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Solo un “bio” ci salverà? Note a margine dell’artificiosa distinzione tra natura e artificio

Autore


Cristian Fuschetto

Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


  1. Avvertenze
  2. Solo un “bio” ci salverà
  3. Cultura: storia di un parto naturale
  4. Episteme e ontologie fabbricative

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S&F_n. 12_2014

Abstract


In this article the distinction between nature and artifice will be examined from three perspectives: ethical and environmental – nature is something good to be preserved; historical and anthropological, which would establish the distinction on the fact that nature has laws that cannot be assimilated to those of history; ontological – artifact is everything incorporates a will. We will show that in all three levels of discussion the distinction between nature and artifice is less obvious than expected, not only that seems particularly contrived.

       


  1. Avvertenze

Prima di tutto c’è da fare i conti con il senso comune, poi con chi del senso comune dice e pensa di averne fatto epochè. La distinzione tra natura e artificio appare ovvia eppure, come accade al giovane Agostino allorché un bimbo assai particolare gli chiede cosa sia il tempo, basta porsi la questione con meno indolenza per vedere svanire i confini tra ciò che è di natura e ciò che non lo è. In questo breve articolo prenderemo in esame tre livelli su cui sovente si struttura la dicotomia natura/artificio: quello che potremmo definire di derivazione etico-ambientalista, in cui la natura finisce con l’essere il buono da salvare nell’Armageddon contro le potenze corruttive dell’artificio; il livello storico-antropologico, che vorrebbe tale distinzione fondata sul fatto che la natura ha leggi inassimilabili a quelle della storia; e, infine, un livello ontologico, secondo cui è artefatto tutto ciò che incorpora una volontà e, di contro, è naturale tutto ciò che invece ne è privo.

Mostreremo che in tutti e tre i livelli di discussione la distinzione tra natura e artificio appare meno ovvia del previsto, non solo: appare particolarmente artificiosa.

  1. Solo un “bio” ci salverà

Oggi non sembra così ovvio definire l’artificiale in opposizione al naturale ma comincia a sembrare possibile il suo contrario. Se è vero che ogni epoca ha la sua propria idea di natura e quindi una propria cognizione dell’artificiale[1], è vero anche che mai prima d’ora il termine “artificiale” è apparso così prepotentemente prioritario rispetto al suo partner naturale. Il continuo reclamare e parlare di agricoltura “biologica”, tanto per dire, ovvero l’esigenza di definire un prodotto di natura con un aggettivo naturalizzante quale “bio”, oltre che un’evidente isteria ecologista à la pàge, può infatti considerarsi come un piccola conferma del compiersi di quel che il Nobel per la Chimica Paul J. Crutzen ha definito “Antropocene”. Secondo lo scienziato olandese la rivoluzione industriale rappresenterebbe, infatti, l’inizio di una nuova era geologica, un’era che si distinguerebbe dalle altre, dal Pleistocene e dall’Olocene, per esempio, per l’impatto determinante dell’uomo sull’ambiente. Negli ultimi due secoli, osserva Crutzen, si sono registrati i più elevati livelli di anidride carbonica e di metano degli ultimi 15 milioni di anni e il pianeta Terra sta trasformando in modo significativo i suoi equilibri strutturali in seguito a fattori interamente antropogenici, ovvero a causa dell’uso abnorme che Homo sapiens sta facendo dei combustibili fossili come carbone, metano e petrolio, e della combustione di biomasse, come foreste, rifiuti e materiali organici. L’uomo, come disse già nella seconda metà dell’800 il geologo italiano Antonio Stoppani, è una «nuova forza tellurica» e, come tale, ha dato avvio a un’era a sua immagine e somiglianza, un’era interamente artificiale, l’era antropozoica. Il mutamento delle stesse condizioni di esistenza e di sopravvivenza del nostro pianeta è ciò che fa tanto paura al senso comune sensibile ai tormenti di Gaia[2] e il dominio dell’artificio (per mano umana) sulla natura è alle origini della decennale estremizzazione dei due poli della diade artificio/natura: in questo gioco di opposti la minaccia del primo si neutralizza puntando tutto sull’assolutezza della seconda.

Aldo Leopold, per esempio, il padre della Land ethics, già alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso esprimeva bene questa posizione quando nel definire la massima della nuova etica della Terra affermava che «una cosa è giusta quando tende a preservare la stabilità, l’integrità e la bellezza della comunità biotica, è sbagliata quando tende altrimenti»[3]. Questa impostazione, seguita negli anni a venire da radicali dell’ecologismo come Rachel Carson o Barry Commoner, continua a essere molto diffusa anche oggi e, aldilà di notazioni politiche, ciò che importa sul piano dei concetti è che essa presume la possibilità di distinguere chiaramente il dato naturale da quello artificiale. Il che, a guardare bene, equivarrebbe dire l’uomo da tutto il resto. Ma, ammesso e non concesso che ha un senso porsi questo tipo di problemi solo fintantoché c’è un uomo chiamato a risolverli o, quantomeno, a condividerne l’urgenza, appare assurdo invocare un mondo naturalizzato senza l’uomo. La proposta del senso comune ecologicamente connotato appare allora quella di silenziare la forza artificializzante del sapiens. Possibile? Per spiegarne l’assurdità è sufficiente un breve richiamo a qualche ragionamento di Plessner.

Ne I gradi dell’organico e l’uomo, Plessner mette a punto, in modo molto originale rispetto agli studi che l’avevano preceduto, la specificità dell’uomo sulla base di un unico principio di riferimento comune a tutti i viventi. Questo principio è la posizionalità, vale a dire il grado o livello con cui ogni singolo vivente può porsi in relazione al proprio ambiente. «L’animale vive a partire dal suo centro, all’interno del suo centro ma non vive come centro»[4], l’uomo invece riesce a vivere anche come centro, riesce cioè a esperire la propria posizione nell’ambiente anche al di là dalla coincidenza con i propri confini organici. Per questo motivo, suggerisce suggestivamente il filosofo tedesco, l’uomo è un «essere eccentrico», è cioè un essere capace di «porsi alle proprie spalle»[5]. Ma se l’uomo, proprio in forza di questa sua eccentricità, è sia corpo sia nel corpo, è sia oggettività sia soggettività, sia pura materia vivente sia puro spirito, in base a quale principio o struttura potrà assumere la sua giusta posizione nella natura? Se nell’uomo agisce questa sorta di opposizione tra eccentricità e vitalità, su cosa potrà mai fondarsi il suo proprio modus vivendi? Ed eccoci alla coppia natura/artificio. Per Plessner l’uomo vive una situazione di profondo contrasto e lacerazione poiché a differenza dell’animale non coincide con sé e con il proprio ambiente ma se ne distacca. Plessner dice che l’uomo per sentirsi sicuro e protetto ha bisogno di uscire dalla natura per seguire «la strada più lunga delle cose artificiali»[6].

Ma come avviene questo distacco? Ecco, qui emerge un dato particolarmente interessante. Secondo Plessner il contrasto caratteristico dell’esistenza umana (soggettività vs. oggettività, eccentricità vs. centricità) rimane decisamente all’interno della sua naturalità[7]. L’uomo descritto dall’antropologia filosofica di Plessner non è un essere anti-naturale perché la sua artificialità non è uno strumento di allontanamento dall’ambiente ma è il modo attraverso cui quest’essere vivente risponde al suo messaggio naturale di essere eccentrico, cioè è il modo attraverso cui l’uomo vive il proprio ambiente. L’uomo, dice Plessner, è naturalmente artificiale e questa viene da lui giudicata come la prima legge antropologica fondamentale[8]. L’artificio tecnico, in questa prospettiva, è il modo attraverso cui l’azione dell’uomo risponde alla sua natura e non è affatto il modo attraverso cui egli si allontana da essa: «Soltanto perché l’uomo è per metà natura e sta (cosa essenzialmente connessa con quest’ultima) oltre se stesso, l’artificialità costituisce il mezzo attraverso il quale mettersi in equilibrio con il mondo»[9]. In base a queste parole si potrebbe dire che nell’uomo l’artificio è il nome della naturalità.

 

  1. Cultura: storia di un parto naturale

Oltre all’ingenua opposizione tra natura e artificio sublimata dai devoti del “bio” ce n’è una più interessante, quella che vorrebbe la natura distinguersi dagli artefatti perché sostanzialmente inassimilabili alle sue leggi. Il dominio artificiale, tanto per intendersi, sarebbe altro rispetto a quello naturale perché riconducibile all’ingegno dell’uomo, ovvero un essere non del tutto naturale. Ma anche questo ragionamento appare contraddittorio. Ne indica le ragioni Kevin Kelly illustrando la genealogia di quel che definisce “technium”[10].

Abbiamo creato noi il technium, quindi tendiamo ad assegnarci un’influenza esclusiva su di esso. Ma siamo stati lenti nel capire che i sistemi, tutti i sistemi, generano un momento cinematico. Poiché il technium è un risultato della mente umana, è anche un risultato della vita e, per estensione, un risultato dell’autorganizzazione fisica e chimica che in origine ha consentito la vita stessa. Il technium ha in comune radici profonde non solo con la mente umana ma con la vita ancestrale e anche con altri sistemi autorganizzati[11].

L’insieme delle cose artificiali deriva da quelle naturali senza soluzione di continuità. Il che è evidente non solo se parliamo dell’uomo ma, con decenni di onorati studi etologici alle spalle, anche se parliamo degli animali. Nel caso dei primati, per esempio, innumerevoli lavori sul campo documentano con dovizia di particolari la comunicazione con la prole, l’uso di numerosi strumenti, bastoni, punte, pietre, per cogliere frutta o catturare insetti[12]. Studi analitici sulle differenti tecniche usate da gruppi di scimpanzé per aprire vari tipi di noci mostrano inoltre l’impossibilità di addurle alle variazioni geografiche per spiegarle sulla base di forme d’imitazione e di trasmissione culturale collocabili, tra l’altro, in periodi determinati di apprendimento[13]. Se si vuol evitare di citare sempre i soliti primati, per capire la naturalità della cultura si potrebbe guardare anche al canto degli uccelli. È stata infatti notata una corrispondenza tra il canto degli uccelli e il linguaggio umano: gli uccelli imparano le loro canzoni attraverso l’imitazione del canto di un tutore, un adulto della propria specie. Il dato interessante è che la mancanza di modelli da imitare non impedisce a un uccello di cantare, ma la sua canzone è meno ricca e nettamente distinguibile da quella sviluppata normalmente. Paragonato ai processi culturali umani questo apprendimento potrebbe essere visto come il trasferimento dal tutore agli uccellini che imparano la sequenza di note o lo spettro sonoro della canzone. Ma nel processo reale, molto più complesso e ancora non del tutto chiaro, gli elementi biologici, sociali e culturali si trovano inscindibilmente legati. Un team di scienziati ha mostrato solo pochi anni fa che nelle cinciallegre, all’inizio del periodo di apprendimento, in un sito cerebrale dove convergono l’informazione uditiva e una rappresentazione dell’attività canora, si manifesta un elevato livello di ricambio dei bottoni sinaptici seguito da un loro rapido accumulo, ingrossamento e stabilizzazione dopo l’ascolto della canzone del tutore. Il che suggerisce che l’apprendimento di un comportamento avviene quando l’esperienza vissuta nel processo di addestramento è capace di stabilizzare e rafforzare le sinapsi dei neuroni che controllano quel comportamento. Come dire che il cervello di quegli uccelli è biologicamente predisposto all’innesto culturale per potersi sviluppare naturalmente. Qui è infatti l’esperienza a strutturare i circuiti neuronali del cervello. Ma lo stesso è stato mostrato, come è noto, per i cuccioli di uomo. Alla nascita il cervello umano non è completo e il suo sviluppo generale richiede tutta l’infanzia. La mielinizzazione degli assoni, per esempio, avviene nella prima infanzia e continua fino alla seconda decade di vita. Il processo di proliferazione e di organizzazione delle sinapsi, inoltre, cresce rapidamente solo dopo la nascita in risposta agli stimoli sensoriali[14].

Ma gli esempi di filtri in qualche modo tecnici prodotti naturalmente dagli organismi per meglio adattarsi all’ambiente potrebbero moltiplicarsi, basti pensare alle rete del ragno, le dighe dei castori, ai termitai. La costruzione di nicchie, come nidi, buche, tane, rende l’ambiente più adatto all’organismo che le realizza e alle generazioni dei suoi discendenti, che così «ereditano dai loro antenati non solo i geni ma anche le forme di pressione selettiva naturale che sono state modificate dall’ancestrale attività di costruzione di nicchie»[15].

Vista da questa prospettiva l’idea stessa di organismi naturalmente inseriti nelle loro nicchie non corrisponde più all’idea di organismi puramente inseriti in natura. Nell’uomo, negli scimpanzé e in un numerosissime altre specie agisce sempre un filtro che funge da medium tecnogeno di allentamento della pressione selettiva.

  1. Episteme e ontologie fabbricative

Un altro livello di distinzione tra ente naturale e ente artefatto è quello relativo al grado di attività umana riscontrabile in una cosa. Keekok Lee nel suo Philosophy and Revolutions in Genetics[16] sostiene che la natura dei viventi subisce una vera e propria «svolta ontologica»[17] solo con la scoperta del DNA ricombinante e quindi con l’avvento delle biotecnologie di nuovissima generazione, collocando lo statuto artefattuale degli organismi viventi né più né meno che nella loro effettiva riduzione al livello dei manufatti. La differenza tra un animale selvatico e uno allevato sta nel fatto che del primo non si può dire che implementi un’attività umana, del secondo sì. Grazie all’ingegneria genetica, osserva la filosofa, oggi «l’immanente telos riscontrabile negli esseri viventi» viene sostituito da un «telos a essi estraneo, un telos imposto dall’uomo» e, cosa ancor più notevole, acquista una connotazione antropica non solo la «causa finale» ma anche la stessa «causa materiale» degli organismi. «La causa materiale di un organismo geneticamente modificato – rileva la Lee - può essere tratta da un’altra specie, appartenente al regno animale o anche a quello vegetale»[18]. Nonostante la denuncia di un imminente artificializzazione dell’essere, rimane anche in questa prospettiva una distinzione di principio tra ciò che è naturale e ciò che non lo è. Esisterebbe, senza l’azione dell’uomo, un materia organica inalterata legittimamente battezzabile come “naturale”. Sebbene ragionevole, si tratterebbe anche in questo caso di una svista. L’assimilazione degli enti naturali al dominio dell’artificio è questione relativa non già al solo piano ontologico degli organismi ma a quello epistemologico della loro conoscibilità. E, in questo senso, la trasformazione della vita in artificio è opera darwiniana.
Con Darwin assistiamo a una svolta nello status dei viventi. A partire dall’Origine delle specie il gioco di antinomie tra natura e artificio perde senso. Darwin inventa un tertium datur e per mezzo dell’attività naturale della selezione apre alla possibilità di introiettare nella natura il lavoro costruttivo, produttivo e interamente artificiale degli allevatori. Secondo Darwin, infatti, non può farsi valere alcuna discontinuità sostanziale tra le artificiali genealogie prodotte dagli allevatori e le naturali discendenze riscontrabili in natura: tra gli animali «artificiali» e quelli «naturali» sussiste una medesima ontologia. Un’ontologia artefattuale. Per farsene un’idea basta riflettere sul passaggio centrale della sua teoria. La selezione naturale è per Darwin una sorta di imitazione della selezione artificiale e, viceversa, quest’ultima appare a sua volta come una sorta di imitazione della selezione naturale. La prima ha lo scopo di incrementare l’adattamento degli organismi «naturali» al loro ambiente non ancora umanizzato, la seconda ha lo scopo di incrementare l’adattamento degli animali «artificiali» al loro ambiente domestico. Tra le due selezioni, come osserva Kenneth Waters, c’è una «relazione isomorfa», sussistono cioè medesimi meccanismi di variabilità, ereditabilità e irreversibilità.

Tale isomorfismo finisce per investire il cuore stesso dell’idea di natura. Se, come dice Darwin, bisogna riconoscere la selezione come la «potenza principale» della natura, ne consegue che ciò che più di ogni altra cosa contraddistingue la natura è un’attività di costruzione (Darwin, a proposito della selezione naturale, parla di «produzione» e «formazione»[19]) e non di preservazione. In Darwin la selezione è creazione e, pertanto, la natura non può che essere una natura radicalmente nuova rispetto a quella fin lì concepita dal pensiero biologico. A partire da Darwin la natura, da collezione di tipi e prototipi, diventa un laboratorio di forme sperimentali, cioè un luogo di incessante costruzione di entità di volta in volta nuove. Con Darwin la natura diventa una realtà artefatta, ovvero una realtà attraversata da una ricorsività di processi selettivi, produttivi e fabbricativi.

 


[1] Rimane utile al riguardo, per suggestioni e analisi, il lavoro di P. Hadot, Il velo di Iside. Storia dell’idea di natura, tr. it. Einaudi, Torino 2006.

[2] Cfr. P. Rossi, “Idola” della modernità, in G. Mari (a cura di), Moderno-postmoderno: soggetto, tempo, sapere nella società attuale, Feltrinelli, Milano 1987, pp. 9-53.

[3] A. Leopold, cit. in S. Bartolommei, Etica, filosofia e coscienza ecologica. Introduzione a Leopold, in «Critica Marxista», 4, 1987.

[4] H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo. Introduzione all’antropologia filosofica (1928), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 360.

[5] Ibid., p. 419.

[6] Ibid., p. 367.

[7] In questo senso Plessner si distanzia notevolmente da Gehlen, che invece considera la tecnica una sorta di acceleratore di distanze tra l’uomo e la natura. Cfr. A. Gehlen, L’uomo. La sua Natura e il suo posto nel mondo (1940), tr. it. Feltrinelli, Milano 1983.

[8] Cfr. H. Plessner, op. cit., p. 334 e sgg.

[9] Ibid., p. 344.

[10] «Il technium va oltre l’hardware e le macchine, per includere la cultura, l’arte, le istituzioni sociali e le creazioni intellettuali di ogni genere. Comprende entità intangibili come il software, le leggi, i concetti filosofici. E, cosa ancora più importante, comprende gli impulsi generativi delle nostre invenzioni che stimolano ulteriori produzioni di strumenti, ulteriori connessioni auto accrescenti», K. Kelly, Quello che vuole la tecnologia, tr. it. Codice, Torino 2011, p. 14.

[11] Ibid., p. 17.

[12]Cfr. A. Whiten, The second inheritance system of chimpanzees and humans, in «Nature», 437, 2005, pp. 52-55.

[13] Cfr. S. Kirkpatrick, After Eden: The evolution of human domination, Duke University Press, Durham 2006.

[14] R. K. Lenroot, J. N. Giedd, Brain development in children and adolescents: Insights from anatomical magnetic resonance imaging, in «Neur. Biob. Rev.», 30, 2006, pp. 718–729.

[15] K. N. Laland, J. Odling-Smee, M. W. Feldman, Niche Construction, biological evolution, and cultural change, in «Behavioral and Brain Sciences», 23, 2000, pp. 131-175.

[16] K. Lee, Philosophy and Revolution in Genetics. Deep Science and Deep Technology (2003), Palgrave Mcmillan, New York-London 2005.

[17] Cfr. ibid., pp. 16-34.

[18] Ibid., p. 21.

[19] Cfr. C. Fuschetto, Darwin teorico del postumano, Mimesis, Milano 2010, pp. 36-48.

    1. [14] M.C. Escher, cfr. la litografia Il giorno e la notte, 1938, o la xilografia Metamorfosi II, 1939.

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