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Socialdarwinismo: tra ambiguità e vecchie radici

Autore


Pina Vargas

Università degli Studi di Napoli Federico II

ha conseguito la Laurea Magistrale in Filosofia all’Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


  1. Un termine scomodo
  2. Herbert Spencer padre dell’evoluzionismo
  3. Una trappola linguistica: la sopravvivenza del più adatto
  4. La lotta per l’esistenza come idoneità riproduttiva

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S&F_n. 10_2013

Abstract


This paper aims to clarify, in a conceptual and terminological sense, the social-Darwinism in the different ways it appeared. It analyzes expressions like struggle for life and survival of the fittest to define the right field of study.


  1. Un termine scomodo

Non essendovi un manifesto programmatico o qualcos’altro che lo definisca in maniera precisa, si tende a identificare come socialdarwinista qualsiasi teoria si riallacci all’applicazione alla società delle idee evoluzionistiche di Charles Darwin e dei suoi “seguaci”. Così esso più che una ideologia si presenta ai nostri occhi come una world view, un modo di vedere le cose, ed è stato ricollegato molto spesso a dottrine differenti e talvolta opposte, a seconda che si mettesse in risalto uno dei tanti aspetti degli scritti di Darwin. Talvolta apparirà a sostegno del pacifismo, talaltra dell’imperialismo e del militarismo, addirittura sarà sostenuto all’inizio dai socialisti tedeschi e dai socialdemocratici, per diventare poco tempo dopo, sotto la minaccia di un proletariato sempre più forte e organizzato, roccaforte di una concezione aristocratica della vita. Dunque sotto una stessa etichetta troviamo spesso sostenitori di teorie e ideologie totalmente opposte, il che diventa possibile nel momento in cui si faccia uso non dell’opera in toto di un autore, bensì del significato che si vuol attribuire. Il socialdarwinismo è un vero e proprio fenomeno epocale che affonda le sue radici in tradizioni diverse ed eterogenee (le teorie evoluzionistiche di Darwin, Lamarck, Spencer, il malthusianesimo, il positivismo) e che diventa oggetto di dibattito scientifico e strumento di propaganda politica. Anche il termine “socialdarwinismo” non ha una sua chiara definizione e viene utilizzato a partire dall’ultimo ventennio del XIX secolo da coloro che criticano le teorie di Herbert Spencer, per poi riferirsi a tutti coloro che tendono ad applicare alla società le leggi vigenti nel mondo della natura, o viene etichettato come “socialdarwinista” un qualsiasi teorico dell’eugenismo. Nel Dictionnaire du darwinisme et de l’évolution troviamo una definizione semplice, ma efficace, di questo termine e delle idee a esso connesse. Viene utilizzato inizialmente nell’ultimo ventennio del XIX secolo, dapprima in Europa e poi negli Stati Uniti, dai critici della filosofia spenceriana. Esso ha una connotazione negativa e si riferisce a coloro che ritengono che le leggi alla base della società siano le stesse che regolano la vita naturale, e che dunque la struggle for life e il survival of the fittest siano alla base dei rapporti sociali. Tuttavia, i “veri” socialdarwinisti rifiuteranno questo termine, proprio per l’accezione negativa che esso avrà durante tutto il XIX secolo. Sempre in quest’opera viene fatta una distinzione tra vari tipi di socialdarwinismo a seconda che si interpreti tale definizione in senso stretto o meno. Il primo “tipo” include tutte le teorie nelle quali vi è una qualsiasi analogia tra leggi naturali e leggi sociali, ma così facendo, il campo d’indagine sarebbe immenso e sarebbe impossibile tracciare dei limiti ben definiti. Il socialdarwinismo in senso “stretto” è quello di alcuni critici che lo usano in riferimento agli eugenisti, senza tener conto che alcuni di essi non sono socialdarwinisti. Infine ci viene proposta una definizione che si situa tra questi due opposti e che vede nel socialdarwinismo una sorta di sociologia, la quale si basa su tre assunti principali: l’appartenenza dell’uomo alla natura e dunque l’applicazione alla società delle leggi naturali; le leggi della natura, e dunque della società, sono fondamentalmente la sopravvivenza del più “adatto”, la lotta per la vita e l’ereditarietà; la necessità, per il benessere dell’umanità, che tali leggi agiscano all’interno della società.

Fatte tali premesse il socialdarwinismo sarà «la branche de l’évolutionnisme qui postule un écart minimal, ou nul, entre les lois de la nature et les lois sociales, toutes deux soumises à la survivance du plus apte, et considère que ces lois de la nature fournissent directement une morale et une politique»[1].
A questo punto viene fatta un’ulteriore distinzione tra una forma di socialdarwinismo “olistica” e una “individualista”. Con il socialdarwinismo olistico, o anche “sociologia della lotta”, sono identificabili varie teorie che non sempre coincidono, ma tutte hanno in comune la priorità della lotta tra razze rispetto a quella tra singoli individui; una gerarchizzazione della società, nell’ambito della quale vi sono individui superiori e inferiori. Le richieste di democratizzazione della società e il tentativo delle classi inferiori di avere una certa influenza economica e politica preoccupano questi socialdarwinisti, che vedono nel declino dell’aristocrazia un declino della civiltà e della razza e la degenerazione della razza stessa. Tutto questo avviene, a meno che lo Stato non intervenga a invertire gli effetti della selezione sociale che agisce contro la selezione naturale, impedendone l’azione. Un altro assunto di base è che la lotta tra razze comporta, una volta sconfitte, l’assorbimento e l’omogeneizzazione delle razze inferiori da parte delle razze superiori. Le razze inferiori costituiranno le classi sociali inferiori. Dunque l’ineguaglianza sociale è necessaria ed è alla base della civiltà stessa. Riassumendo, i sostenitori di tali teorie saranno definibili come socialdarwinisti olistici solo in quanto tutti a favore della lotta interrazziale, nella convinzione che questa sia il motore della storia e la base della civiltà, e in quanto credono fermamente che qualsiasi fenomeno sociale sia riconducibile alla biologia. Ben diversi saranno i presupposti e le conclusioni del socialdarwinismo individualista, che si sviluppa dapprima in Gran Bretagna verso il 1850 e deriva dalle teorie di Malthus e di Spencer. Esso si basa sulla lotta tra individui della stessa specie e sull’idea che questi debbano essere liberi di competere, così come avviene in natura. La competizione è prevalentemente di tipo economico e viene ricollegata al laissez-faire, tanto caro alla borghesia imprenditoriale anglosassone. Quest’ultima vede con ottimismo l’applicazione alla società delle leggi vigenti in natura, in quanto portatrici di progresso. Lo Stato non deve intervenire nella vita dei privati e soprattutto la povertà è un male necessario, che diminuirà soltanto grazie all’intensificarsi della lotta, che ha come conseguenza il progredire della razza. È importante sottolineare che questo tipo di socialdarwinismo è emanazione di uno spirito positivista che vede con ottimismo l’applicazione alla società, e soprattutto all’economia, delle leggi di natura, e che tale concezione non prevede un intervento diretto sull’uomo e sulla razza, ma sostiene piuttosto una politica di non intromissione dello Stato nella vita dei suoi cittadini. Detto questo è importante chiarire che, contrariamente a una opinione diffusa, il socialdarwinismo non è il frutto di una estrapolazione compiuta dopo Darwin da darwiniani eterodossi, ma la prospettiva nella quale si pose lo stesso autore in The Descent of Man. Egli sostenne, precisamente nel Capitolo V, che fin dai tempi più remoti

le tribù più dotate hanno soppiantato le altre» e, a suo parere, questo tipo di conflittualità con il conseguente annientamento fisico di intere popolazioni, sia ancora operante: «Attualmente le nazioni civili stanno ovunque soppiantando quelle barbare, a eccezione dei luoghi in cui il clima oppone una barriera mortale; e hanno successo soprattutto, anche se non esclusivamente, per le loro tecniche, prodotto dell’intelligenza. È perciò molto probabile che, per quanto riguarda il genere umano, le facoltà intellettive si siano venute principalmente e gradualmente perfezionando mediante la selezione naturale. Questa conclusione è sufficiente per il nostro scopo. Indubbiamente sarebbe interessante tracciare lo sviluppo di ciascuna facoltà separatamente, dalla condizione in cui esiste nell’animale inferiore a quella in cui esiste nell’uomo, ma né la mia capacità né le mie conoscenze permettono questo tentativo[2].

Successivamente riporta l’esempio della Spagna, per delineare quanto i rapporti di forza possano cambiare: «Chi può positivamente dire perché la nazione spagnola, dominatrice in un certo periodo, sia rimasta tanto indietro nella lotta? Il risveglio delle nazioni europee dall’età oscura è tuttora un problema molto incerto»[3]. E allora è necessario non mitigare gli effetti della selezione naturale all’interno delle società, perché sono essi che hanno garantito e possono ancora assicurare la vittoria del più «dotato» e del più «capace» ed è in questo modo che l’approccio “darwiniano” (seppur in maniera embrionale) caratterizzò fortemente i Principles of sociology di Herbert Spencer il quale, come si esporrà successivamente, non fonda il suo pensiero su puntuali ricerche di scienze naturali, ma delinea piuttosto una visione generale della realtà che applica le concezioni scientifiche evoluzionistiche ai diversi settori dell’indagine filosofica.

 

  1. Herbert Spencer padre dell’evoluzionismo

Il filosofo di Derby divenne evoluzionista indipendentemente da Darwin, elaborò una teoria evolutiva prima che quest’ultimo rendesse pubblica la propria e l’incontro con il darwinismo s’instaurò dopo che Spencer si era parecchio inoltrato nella formulazione delle sue tesi. Prima del 1858 i due autori non ebbero contatti, svolsero le loro ricerche in modo autonomo e dal punto di vista della teoria evoluzionistica generale Spencer poteva vantare un’indiscutibile priorità, essendosi impegnato nella sua definizione per tutto il decennio successivo a Social Statics del 1852. Tentò di passare da una teoria del progresso, ancora legata a presupposti antropocentrici, a una teoria universale dell’evoluzione, con l’obiettivo di una “deantropomorfizzazione” dell’idea di progresso e proprio l’ineliminabile residuo antropomorfico racchiuso in tale nozione aveva infine fatto pendere la bilancia a favore del termine “evoluzione”. In Spencer troviamo una graduale metamorfosi lessicale che sanziona la maturazione dell’evoluzionismo “totale”, di una concezione cioè che non si limitava a postulare un costante processo di sviluppo dall’origine del sistema solare al mondo umano, ma richiedeva anche che ogni serie particolare di fenomeni si conformasse al paradigma operante nella totalità dell’evoluzione. In questo senso, l’ultima rifinitura al sistema dell’evoluzionismo totale arrivò con la prima edizione dei First Principles del 1862: l’evoluzione delle realtà organiche deve essere stata preceduta in passato da una evoluzione delle realtà inorganiche e nulla si oppone alla possibilità che in futuro essa possa proseguire fino a sfociare in una ulteriore – quanto migliore – realtà super organica. La saldatura fra evoluzione della natura e progresso umano, che in Darwin mantenne un aspetto problematico e non venne comunque teorizzata, diventò invece la chiave di volta del sistema spenceriano. Egli riprese il concetto di selezione naturale ma lo interpretò come un fattore secondario del processo di trasformazione organica, riconoscendogli la capacità di produrre “indirettamente” un equilibrio tra l’organismo e l’ambiente, attraverso l’eliminazione degli individui che non avevano saputo rispondere positivamente alle variazioni ambientali. Il processo di equilibramento “diretto” tra l’organismo e l’ambiente restava però l’agente principale delle modificazioni, che, una volta fissate stabilmente, erano poi suscettibili di essere trasmesse per via ereditaria. Inoltre, e questo era forse il dato fondamentale, agli occhi di Spencer la dottrina darwiniana riguardava soltanto un capitolo, importante ma circoscritto, dell’evoluzione progressiva operante in tutta la realtà. In effetti Darwin nella prima edizione de The Origin of Species, del 1859, non fece uso del termine “evoluzione”, che compare invece nelle edizioni successive e ricorre poi con una certa frequenza in The Descent of Man del 1871. L’assenza di tale espressione è dovuta al fatto che secondo Darwin l’evoluzione, stando all’accezione più propria del termine, è quel processo che si realizza quando qualcosa ha già all’inizio tutto ciò che in seguito svilupperà e manifesterà. Darwin vuole esprimere qualcosa di diverso, secondo lui la realtà non si evolve né sviluppa qualcosa di prefissato, ma cambia, muta e si trasforma. Inoltre, quando Darwin nomina la propria teoria, la chiama «teoria della mutazione della specie per selezione naturale». Soprattutto, però, il principio dell’evoluzione indicava già per Darwin una teoria schiettamente filosofica, riconducibile a Spencer, secondo cui tutta la realtà appare descrivibile in termini di universale progresso e Darwin fa chiaramente intendere che per quanto la considerasse un grande principio, capace di opporsi alla tesi della creazione diretta delle specie da parte di Dio, l’evoluzionismo originato da Spencer non era ciò di cui parlava la sua teoria. Dunque se le cose stanno così, allora non è stata una neutra ipotesi scientifica, da sola, a provocare le immense conseguenze culturali che il cosiddetto “darwinismo” ha suscitato, piuttosto è stato l’accostamento imprevedibile con l’evoluzionismo di Spencer a generare l’opinione che quella di Darwin fosse una teoria dell’evoluzione. La frase “la teoria dell’evoluzione è stata originata da Darwin” risulta dunque un falso storico che però, paradossalmente ha fatto la fortuna di Darwin e della sua teoria. «Come ha acutamente osservato Maria Turchetto, il socialdarwinismo dovrebbe chiamarsi piuttosto socialspencerismo, dal momento che nulla è più di esso lontano dalla visione del mondo di Darwin, e più vicino a quella di Spencer»[4].
Dunque anche Darwin finì per accogliere un termine adottato da Spencer e ciò favorì la tendenza a mettere sullo stesso piano, se non a identificare, il trasformismo darwiniano e l’evoluzionismo spenceriano.

Ci si continua a domandare chi, tra Lamarck e Darwin, sia stato il primo a creare la dottrina dell’evoluzionismo, sebbene né l’uno né l’altro abbia rivendicato la paternità di questa scoperta, mentre nessuno pensa di attribuirla a Spencer, che la rivendica a buon diritto. Questo nuovo hircocervus, l’evolutionismus darwinianus, dà prova di una vitalità straordinaria. La deve senza dubbio alla sua natura particolare di ibrido tra una dottrina filosofica e una legge scientifica: avendo la generalità dell’una e la certezza probatoria dell’altra, è praticamente indistruttibile[5].

E ancora:

Il darwinismo dell’Evoluzionismo non appartiene alla storia reale, ma a quella dei miti. È il frutto di una rappresentazione collettiva ormai fatta propria dalla stampa, dalle correnti intellettuali ai partiti politici, e che si nutre degli interessi di ogni sorta di cui è stato fatto oggetto. Sarebbe oggi una perdita di tempo voler aggiustare le cose. Nessuno riuscirebbe dove lo stesso Spencer ha fallito. È perfino probabile che si fallirebbe nel fare ammettere la realtà del problema. Si tratta, si direbbe, di una questione di linguaggio. Era l’evoluzione che Darwin intendeva con descent. Ma non è esattamente vero. Darwin non ha mai dato al suo concetto di “origine” il nome di evoluzione. […] È dunque vero che, secondo lo stesso Darwin, la teoria dell’origine della specie è inconcepibile senza quella della selezione naturale, e poiché l’origine è il primo attimo della generazione della specie, è proprio la selezione naturale l’anima di tutto il processo[6].

Dunque l’evoluzionismo di Spencer non è la semplice estensione delle nozioni di Darwin all’intero universo: quando si dice che per Spencer l’evoluzione è cosmica vuol dire l’intero cosmo è sottoposto a un unico processo evolutivo che si articola in fasi e aspetti differenti nonché successivi. Molti lettori de The Origine of Species hanno avuto la tendenza a trarre dalla teoria dell’evoluzione per selezione naturale conclusioni riguardanti l’uomo e la società. La verità è che il richiamo a basi biologiche era comodo per i vari ideologi, rifarsi a quello che sembrava essere un dato scientifico inoppugnabile aveva il senso di giustificare varie formulazioni ideologiche. La biologia sembrava offrire la dimostrazione scientifica, e quindi indiscutibile, di certe posizioni ideologiche. Il problema del darwinismo sociale e della sua influenza sulle scienze cosiddette umane è solo l’aspetto più noto di un fenomeno più vasto: quello del biologismo, cioè la tendenza a ridurre concetti, categorie, teorie, metodi e dottrine delle scienze umane a concetti, categorie, teorie, metodi e dottrine delle scienze biologiche. Il darwinismo sociale è una forma di biologismo. Quindi, a monte del problema del darwinismo sociale sta quello del rapporto fra scienze umane e scienze biologiche e, in generale, le scienze naturali. In effetti la società umana nella sua storia millenaria è sempre stata caratterizzata da conflitti tra le varie classi sociali, tuttavia è diversa dalla lotta per l’esistenza come la caratterizza Darwin. In un caso, si tratta di un meccanismo regolatore dell’equilibrio naturale tra specie, un mezzo per mantenere la gerarchia armoniosa delle forme viventi. Nell’altro caso, è la risultante di una pressione demografica, soprattutto intraspecifica, che occasiona una riproduzione differenziale dei portatori di variazioni relativamente meglio adattati, hic et nunc. Quando la selezione naturale fa la sua comparsa, serve a poco a poco a giustificare concezioni sociali che esistevano da molto tempo; in questa operazione di legittimazione, i termini propri del darwinismo si diffondono e diventano slogan e parole di schieramento, risultato di un manierismo lessicale e semantico.

  1. Una trappola linguistica: la sopravvivenza del più adatto

L’espressione “sopravvivenza del più adatto” compare per la prima volta in Social Statics di Spencer, e Darwin stesso ammette:

Questo principio, per il quale ogni lieve variazione, se utile, si mantiene, è stato da me denominato “selezione naturale” […] Ma l’espressione “sopravvivenza del più adatto”, spesso usata da Herbert Spencer, è più idonea, e talvolta ugualmente conveniente[7].

Ora, un processo che favorisce i più adatti nella lotta per l’esistenza conferisce fondamentale importanza all’adattamento, inteso come l’insieme delle proprietà che migliorano le condizioni dei diversi esseri viventi di sopravvivere e di riprodursi nel proprio ambiente naturale, e porta necessariamente gli esemplari delle generazioni future a essere meglio attrezzati per fronteggiare i problemi di limitazione delle risorse rispetto alle generazioni precedenti. Nonostante l’ambiguità dell’espressione “lotta per l’esistenza”, da molti erroneamente intesa in senso letterale, appare evidente che tale espressione non è stata impiegata nello stesso senso dai socialdarwinisti e da Darwin: i socialdarwinisti hanno usato l’espressione “sopravvivenza del più adatto” col significato di “sopravvivenza del più forte” e dunque di “successo del più forte”, da Darwin è stata impiegata l’espressione “lotta per l’esistenza” solo col significato di “selezione naturale”, nel senso di “successo di lasciare discendenza.” Ciò che ha contribuito a creare zone d’ombra e fraintendimenti è stato certamente l’abuso della nota espressione “sopravvivenza del più adatto” ma soprattutto servirsi del superlativo “il più adatto” (the fittest). Sarebbe stato più opportuno parlare della sopravvivenza di chi è “adatto” (fit) o di chi è “più adatto” (more fit) perché, in tal modo, si sarebbe reso evidente il carattere contestuale e comparativo della nozione, che acquista un significato determinato soltanto in relazione a uno specifico ambiente naturale e alla particolare popolazione biologica che in esso si trova a competere. Ora, la lotta per la vita e la sopravvivenza dei più adatti che Spencer aveva in mente ci si presentano sotto una luce diversa: la concorrenza non è benefica perché seleziona i migliori, ma perché stimola a migliorarsi lottando. È il lottare, il darsi da fare in quanto tale che produce il miglioramento. La concorrenza è una gara istituita provvidenzialmente, si, per premiare chi arriva primo, ma dopo aver costretto tutti i concorrenti a un costante allenamento: a furia di correre migliorano le prestazioni di tutti i corridori, anche dei meno dotati. L’eliminazione dei perdenti è un processo successivo, un fattore supplementare, secondario rispetto allo sviluppo benefico conseguito durante la prestazione. Il motore primo è la lotta che stimola lo sforzo. Per Darwin, invece, il processo selettivo era primario e operava su individui che per caso si trovavano a possedere caratteristiche vantaggiose e quindi il ruolo dello sforzo individuale era marginale. Qui “per caso” non è sinonimo di senza causa, ma indica che le variazioni sono dovute a cause complesse e sconosciute. Indica la nostra impossibilità a conoscere tali cause, non la loro assenza. Senza dubbio, sull’interpretazione spenceriana della lotta per la vita pesava una concezione della natura che aveva una implicita e importante dimensione morale: veniva premiato chi contribuiva al progresso con i propri sforzi. Le sofferenze non servivano a escludere, ma a stimolare. Perciò, quando Spencer invoca le leggi della natura e della biologia per difendere l’individualismo e la concorrenza, la sua non era tanto un’applicazione di dottrine biologiche alla società, quanto un’esplicitazione di convinzioni morali e politiche che avevano già condizionato e foggiato quelle idee biologiche. Bisogna però notare anche un altro aspetto: egli teorizzò la competizione incontrollata tra i soggetti sociali, in una prospettiva dell’evoluzione che seppur riconosceva senza riserve la funzionalità dei conflitti e della concorrenza, puntava poi al loro superamento nella società a venire. Del resto, lo stile metaforico e le ambiguità di Darwin permettevano diverse interpretazioni, il contesto sociale e le circostanze politiche determineranno il tipo di lettura eventualmente dominante e servirà da giustificazione a questa o quella misura effettiva. Fin dall’antichità storia naturale e pensiero politico condividono nozioni che autorizzano frequenti slittamenti di senso, utilizzi figurati, analogie più o meno controllate. Dato che si incontra dovunque la tentazione di ridurre i diversi aspetti della vita sociale a inclinazioni biologiche reificate in facoltà discrete, è necessario distinguere i significati e ricostruire la genealogia delle nozioni. Come si vede, esistono molti modi di “sociologizzare” Darwin. Si può sostenere che la sua teoria è un prodotto della cultura del suo tempo (Malthus e il Saggio sulla popolazione; la teologia naturale con il primato dell’adattamento; l’economia politica che fonda il progresso sulla competizione individuale), o che incorpora un’ideologia (il “darwinismo sociale”) entro una biologia, o ancora che fornisce le chiavi per comprendere molti fenomeni culturali o fisici (dalla morale all’emergenza del cervello). Ogni argomento dev’essere trattato a parte per metterne in luce l’intima complessità e precisazioni fatte fino a ora sono di importanza decisiva visti i problemi sorti da interpretazioni letterali delle nozioni di Darwin.

  1. La lotta per l’esistenza come idoneità riproduttiva

Uno dei fraintendimenti più frequenti, tra i socialdarwinisti e non, del concetto darwiniano di selezione naturale è stato sempre quello di vedere nella selezione un fattore di eliminazione dei non adatti piuttosto che un fattore di conservazione dei più adatti; insomma alla selezione è stata attribuita un’azione esclusivamente negativa, dimenticando quella positiva, ben più importante, di accumulazione e rafforzamento delle variazioni vantaggiose. Quando Patrick Tort, uno dei maggiori studiosi di Darwin, annuncia che l’eliminazione selettiva colpisce necessariamente coloro che sono i meno adatti a sopravvivere nell’ambiente considerato, valuta l’eliminazione in senso esclusivamente bellicistico, cioè strettamente in termini di guerra, sopraffazione e violenza. Tuttavia, sebbene l’eliminazione fisica sia uno dei possibili fattori del processo selettivo, non c’è ragione di credere che per Darwin fosse il più importante. A suggerire che così non è, concorre un’affermazione che non si metterà mai abbastanza in evidenza, attraverso la quale il naturalista intendeva sminuire il significato letterale assegnato all’espressione “lotta per l’esistenza”:

Devo premettere ch’io uso questa espressione in senso lato e metaforico, che implica la reciproca dipendenza degli esseri viventi, e implica inoltre, cosa ancora più importante, non solo la vita dell’individuo, ma il fatto che esso riesca a lasciare discendenza[8].

Soccombere nella lotta non significa soltanto perdere la vita, ma in primo luogo avere minore successo nel lasciare discendenza; ed è esattamente in ciò che consiste il moderno concetto di fitness, definito appunto come “idoneità riproduttiva”. Tutto ciò che la teoria dell’evoluzione per selezione naturale richiede è che il possesso di certi caratteri conferisca ai loro portatori un vantaggio riproduttivo su coloro che ne sono privi. L’eliminazione, dunque, riguarda in primo luogo i caratteri, ed è un processo graduale che richiede un numero imprecisato di generazioni e non richiede la soppressione immediata di certi tratti o dei loro portatori. Inoltre, il considerare la selezione naturale come un processo che si verifica indipendentemente dalle interazioni tra gli organismi – e contro cui gli individui possono eventualmente lottare – è frutto di un’evidente trappola linguistica, già rilevata da Darwin nella sesta e ultima edizione de The Origin of Species:

Si è detto che io parlo di selezione naturale come di una potenza attiva o di una divinità, ma chi mai muove obiezioni a un autore che disserta sull’attrazione della gravità, come della forza che regola i movimenti dei pianeti? Tutti sanno che cosa significano e implicano tali espressioni metaforiche, che sono quasi necessarie per ragioni di brevità. È altresì molto difficile evitare di personificare la natura, ma per Natura io intende soltanto l’azione combinata e il risultati di numerose leggi naturali, e per leggi la sequenza di fatti da noi accertata[9].

Dunque la selezione naturale non è, per Darwin, una forza attiva che si esercita sugli organismi; essa è un effetto prima ancora di essere una causa, ossia l’effetto delle interazioni tra gli organismi e la causa principale del cambiamento evolutivo. Si tratta di un punto ovvio, accettato da qualsiasi studioso che non sia meramente interessato a una critica del darwinismo per scopi ideologici; tuttavia, talune proposizioni testimoniano come l’immagine della selezione naturale come “forza naturale” (in senso letterale) sia ancora sotterraneamente influente. Detto altrimenti, bisogna distinguere tra le illusioni di una matrice universale e il carattere euristico di certi enunciati darwiniani, al di fuori della metafisica organicista che considera entità come “la selezione”, “la lotta per la vita”, “l’ambiente” o “l’ereditarietà” come potenze reali che agiscono nella storia.


[1] Patrick Tort (a cura di), Dictionnaire du darwinisme et de l’évolution, 3 voll., PUF, Paris, 1996, p. 1008.

[2] Charles Darwin, L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, tr. it. Newton Compton, Roma 2010, p. 112.

[3] Ibid., p. 121.

[4] Alberto Abbondandolo, I figli illegittimi di Darwin, Nessun dogma, 2012, p. 54.

[5] Ètienne Gilson, Biofilosofia da Aristotele a Darwin e ritorno. Saggio su alcune costanti della biofilosofia, tr., it. Marietti 1820, Genova-Milano 2003, p. 114.

[6] Ibid, pp. 116 – 117.

[7] Charles Darwin, L’Origine delle Specie, Universale Bollati Boringhieri, Torino, 2008, p. 138.

[8] Ibid. , p. 132.

[9] Ibid. , p. 147.

 

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