovuto alle caratteristiche del medium è un fenomeno ben noto negli studi sulla comunicazione e sulla teoria dell’informazione fin dalla loro stessa nascita. In questo caso però non parliamo di semplice rumore, perché questo rumore è indiscernibile dall’informazione e quindi viene scambiato per informazione, generando così un’informazione erronea. Si tratta dunque di un rumore ingannevole, che produce una rappresentazione alterata e falsata. Questa alterazione però è interna al meccanismo di rappresentazione. È riproposta in ambito tecnologico una vecchia questione che era stata già evidenziata in ambito teoretico dai filosofi scettici. L’artefattuale in questa accezione impone una distanza critica verso il mezzo tecnologico che non solo può sbagliare, ma può anche illudere e ingannare proprio laddove più forte è la sua funzione veritativa, in quanto c’è in gioco la salute del paziente. La tecnologia appare di contro alle teorie convenzionali sulla tecnica che la pensa sempre come mezzo o strumento, come se fosse spontaneamente produttiva, e dunque potenzialmente fuori controllo. L’idea di una tecnica fuori controllo che diviene creativa essa stessa indipendentemente dal suo utilizzatore o dal suo progettista è stato un tema molto sfruttato all’interno dell’immaginario di fantascienza ed è anche stato sfruttato in alcune teorie sul postumano, che intendono questo fenomeno come frutto di un rovesciamento di rapporti tra l’uomo e la tecnologia in cui l’uomo diviene vittima della tecnologia e ne viene sovrastato, travolto e stravolto. Come ho avuto già occasione di scrivere, non condivido questo punto di vista perché ritengo che esso debba essere ascritto più a delle angosce che animano l’immaginario tecnologico contemporaneo che non a rischi realmente in atto in questo momento.[5]

 

6. Artefattuale_5: alterazioni digitali

L’ultimo caso che qui prenderemo in esame è sempre pertinente all’accezione ingannevole ora considerata. Si tratta del suo impiego in un altro campo, quello dell’informatica e in particolare al trattamento dei contenuti sonori e grafici. Il riferimento anche qui è a effetti non voluti o addirittura indesiderati che derivano non dalla fonte esterna, ma dal trattamento digitale subìto dal segnale. I casi più comuni sono quelli dell’aliasing che sono provocati da una insufficiente frequenza di campionamento e che nell’audio producono suoni metallici e disturbati, mentre nella fotografia o nella scansione grafica producono il cosiddetto effetto moiré. Si possono poi dare dei casi in cui a livello informatico più generico la programmazione può produrre dei bug che alterano gli esiti delle elaborazioni. In ogni caso anche in questo settore il dato più rilevante dal punto di vista estetico è quello che gli anglosassoni chiamano “misrepresentation”. Nel caso però di normali applicativi per pc, molti dei quali hanno uno scopo ricreativo e non strettamente professionale, queste deformazioni dell’immagine possono addirittura rappresentare uno stimolo per qualcuno, in particolare per alcuni artisti da cui è nata anche una poetica digitale della low definition e della low fidelity, che naturalmente si oppone alla più diffusa richiesta dell’high definition. La poetica lo-fi è presente soprattutto nella musica punk, black metal, noise, industrial ecc., quella della low definition in correnti dell’arte contemporanea con particolare riferimento alla video art[6] o alla copy art. In questo caso a differenza che nel medical imaging l’alterazione artefattuale viene rivendicata con due finalità: in musica e talvolta in video soprattutto per opporsi al prodotto ben confezionato dell’industria culturale che viene ritenuto conformista se non addirittura conservatore; nella video art e in generale nell’arte contemporanea oltre o fuori da questa vena polemica subentra un’altra esigenza, quella di far entrare anche il mezzo nella rappresentazione e di renderlo implicitamente rappresentato, per boicottare il dispositivo illusionistico della rappresentazione. Nel momento in cui si rompe l’incantesimo dell’illusionismo della rappresentazione, si esce per così dire dalla cornice del quadro o dalla scena teatrale per lasciar vedere anche il boccascena e il teatro non solo come luogo ma come struttura sociale e culturale. In questo modo si ha qualcosa di più di un anti-illusionismo, si ha il passaggio dal linguaggio oggetto al meta-linguaggio e quello che si perde in gradimento illusionistico lo si guadagna in apprezzamento intellettuale. Questo meta-livello però non si raggiunge con una rappresentazione della rappresentazione, ovvero con una rappresentazione en-abyme, bensì con il lasciare che i limiti del mezzo siano avvertibili anche dal fruitore. Si tratta cioè di rovesciare il motto rinascimentale dell’ars est celare artem e di trasformarlo in ars est ostendere artem.

 


[1] G. Dickie, Art and the Aesthetic: An Institutional Analysis, Cornell University Press, New York, 1974.

[2] Per un maggiore approfondimento cfr. W. Kennick, Does traditional aesthetics rest on a mistake?, in «Mind», 67, 1958, pp. 317-334; M. Weitz, The role of theory in aesthetics, in «Journal of aesthetics and art criticism», 15, 1956, pp. 27-35; P. Ziff, The task of defining a work of art, in «Philosophical Review», 62, 1953, pp. 58-78.

[3] R. Terrosi, La filosofia del postumano, Costa & Nolan, Genova 1997.

[4] Per esempio se vediamo un quadro in cui è dipinta una mela noi non vediamo né solamente la tela, né solamente la mela, ma un quadro di un una mela.

[5] R. Terrosi, Ex-Humans, in «Kainos», 6, 2006.

[6] Cfr. S. Fadda, Definizione zero, Genova, Costa&Nolan, 1999.

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