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La sofferenza nell’arte

Autore


Rossella Bonito Oliva

Università degli Studi di Napoli - L'Orientale

Indice


  1. Condizione umana: sofferenze
  2. Condizione umana: travestimenti
  3. Condizione umana: crocifissioni
  4. Condizione umana, troppo umana

 

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S&F_n. 13_2015

Abstract



The relationship between art and suffering is determined by art’s ability to represent its subjects without defining them. It is a process of subtraction rather than one of sheer imitation. This practice allows access to the core of suffering as the defining trait of human existence. The cathartic nature of art translates into a therapeutic experience, creating new emotional and interpersonal bounds.


  1. Condizione umana: sofferenze

La sofferenza è oggetto di ogni forma di rappresentazione umana. Come in ogni affanno, dalla paura all’incertezza in ogni passaggio della vita, l’uomo, diversamente dall’animale, non subisce soltanto, ma rappresenta la sofferenza, la ri-presenta coniugando insieme impressione e sentimento di sé, producendo un’oggettivazione, traducendo in qualcosa di più familiare quanto appare improvviso e imprevisto. Creare immagini, narrazioni è risultato di un processo in cui si collegano il sentimento della vita come vita propria, la ferita introdotta in questa dalla sofferenza e il bisogno di uscire dalla forza annientante del dolore. La forma più elevata di rappresentazione di questo nesso in cui la vita umana prende la sua specifica forma è l’arte in tutte le sue espressioni. Aristotele, per esempio, sottolineava l’effetto catartico sugli spettatori delle tragedie in cui si metteva in scena in maniera grandiosa il dolore inferto anche agli eroi dai colpi del destino cieco e indifferente alla forza, alla saggezza dell’individuo, stigma della ineludibile contingenza dell’esistenza. La rappresentazione tragica ripresentando, rioffrendo in immagine vicende dolorose e terribili, offriva una purificazione o una liberazione (Katharòs) che senza ritrarre lo sguardo, per il fatto stesso di riprodurre nello spettacolo, di dare forma e narrazione al terribile dell’esistenza umana come condizione comune, determinava un alleggerimento degli affanni. Non diversamente si muove la filosofia, o anche la scienza cercando risposte, vie d’accesso alla domanda che ogni volta il dolore introduce nella vita: una forma o una formula, uno sguardo più profondo o una prospettiva ravvicinata sono modi in cui l’uomo cerca di vincere l’eterna battaglia contro la morte e la sofferenza. Un punto di incontro tra arte, scienza e filosofia che permette di penetrare la complessa esperienza della vita nel corpo e del corpo vivente nel rinvio tra esterno e interno, tra parti e tutto, tra organi e funzioni nell’eterna ricerca del segreto della vita si ritrova nell’uomo di Vitruvio di Leonardo in una visione bidiminensionale di muscoli e vasi. L’immagine è la prima espressione di pensiero, da cui si originano modelli interpretativi della realtà che interessa e intesse la vicenda umana. Da questo punto di vista arte, filosofia e scienza cercano allo stesso modo e per vie diverse di guardare qualcosa che è invisibile, talvolta indicibile o irrapresentabile come sfondo che nasconde il significato della vita mai tanto urgente come nel momento del dolore e della sofferenza.

  1. Condizione umana: travestimenti

In un quadro intitolato da Magritte La condizione umana appare una tela dinanzi a una finestra, il quadro è una sezione del paesaggio e il paesaggio una continuazione del quadro (fig. 1).

Una sorta di rinvio di prospettive multiple che non isola l’oggetto dello sguardo e nello stesso tempo non riesce a cogliere tutto il paesaggio esterno. Questa la condizione umana incompiuta e tuttavia sempre in dipendenza e in relazione con il mondo che appare sempre in prospettiva, avvertito come limite dalla coscienza e tuttavia rappresentabile nell’immagine artistica. L’arte infatti non lavora sul pieno, ma assembla nella riproduzione dando forma e bellezza al limite prospettico: sottrae, toglie senza pretendere di cogliere l’essenziale, piuttosto al fine di alleggerire la resistenza del fuori e dell’inquietante per renderli disponibili all’occhio umano evocando e rinviando e insieme creando un’emozione comunicabile e comunicante per il senso e non per l’esattezza. L’arte come la tecnica lavora sulla materia e sul plesso psicofisico dell’uomo, ne rappresenta i limiti e li mette in scena, anzi l’arte rivela il gioco tra corpo/strumento e corpo/materia ponendo al centro sensi, emozioni, passioni che hanno nel corpo il loro primo referente simbolico. In un altro dipinto di Magritte, Il modello rosso, in cui le scarpe lasciano intravedere i piedi e i piedi sembrano quasi dischiudersi dalle scarpe, evocando un famoso dipinto di Van Gogh, giocano sullo scambio tra contenente e contenuto, tra il corpo e l’abito, tra la natura e il travestimento (fig. 2).

Evidentemente non omogenei l’uno all’altro e insieme indivisibili, come l’arte e la condizione umana, come la sofferenza e la sua rappresentazione. Niente come l’arte aspira al visibile e lavora sull’impossibilità della visibilità assoluta. Anche il dolore può essere rappresentabile solo in quanto e fin quando viene spostato nell’immagine, reso immagine e sottratto alla violenza dell’annientamento. Nel paesaggio la cornice del quadro e nelle scarpe la presenza concreta dei piedi portano allo scoperto lo stigma umano, il segno della cultura e della spinta alla ricreazione nel bello del limite del corpo, della prospettiva. Non si tratta dell’essenza dell’opera d’arte, piuttosto dell’eterna riflessione sulla condizione umana che si propaga dai primi interrogativi infantili, alle ricerche scientifiche, agli interrogativi filosofici e alle creazioni artistiche: le scarpe come gli abiti, gli strumenti come le maschere con cui l’uomo sperimenta il mondo e lo traduce reinterpretano la contingenza, la fragilità nell’eterna battaglia contro l’effimero, la morte.

L’arte visiva nell’immagine restituisce lo sfondo culturale del dolore, il suo vissuto in una pregnanza simbolica che attinge da un contesto interpersonale: l’arte non sarebbe senza questa cornice e dunque l’arte mette a fuoco senza pretendere a una rappresentazione definitiva lo sfondo interpersonale di ogni azione umana. E il dolore costituisce quasi il luogo emblematico in cui l’uomo sperimenta la dipendenza dall’Altro, oltre al legame con l’Altro. Quando si soffre, infatti, non si avverte soltanto un’affezione fisica e psichica, ma si percepisce la ferita della solitudine e il bisogno della comunicazione. Il pianto, l’urlo, il lamento sono le espressioni di un bisogno di dire, di raggiungere lo sguardo, l’attenzione dell’Altro e l’esperienza della difficoltà della comunicazione: la fragilità avvertita nella sofferenza espone all’Altro, lo invoca e nello stesso tempo lo chiama a testimone, mettendo in gioco l’ “importanza” dell’evento doloroso al di là della sua contingenza.

 

  1. Condizione umana: crocifissioni

Nella crocifissione di Mantegna, in cui il corpo esausto e ferito del Cristo si riflette e si dilata nel compatire dagli spettatori interni al quadro a quelli esterni, in qualche modo postumi ma non meno umani, porta a emergenza nella tragicità dell’evento una sorta di comunione e di eredità della natura creaturale e del bisogno metafisico, di un approdo del tendere della vita umana a un senso, a un oltre che ne preservi il significato oltre la morte (fig. 3). D’altra parte uno dei segni del cambio di registro della religione del Dio giudice degli ebrei al Dio dell’amore dei cristiani si gioca nella creazione di immagini che alludono a un’assenza palpabile dietro la morte del figlio, dietro la consonanza di emozioni che attraversano il tempo nella continuità del dolore per lo spettacolo della morte nel respiro della vita, quella dell’artista e quella dello spettatore.

L’arte toglie qualcosa, spezza il pieno e la pressione contingente della sofferenza, non vuole riprodurre, per questo sposta lo sguardo per vedere meglio, per restituire il plesso di contingenza e trascendenza in cui si disegna l’immagine della morte: un precipitare che mantiene una tensione verso l’alto, un ascendere che non cancella il nulla, il non essere più della morte. Non è importante che vi sia un corpo, che appaiono volti straziati, anche una linea o una figura monca, un colore o una voce tracciano l’incontro che l’arte sempre cerca tra il terribile e il sublime nella consapevolezza che solo la sottrazione, l’assunzione della irrappresentabilità del pieno permette di mettere a disposizione l’invisibile, l’altrove, l’incompiuto senza i quali non si darebbe forma umana della vita. Se rappresentare il pericolo consente di prevenirlo e schivarlo, se condividerlo nella efficacia della rappresentazione artistica attiva forme di comunicazione e intreccia legami che vanno oltre lo spazio e il tempo, i dipinti dei primi uomini come i disegni infantili non sono solo esercizi di riproduzione, ma veri e propri registri performativi dell’esperienza, strutturazione della prospettiva specifica di ogni cultura sull’eterno dilemma della sofferenza. Non viene meno la forza dell’immagine della sofferenza se raffrontiamo la Crocifissione di Mantegna con la Crocifissione di Bacon (fig. 4).

In quest’ultima in assenza della croce un corpo sospeso e altrettanto straziato rimanda drammaticamente alla solitudine del sofferente, una solitudine senza un riferimento al divino, quasi nuda e oscena, fonte di un’eco che penetra gli occhi e la carne, immagine contratta della condizione senza ritorno e senza riscatto di una morte muta, irrappresentabile e oscena e a un tempo ineludibilmente presente.

In questa prospettiva la rappresentazione del dolore, come di ogni esperienza umana, si radica e fa riferimento all’universo simbolico culturale che scrive e conserva la condivisione, la dipendenza tutta umana dagli altri che siano osservatori, compagni di viaggio, prossimi o interpreti della cura (fig. 5).

L’arte ha un potere terapeutico come sanno i pastori di anime, offre una visione e un orizzonte al ripiegamento della sofferenza e della disperazione. L’arte non si presta all’ideologia nella misura in cui non bisogna essere cristiani per emozionarsi dinanzi al dolore della madre della Pietà di Michelangelo o alla Crocifissione di Mantegna. Si parla non a caso ancora di arte medica forse proprio in quanto anche la medicina non è propriamente una tecnica o una scienza se non quando lavora per sezionamenti e analisi, lasciando sullo sfondo la totalità del corpo vivente. Se invece nella clinica si concentra sulla complessità della vita si serve dell’osservazione, dell’ascolto, della comparazione per affidarsi alla fine a quanto del dolore e della sofferenza si rappresenta nel rapporto tra chi soffre e chi cura (fig. 6).

 

 

  1. Condizione umana, troppo umana

La Sontag insiste sulla valenza quasi immunizzante che ha l’immagine del dolore degli altri nella sua reiterazione oggettiva, quando siamo bombardati, sommersi da immagini di dolore, sofferenza o torture e malattie. A questo destino si sottrae l’opera d’arte quando si sottragga alla sua riproducibilità. Ancora Magritte dichiara la sua rinuncia a dare visibilità all’invisibile, a sciogliere l’enigma della condizione umana. L’arte non ha pretese di verità, non riproduce ma crea il fenomeno cogliendo l’occasione prodotta dall’oggetto osservato. Picasso dinanzi all’entusiasmo di critici e visitatori per il suo Guernica, quasi che quei corpi straziati non parlassero dell’orrore della guerra e del bombardamento, può esimersi dalla responsabilità del fatto, che il quadro restituisce al mittente, a chi quell’orrore ha causato forse proprio in quanto non era riuscito a immaginarselo nella sua concretezza e interezza. Egli si era limitato a dipingere quell’orrore, a rappresentarlo nel sovrapporsi di linee, nello snaturamento di corpi, tuttavia con qualcosa in meno – il sangue, le grida, la tragica attualità della sofferenza nella sospensione del rumore delle armi – attraverso l’occhio dell’arte che scompone per restituire una parte: qualcosa in meno che può focalizzarsi sulla paura delle vittime solo perché libera dall’assolutismo intollerabile della realtà.

L’arte perciò mette in forma e rende tollerabile il reale, è catartica come i video di Viola in cui le figure come in una danza mettono in scena la passione del dolore, lo fanno risuonare come in un abbraccio cosmico in cui i corpi muovendosi testimoniano del bisogno di comunicazione, di vicinanza, di contatto.

L’arte allora non è mimetica, ma crea artifici come la tecnica per testimoniare di qualcosa che rimane sempre non dietro, ma al di là dell’immagine provocando la sensibilità, evocando sentimenti e conservando la memoria della condizione umana. Condizione umana, troppo umana che si ripete con lo stesso ritmo nel tempo e che l’arte restituisce ornata di bellezza, sollevata e portata all’attenzione per quella incompiutezza che rinvia sempre a uno spazio comune senza il quale anche la sofferenza rimarrebbe senza voce e senza forma. L’artista diceva Louise Bourgeois è in contatto diretto con l’inconscio, con le emozioni, guarda l’altra faccia dello specchio dove si stratifica l’origine più intima della sofferenza che nell’arte prende corpo, non per cassarla né per guarirla, ma per consolarla. Ricordando l’etimologia cum-solari da solus che significa intero, l’arte consola dal dolore perché restituisce l’intero, la forma andata a fondo nel disordine che la sofferenza apporta. Non produce né promette guarigione, ma dà forma e in questo senso disegna e contorna riconsegnando anche nella disarmonia del dolore l’intero di corpo e psiche, l’interrelazione della sensorialità fuori dal giogo della prestazione. Un’artista come Marina Abramovich nelle sue performance offre in sacrificio il proprio corpo, toccato, ferito, provocato dallo spettatore chiamato all’azione, alla responsabilità della condivisione di una presa diretta del dolore. L’immagine è la forma che si fa contenuto, il corpo dell’artista le dà spessore, restituisce visibilità alle ferite, alla malattia, lo ripone e lo ripropone in comune là dove rappresentazioni patinate di salute e benessere funzionali a politiche spersonalizzanti di cura lo riporterebbero al silenzio e alla solitudine.

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