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Malattia, animalità e resistenza: il “multiforme ingegno” di Franz Kafka

Autore


Viola Carofalo

Università degli Studi di Napoli - L'Orientale

Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell’Università degli Studi di Napoli – L’Orientale

Indice


  1. Ulisse come eroe della sopravvivenza
  2. Scrittura e animalità
  3. Una scrittura senza potere

 

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S&F_n. 15_2016

Abstract


Illness, Animality and Resistance: Franz Kafka’s “much turned talent”


Metamorphosis and survival are the main themes at the core of Bulgarian philosopher Elias Canetti’s thought. In the following essay we will see how these two themes dominate Franz Kafka’s works, especially if we look at the images of the animal and the ill body.


Non il mostruoso spaventa, ma la sua ovvietà.

W. Adorno, Appunti su Kafka

 

  1. Ulisse come eroe della sopravvivenza

Dieci e poi ancora altri dieci: «agli anni delle sue peregrinazioni corrispose il numero degli anni durante i quali egli esercitò su di me il suo potere»[1], tanto è durata l’influenza profonda che il personaggio di Ulisse ha avuto sul pensatore bulgaro Elias Canetti. Come egli stesso evidenzia nella prima parte della sua lunghissima autobiografia, fin da giovanissimo ha nutrito nei confronti dell’eroe omerico una dipendenza assolutamente completa. Ciò che colpisce Canetti – il tema della metamorfosi è filo conduttore della sua riflessione – non è tanto, in sé, la capacità dell’eroe di trasformarsi, quanto il minimo comun denominatore che caratterizza ogni sua trasformazione: Ulisse – che ascolta in incognito il racconto delle sue avventure presso i Feaci, si fa mendicante al cospetto dei Proci, che è “Nessuno” per Polifemo – fa di tutto per diminuirsi, la sua trasformazione va sempre nella direzione del più piccolo, del più umile, del più basso.

La metamorfosi assume in Canetti la funzione di tecnica di resistenza, di sopravvivenza al potere[2]: solo rendendosi sfuggenti, cambiando continuamente forma, si può sperare di non incappare nel meccanismo, che l’autore ben descrive nella sua opera capitale, Massa e Potere, per il quale destino degli uomini è quello di essere vittime o carnefici. A differenza di quella di Ulisse, l’“astuzia” di cui parla Canetti non è una strategia scientemente pianificata – non si tratta di resistere alla Storia o al “nemico”, non vi è una meta, una casa alla quale ritornare, tantomeno è il preludio di un’agnizione o di una rivelazione – metamorfosi, trasformazione, sono piuttosto principio stesso del vivente, costituiscono la risorsa ultima e, allo stesso tempo, la “fonte” dell’umano. Ulisse, nella lettura di Canetti, è colui che è capace di sfuggire ad una forza imponente, violenta, cieca – come quella del ciclope Polifemo – di superare lo smarrimento e la tentazione facendosi piccolo, non sfidando apertamente il potere, ma aggirandolo, rendendosi inafferrabile. Ma se ad attendere l’eroe c’è infine il riposo, il letto nuziale, inamovibile, al centro della camera da letto, la sposa, il regno, il viaggio dell’individuo in eterna trasformazione immaginato da Canetti come colui che può sopravvivere al potere – senza che questa sopravvivenza implichi la morte e la distruzione altrui – non ha una destinazione ultima. «La soddisfazione di sopravvivere (…) può diventare passione pericolosa e insaziabile»[3], poiché sopravvivere è in primo luogo, sopravvivere alla scomparsa dell’altro, la consapevolezza di ciò può trasformarsi in ogni istante in compiacimento, in desiderio di uccidere, distruggere, sopraffare pur godere della sensazione di essere rimasto in vita mentre c’è chi perisce, questo “appetito” di morte è il motore stesso del potere.

Ritroviamo la figura di Ulisse come eroe della sopravvivenza al potere, della «perizia occidentale nel sopravvivere»[4], in un breve racconto di Kafka del 1917, Il silenzio delle sirene. Kafka ribalta l’espediente utilizzato nel racconto omerico: è solo Ulisse, e non tutti gli altri membri dell’equipaggio, a riempirsi di cera le orecchie, è questo mezzo insufficiente, persino puerile[5] a procurargli la salvezza, non dal canto delle sirene – esse, significativamente, tacciono[6] e, sembra suggerire l’autore, forse non hanno nemmeno mai cantato – ma dalla boria che monta in ogni mortale che si convinca di averle sconfitte, che il loro canto sia stato inibito dalla sua audacia, dalla sfida che ha rivolto loro. È da questa pericolosa tracotanza che Ulisse si protegge “non udendo il loro silenzio” grazie alla cera, affidandosi a questo mezzuccio infantile, facendosi bambino, l’eroe omerico si sottrae ad un confronto diretto con il potere del canto delle sirene o con il loro, ancor più temibile, tacere.

Sono forse proprio l’idea della necessità della trasformazione e di un’impossibilità a relazionarsi frontalmente col potere – temi di cui la figura di Ulisse diviene simbolo – a legare strettamente il tema della diminuzione in Kafka e Canetti. Questa diminuzione protegge dal potere in due sensi: consente all’individuo di mimetizzarsi, farsi inafferrabile perché inidentificabile, ma è anche quel movimento continuo che fa sì che l’individuo non si abbandoni alla passione della sopravvivenza, al desiderio di sterminare, di divorare l’altro[7].

 

  1. Scrittura e animalità

In un breve saggio scritto in occasione del decimo anniversario della morte dello scrittore, Walter Benjamin nota come la soglia tra umanità e animalità nelle storie di Kafka sia sottile e sempre mobile «si possono leggere per un buon tratto le storie di animali di Kafka senza avvertire che non si tratta di uomini»[8], e, probabilmente, si può far valere anche l’affermazione inversa, ovvero si tratta di storie di uomini che, improvvisamente, ci si accorge essere creature ibride, bestiali, «quando si imbatte nel nome della creatura – la scimmia, il cane, la talpa –, il lettore alza gli occhi spaventato e si accorge di essere già lontanissimo dal continente dell’uomo»[9]. Come accade nei miti ancestrali, nei racconti di Kafka «l’animalità e l’umanità divengono reciprocamente permeabili. Si passa liberamente e senza ostacoli da una sfera all’altra… queste due sfere si mescolano a tal punto che ogni termine dell’una evoca immediatamente un termine correlativo nell’altra, in quanto essi sono in grado di significarsi reciprocamente»[10]. Questa rappresentazione dei due mondi come permeabili rimanda all’idea di un umano opaco e precario, privo di centro, ma costituisce anche un tentativo estremo, spesso disperato e fallimentare, di resistenza. La trasformazione dei personaggi kafkiani non è dunque semplicemente metafora di una condizione marginale, ma si fa effettiva strategia di sopravvivenza, «divenire animale significa appunto fare il movimento tracciare la linea di fuga in tutta la sua positività, varcare una soglia»[11], in questo divenire si materializza la possibilità di individuare una via d’uscita da una situazione impossibile, quello dell’uomo preso all’interno di un meccanismo di dominio che lo costituisce e, contemporaneamente, lo annienta[12]. Ciò che Kafka sembra rifiutare, nel ricorrere all’animalità, è, come vedremo, la produttività di un corpo sano e integro, il decoro del mondo degli adulti – infatti egli «non ama i bambini (…) solo perché sono presi in un divenir-grandi irreversibile; il regno animale confina invece col piccolo e con l’impercettibile»[13] – Kafka, come i suoi personaggi, vuole sfuggire al potere della famiglia borghese rifugiandosi nella sua famiglia sconosciuta[14], fatta di uomini e animali assieme, ma anche evidenziare, in questo rifiuto, l’incapacità dei perpetuatori del dominio – i padri – di non essere a loro volta schiacciati da esso, così ne La Metamorfosi «Gregorio diviene scarafaggio non soltanto per fuggire il padre, ma anche, e piuttosto, per trovare una via d’uscita là dove il padre non ha saputo trovarne»[15].

Le storie di Kafka parlano di animali che sono quasi sempre “invisibili”, non esotici o fantastici, ma disprezzati e di piccole dimensioni – il trapezista-ragno di Primo dolore, Josephine, la topolina cantante, la scimmia di Una Relazione per un’Accademia, lo scarafaggio de La Metamorfosi. Se il lettore è turbato – alza gli occhi spaventato – è perché questi piccoli animali, innocui e “domestici”, sono, proprio a causa della loro familiarità, tanto più inquietanti. Queste figure liminali e perturbanti non sono metafora della condizione umana, ma la rappresentano per quella che è: è proprio il realismo di Kafka a rendere così inquietanti i personaggi che popolano i suoi racconti, «lo spettrale rimane entro forme immanenti della vita quotidiana (…), è il diventare spettrale di questa stessa vita quotidiana, senza spettri»[16], senza figure fantastiche o incredibili. In Kafka «il più inverosimile, il più irreale appare come reale in virtù della forza suggestiva dei particolari»[17], un tratto, un tocco, un dettaglio che rendono il reale raccontato nella sua opera più vero della vita vera. Anche le trasformazioni più inconcepibili e mirabolanti – l’uomo che diventa insetto – sono percepite dal lettore con un orrore così profondo e vibrante perché gli parlano, non in maniera traslata, ma diretta, della sua stessa vita. Nelle sue parabole[18]– questa la significativa espressione utilizzata da Benjamin per definire le storie di Kafka – non vi è alcuna predica[19] sull’esistenza, né alcuna spiegazione o interpretazione ultima, la metafora (o, sarebbe più opportuno dire, il simbolo[20]) non si pone, come abbiamo visto, come semplice trasposizione o sostituzione di termini equivalenti, ma come ricerca di un passaggio, di uno spazio terzo. Come mostra Todorov nella sua disamina sulla letteratura fantastica, ed in particolare su La Metamorfosi di Kafka e Il naso di Gogol, la forza degli eventi surreali che sono posti al centro di entrambi i testi – la trasformazione in animale, la perdita del naso – è proprio la loro mancanza di un senso pienamente traducibile nel quotidiano[21]. Il fantastico, il metaforico, non sono dunque il riflesso del reale, ciò che lo mostra e lo spiega con altre parole, ma il reale stesso e, allo stesso tempo, l’espediente attraverso il quale è possibile effettuare quello slittamento e quello scarto che fa sì che esso possa essere osservato senza esserne schiacciati. Caratteristica fondamentale delle storie di Kafka «è che esse contengono proprio nel finale una possibilità di rovesciamento che ne ribalta integralmente il significato»[22], così nessuna delle possibili interpretazioni è mai riposante o definitiva. Questa “apertura” delle metafore kafkiane corrisponde all’apertura, all’instabilità delle statuto dei suoi personaggi – sospesi tra mondo umano e animale –, è in bilico su questa soglia di indecidibilità e di indistinzione che è possibile preservarsi e sfuggire ad un potere che prescrive e dice una volta per tutte, ritradurre l’interiorità senza metterla totalmente a disposizione – e a rischio.

In quest’ottica l’animale non è semplicemente lo strumento attraverso il quale Kafka racconta il potere e sperimenta, nella metamorfosi e nell’indeterminatezza, una strategia di sopravvivenza, lo scrittore non solo utilizza, ma è dalla parte dell’animale – si separa dalla famiglia umana – è esso stesso animale. In una lettera all’amico Max Brod, Kafka definisce lo scrittore capro espiatorio dell’umanità, animale sacrificale grazie al quale l’umanità può abbandonarsi al piacere senza sentirsi gravata dalla colpa, o quasi[23]. Lo scrittore è costretto a partecipare al dramma della comunità caricandolo su di sé, allontanandosi, nel deserto, dalla comunità stessa, restando

parzialmente estraneo all’umano. Il capro espiatorio porta su di sé i peccati della comunità – le sue storie – che si “incarnano” nel corpo dell’animale e con esso vanno a “morire”[24], proprio come gli incubi notturni del personaggio di Sancho Panza riscritto da Kafka[25] che, rielaborati in forma letteraria, si trasformano nelle innocue avventure cavalleresche di Don Chisciotte, scongiurando così il pericolo di sfociare in malessere o in violenza.

Nell’accostarsi all’animale Kafka decide di passare nella schiera dei vinti, di coloro che possono e debbono essere sacrificati, per poter scrivere egli deve tentare di vivere senza essere vincitore[26], sdraiarsi a terra, rinunciare alla posizione eretta consapevole della sua ambiguità: è segno di dominio, ma, contemporaneamente ci lascia scoperti. In una lettera a Felice Kafka scrive: «voglio darti invece l’interpretazione del tuo sogno, se non ti fossi sdraiata per terra in mezzo agli animali, non avresti potuto contemplare il cielo stellato e non ti saresti salvata. Forse non saresti nemmeno sopravvissuta all’angoscia della posizione eretta». «Bisogna sdraiarsi per terra fra gli animali per essere salvati», commenta Elias Canetti a proposito di questa lettera, «la posizione eretta rappresenta il potere dell’uomo sugli animali, ma proprio in questa chiara posizione di potere egli è più esposto, più visibile, più attaccabile. Giacché questo potere è anche la sua colpa, e solo se ci sdraiamo per terra tra gli animali possiamo vedere le stelle che ci salvano dall’angosciante potere dell’uomo»[27].

 

  1. Una scrittura senza potere

Stendersi a terra, tra gli animali, non significa soltanto sottrarsi/rinunciare al potere, ma anche, come abbiamo visto, assumere la posizione propria dello scrittore, quella del capro espiatorio. Questa posizione, la posizione di chi è senza potere e, al contempo di chi può guardare le stelle, rimanda ad un’altra forma ricorrente di diminuzione presente nella riflessione di Kafka, quella della malattia. In un breve saggio su questo tema la scrittrice inglese Virginia Woolf mostra come il giacente[28] (recumbent), il malato, nella dilatazione di un tempo che scorre sempre uguale e a partire da una posizione, quella orizzontale, che gli è propria e che non appartiene, se non nel sonno, nel momento dell’incoscienza, agli altri uomini, è capace di vedere, di sapere ciò che gli altri non sanno e non vedono. La posizione del malato, di colui che giace, afflitto e tormentato dal dolore, si configura così come l’opportunità di uno sguardo nuovo, più acuto e distaccato, sul mondo. Così la malattia, proprio come l’animalità, si configura come vita quasi-umana e si contrappone, in quanto tale, all’organizzazione e alla produttività a ciò che è consueto, decoroso, ben accetto. La “trasformazione” da uomo sano a uomo malato equivale, nelle sue ricadute sociali, alla metamorfosi da uomo in insetto, da essere utile a inutile e disgustoso, di cui vergognarsi: la madre e la sorella hanno nei confronti di Gregor Samsa, nota Citati, la stessa «insofferenza che si può avere per un congiunto afflitto da una malattia incurabile»[29].

Il corpo protagonista dell’opera di Kafka è un corpo malato, consumato, deperito, che sembra spingersi al limite della sopravvivenza. Laddove la malattia diviene uno dei modi del diminuirsi per tentare di sfuggire al potere – nei due sensi che abbiamo precedentemente individuato, il non essere soggiogati e schiacciati, ma anche il rifiuto di esercitare il potere sugli altri – molti dei personaggi di Kafka e, in un certo senso, Kafka stesso, esasperano ciò che di disfunzionale, di mancante, di improduttivo c’è nel loro stare al mondo. La volontarietà di questa “dismissione” delle funzione del corpo, questo autosabotaggio, trova il culmine nella figura del digiunatore – metafora e alter ego dell’autore –, protagonista del celebre, omonimo, racconto di Kafka, che rivela nella sua capacità, potenzialmente illimitata, di privarsi del cibo, la cifra della sua stessa identità e la chiave d’accesso ad una posizione privilegiata – pur essendo egli, ironicamente, per quasi tutto il corso del racconto rinchiuso in una gabbia – di osservazione dell’universo circostante. Il corpo scheletrico si presenta come figura dell’inadeguatezza e dell’estraneità vissute contemporaneamente come maledizione, ma anche come fonte di orgoglio. Il digiuno raccontato da Kafka diviene così una protesta contro il decoro, l’omologazione, i modelli della società borghese, «la sua serietà m’uccide» appunta Kafka nel suo diario ostentando tutto la sua ripugnanza per chi segue le convenzioni, «la testa nel colletto, i capelli immobili e ordinati sul cranio, i muscoli alle guancie, in tondo, tesi al loro posto»[30] fanno più orrore della fame, delle costole sporgenti, dell’ombra della morte.

«Kafka non vive il proprio corpo smagrito di anoressico come qualcosa di cui vergognarsi, fa solo finta. Lo vive come mezzo per varcare delle soglie e dei divenire»[31], sempre sospeso sul punto limite che preannuncia la morte, in questo spazio di confine, egli si sottrae all’assolutismo del reale.

Il digiunatore, come Gregorio ne La Metamorfosi, si muove restando immobile, nella trasformazione, nel farsi piccolo, impercettibile[32], si sottrae alla presa del mondo anche senza «spostarsi dalla stanza, anche restando nella gabbia», trova «una via d’uscita, e non la libertà. Una linea di fuga vivente e non un attacco»[33]. Questo corpo sempre più sottile rimanda anche all’immagine pungente dell’infanzia di Kafka[34] che si stringe nelle spalle e si fa ancora più piccolo di fronte al potere e all’imponenza paterna nell’amara consapevolezza della sua fragilità[35].

Nell’astinenza dal cibo e nella malattia Kafka cerca, paradossalmente, l’autosufficienza, di non essere inserito nell’equilibrio di una società ben bilanciata nelle richieste, nelle potenzialità e nei bisogni[36], la sua non un’autarchia basata sullo scambio interno ad una comunità, sia pure chiusa e separata, bensì la prospettiva di un isolamento e un abbandono totali – quello, appunto, del capro espiatorio. Il corpo malato non è solo uno scandalo, un’oscenità e, in quest’ottica, una forma di protesta contro la “decenza” e di dichiarazione di indipendenza, è anche ciò che fornisce allo scrittore la posizione necessaria a dire il mondo e che quindi egli deve necessariamente e volontariamente assumere. “Nel fatto che (…) mi sono lasciato deperire anche fisicamente, potrebbe esserci un’intenzione. Io volevo rimanere indipendente, non distratto dalla gioia di vivere che può provare un uomo utile e sano. (…) La sistematica distruzione di me stesso nel corso degli anni (…) è stata come la lenta rottura di un argine, un’azione intenzionale”[37], se la gioia di vivere è una distrazione che impedisce allo scrittore di consegnarsi interamente alla sua attività intellettuale, la malattia costituisce invece, per converso, l’occasione di acquisire, come per il giacente della Woolf, una seconda vista.

La malattia, il deperimento fisico, sono spesso descritti nei diari di Kafka – e negli appunti di altri scrittori la cui vita è stata scandita dai ritmi di un corpo malato, una su tutti Katherine Mansfield[38], scrittrice contemporanea di Kafka e afflitta dal suo stesso male, la tubercolosi – come ciò contro cui si deve lottare perché consumano il tempo a disposizione per la scrittura e accelerano la corsa verso al morte. «Dispero del mio corpo e del mio avvenire in questo corpo»[39] si lamenta Kafka e Max Brod, il suo più caro amico, sottolinea che «dove – nelle lettere e nei diari di Franz – parla angoscia, si tratta di un’angoscia motivata: l’angoscia di un uomo gravemente malato, che già nei suoi giovani anni sa che non può guarire, che è perduto»[40], la malattia, la fatica, il timore di non avere tempo a sufficienza costituiscono una fonte di terrore per lo scrittore praghese, la malattia non è insomma, cristianamente, un “dono”, ma una sofferenza indispensabile.

Il legame che stringe assieme malattia, destino e sopravvivenza dell’uomo consiste dunque in questa necessaria diminuzione: solo in quanto soggetto depotenziato, malato, “digiuno”, l’individuo può sfuggire ad un meccanismo di potere che lo stritola e assumere un atteggiamento non predatorio nei confronti del mondo; è solo perdendo la pienezza, la potenza del corpo integro – sano, totalmente umano – rinunciando al dominio e sottraendosi a esso, sembra suggerire Kafka, che è possibile avere accesso alla parola e alla scrittura, far sopravvivere la letteratura.

 


[1] E. Canetti, La lingua salvata (1977), tr. it. Adelphi, Milano 2008, p. 133.

[2] Esiste un lato oscuro della metamorfosi in Canetti, tema che non affronteremo qui, quello per cui essa conduce al disorientamento, alla perdita e, paradossalmente, all’irrigidimento del soggetto, cfr. R. Bonito Oliva, Sulle tracce dell’umano. Un percorso intorno a Elias Canetti, in La provincia filosofica. Saggi su Elias Canetti, a cura di E. de Conciliis, Mimesis, Milano-Udine 2008, pp. 55-56.

[3] E. Canetti, Massa e potere (1960), tr. it. Adelphi, Milano 2002, p. 277.

[4] R. Calasso, K., Adelphi, Milano 2005, p. 127.

[5] F. Kafka, Il silenzio delle sirene (1917), in Tutti i racconti, tr. it. Mondadori, Milano 2015, p. 368.

[6] Cfr. W. Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, in Angelus Novus (1955), tr. it. Einaudi, Torino 1962, p. 282.

[7] Su questo si veda, per converso, il tema del digiuno esaminato più avanti.

[8] W. Benjamin, op. cit., p. 286.

[9] Ibid.

[10] C. Lévi-Strauss, Il crudo e il cotto (1964), tr. it. Il Saggiatore, Milano 2008, p. 357.

[11] G. Deleuze, F. Guattari, Kafka: per una letteratura minore (1975), tr. it. Feltrinelli, Milano 1975, p. 23.

[12] Cfr. J. Butler, La vita psichica del potere. Teoria della soggettivazione e dell’assoggettamento (1997), tr. it. Meltemi, Roma 2005, p. 17 e sgg.

[13] G. Deleuze, F. Guattari, op. cit., p. 59, si veda anche ibid., p. 22.

[14] W. Benjamin, op. cit., pp. 294-295.

[15] G. Deleuze, F. Guattari, op. cit., p. 23.

[16] G. Lukács, Il significato attuale del realismo critico, in Scritti sul realismo, tr. it. Einaudi, Torino 1978, vol. II, p. 901.

[17] Ibid., p. 896.

[18] Cfr. W. Benjamin, op. cit.

[19] Cfr. G. Lukács, op. cit., p. 896.

[20] Cfr. R. Calasso, op. cit., p. 135.

[21] cfr. T. Todorov, La letteratura fantastica (1970), tr. it. Garzanti, Milano 2000, p. 175.

[22] G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 2005, p. 67, si veda anche W. Benjamin, op. cit., p. 288.

[23] M. Brod, F. Kafka, Un altro scrivere. Lettere 1904-1924, tr. it. Neri Pozza, Vicenza 2007,  lettera del 5 luglio 1922, p. 347.

[24] Cfr. C. Danta, “Like a Dog... like a Lamb”: Becoming Sacrificial Animal in Kafka and Coetzee, in «New Literary History», 38, 4, 2007, pp. 722-723; R. Calasso, op. cit., p. 134.

[25] F. Kafka, La verità intorno a Sancho Panza (1917), in Tutti i racconti, cit., p. 367.

[26] Cfr. E. Canetti, La provincia dell’uomo. Quaderni di appunti 1942 – 1972 (1973), tr. it. Bompiani, Milano 1986, pp. 188-189.

[27] E. Canetti, L’altro processo. Le lettere di Kafka a Felice, in La coscienza delle parole (1976), tr. it. Adelphi, Milano 2007, pp. 196-197, si veda anche Potere e sopravvivenza, ibid., p. 42.

[28] V. Woolf, Sulla malattia (1930), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 19.

[29] P. Citati, Kafka, Adelphi, Milano 2007, p. 72.

[30] F. Kafka, Confessioni e diari, tr. it. Mondadori, Milano 2013, p. 117, appunto del 1910.

[31] G. Deleuze, F. Guattari, op. cit., p. 48.

[32] Ibid., p. 59.

[33] Ibid., p. 56.

[34] Cfr. W. Benjamin, op. cit., pp. 282-283.

[35] E. Canetti, L’altro processo. Le lettere di Kafka a Felice, cit., pp. 136-137.

[36] Cfr. G. Agamben, L’uso dei corpi, Neri Pozza, Vicenza 2014, p. 253 e sgg.

[37] F. Kafka, Confessioni e diari, cit., pp. 597-598.

[38] Cfr. K. Mansfield, Diario, tr. it. Dall’Oglio, Milano 1991, pp. 221, 224, 225, 254, 285, 303, 306, 413; e Quaderno di appunti, tr. it. Milano 2012, pp. 96, 105, 158.

[39] F. Kafka, Confessioni e diari, cit., p. 119, appunto del 1910.

[40] M. Brod, Il Circolo di Praga, tr. it. E/O, Roma 1983, p. 90.

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