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La poetica morfologica di Inger Christensen come “derealizzazione” della modernità estetica

Autore


Salvatore Tedesco

Università di Palermo

Professore Ordinario di Estetica presso l’Università di Palermo

Indice


1. Freno d’emergenza
2. Morfologia come epigenesi del sistema
3. Cerbero, il melograno e il loto sacro (Geografia del labirinto)

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S&F_n. 30_2023

Abstract


Inger Christensen's Morphological Poetics as "Derealisation" of Aesthetic Modernity

The paper provides a morphological interpretation of Inger Christensen’s poetics. Through the analysis of some key concepts of her poetic and essayistic production - starting precisely from the concept of "derealization" - we intend to show the relevance of the methodological model of morphology for the understanding of the theoretical tensions of our time. To this end, a particular analysis is also dedicated to some of the author’s posthumous works and fragments, recently published in a Danish edition.

Sig mig         Dimmi

at tingene      che le cose

taler           parlano

deres eget      la loro

tydelige        chiara

sprog           lingua

 

Inger Christensen, brev i april

 

 

 

 

1. Freno d’emergenza

Diceva Walter Benjamin[1] che forse le rivoluzioni sono il modo in cui l’umanità in viaggio sul treno della storia universale, per arrestarne o invertirne il corso, per denunciare l’imminenza della catastrofe, fa ricorso al freno d’emergenza. In questo senso, la rivolta è anzitutto un “rivolgimento dello sguardo”, la rivolta è il gesto di chi improvvisamente e all’apparenza senza alcuna ragione smette di andare in una direzione e appunto si rivolge “indietro”, ripercorre in senso inverso il tratto di strada prima attraversato con una inconsapevolezza quasi da sonnambulo. Interrompendo il corso del tempo, la rivolta non aspira tanto a un futuro diverso, quanto piuttosto muove verso il presente, riconosce che ciò da cui soprattutto l’uomo è stato tenuto lontano, separato, è appunto il presente. Rivolgendosi in senso contrario, l’uomo che si rivolta restituisce al giorno la sua vera immagine di presente che getta un ponte sul tempo (Viktor von Weizsäcker)[2], stringe il passato e il futuro nell’alleanza e nell’attesa del presente.

Forse si potrebbe provare a intendere in questo modo la natura strana e potentemente “inattuale” della poetica morfologica di Inger Christensen, la poetessa triste – voce fra le maggiori della poesia europea degli ultimi decenni, purtroppo ancora non adeguatamente nota in Italia – che ha dato voce insieme, spesso negli stessi versi, alla denuncia degli spettri più angosciosi del nostro tempo, dalla minaccia ambientale a quella nucleare, sino all’estinzione della capacità di dialogo, e che però ha saputo declinare come pochi altri l’immagine di una “terra liberata”, in cui appunto – come nei versi qui in epigrafe – le cose parlano la loro chiara lingua, e la stessa lingua dell’essere umano si fa dialogo con il mondo, occhio del mondo che vuole vedere se stesso[3] giusto attingendo alla consapevolezza umana.

Concetto centrale nella produzione saggistica di Christensen, declinato poi in una serie di varianti e rifrazioni nel lavoro poetologico, è quello di derealizzazione (afrealisering)[4]. All’urgenza moderna della realizzazione di un Sé avvertito come distaccato dal mondo, contrapposto al mondo nel bisogno di distinguersi, di moltiplicare e consolidare i confini fra il sé, l’altro e la realtà, nonché anzitutto di sottomettere la realtà tramite una dolorosa pratica di auto-addestramento alla partizione del mondo che si riflette anzitutto in una pratica sociale del lavoro parcellizzato e alienato[5], Christensen oppone la de-realizzazione, cioè una “disposizione per il mondo” (disposition for verden, a sua volta concepita in antitesi all’oggettivazione del mondo presupposto di qualsiasi Weltanschauung) che parte dall’intuizione che «nel momento in cui apriamo gli occhi, il mondo è presente in tutta la sua realtà»[6].

Si tratta dunque di un contromovimento, di una sospensione della temporalità unidirezionale moderna e della sua logica dell’azione (in alternativa alla quale talvolta Christensen parla senz’altro di anti-azione), che muovendo dall’idea di una profonda unità e coerenza della biosfera e dal prospettarsi in essa di forme di vita, di consapevolezza e di autoconsapevolezza secondo una narrazione che potremmo in certo modo accostare alla Gestalt Ontology di Arne Næss[7], si traduce in una poetica che muove dalla messa in crisi della soggettività moderna, della centralità di un “io lirico” quale quello del modernismo in letteratura, per riaprire piuttosto le sorgenti di una lingua poetica come voce umana della natura. Con accenti consapevolmente prossimi al Novalis degli Inni alla notte, scrive Christensen: «Notte dopo notte, il tempo è sospeso nell’unico luogo completamente costante della nostra vita umana, che è situato esattamente dove si incontrano le profondità dei sogni e le profondità del mondo. Solo dove queste due profondità assolute si toccano, vertiginosamente calme, sorge l’Immagine. Non l’immagine onirica. Non la visione del mondo. Ma l’Immagine del mondo. Non di un mondo dentro il mondo. Ma del mondo in se stesso, nel modo di essere il mondo»[8].

In una prospettiva di questo genere, si diceva, giungono a toccarsi sin quasi a percorrere il territorio paradossale di una zona d’indistinzione la denuncia del pervertimento moderno della relazione con il mondo e la visione di uno spazio di costruzione utopico di un mondo liberato.

Se la prima si declina come denuncia dell’isolamento umano provocato dalla costruzione di un’identità artificiosa e a fianco di essa si pone come denuncia del rischio climatico – avvertito assai per tempo nei Paesi scandinavi – che si unisce alla denuncia del rischio della guerra atomica (i grandi capolavori di Christensen relativi a questo tema coprono gli anni della Guerra Fredda e vanno dal 1969 al 1981[9]), la seconda – e cioè la prospettiva utopica – si declina anzitutto come immagine paradossale del tempo, un tempo estatico o un tempo retroverso che risale dal futuro al presente, e come spazio d’indifferenza dell’esistente e di ciò che non si è realizzato ma vive ugualmente in una zona liberata, appunto, di derealizzazione. Sicché quando in una poesia del 1981 (Sådan en vinternat[10], Una notte così invernale) leggiamo versi come «sad vi som regel og huskede/ alt hvad der ikke var sket» (di solito ci sedevamo e ricordavamo/ tutto ciò che non era successo), ci troviamo appunto in quella zona di indistinzione fra il collassare dell’intero sistema dei tempi in un presente che anticipa la catastrofe, e l’azionare il freno d’emergenza di cui dice Benjamin, che fa saltare una situazione storica, una scena, un’immagine dal continuum, e ne rende possibile – persino paradossalmente presente – la liberazione.

Particolarmente in alfabet (1981)[11], uno dei capolavori assoluti di Christensen, le descrizioni distopiche del mondo dopo la catastrofe nucleare sono caratterizzate da una temporalità “invertita”, così da rappresentare come presente la visione anticipatrice del mondo abbandonato dalla vita. Così leggiamo nella poesia che inizia defolianterne findes, i defolianti esistono:

nu er himlen en hule

hvor de visnede fugle

vil rådne som nedfalden frugt

hvor de trinløse skyer

vil findele byer

 

ora il cielo è una caverna

dove gli uccelli appassiti

marciranno come frutta caduta a terra

dove le nuvole senza scosse

polverizzeranno città

 

L’anticipazione della catastrofe ne costituisce la denuncia profetica, mentre la struttura temporale che in tal modo si propone – smentendo l’immagine di una temporalità come cronologia lineare (“omogenea e vuota”, come direbbe Walter Benjamin) e sostituendola appunto con l’idea di un presente anamnestico-prolettico, in cui rimemorazione del passato e anticipazione del futuro coincidono e collassano nell’estasi immaginativa del presente – risulta per un verso funzionale alla denuncia del rischio di annientamento della vita sulla terra, ma per l’altro verso apre a una logica differente di svolgimento del tempo storico e della relazione fra gli esseri umani, i viventi e il mondo; una derealizzazione di quei rapporti distruttivi che anticipa una differente armonia e incarna una forma linguistica liberante.

Christensen definisce talvolta una simile prospettiva facendo ricorso alla formula “gentagelsens verden” (il mondo della ripetizione)[12]. D’accordo con Kierkegaard, «ripetizione e ricordo sono lo stesso movimento, tranne che in senso opposto: l’oggetto del ricordo infatti è stato, viene ripetuto all’indietro, laddove la ripetizione propriamente detta ricorda il suo oggetto in avanti. Per questo la ripetizione, qualora sia possibile, rende felici, mentre il ricordo rende infelici»[13].

In altre parole, se leggiamo l’affermazione di Kierkegaard alla luce della nostra questione della temporalità anamnestico-prolettica vi troviamo una importante conferma sia del significato dell’anticipazione della catastrofe (anticipazione dell’infelicità tramite la forma temporale), sia però del valore paradossalmente salvifico che questa forma di comprensione (estetica) della temporalità è in grado di sviluppare.

È però contenuto al fondo della stessa formulazione di Kierkegaard un momento ulteriore di articolazione della temporalità della ripetizione, che trova la sua espressione più compiuta in un passaggio del celebre frammento autobiografico benjaminiano Agesilaus Santander, che dice: «Egli vuole la felicità: il contrasto con cui l’estasi dell’unicità, della novità, del non ancora vissuto, è unita a quella beatitudine della ripetizione, del recupero, del vissuto»[14].

Ripetizione e unicità, vissuto e non vissuto, diventano in tal senso forme di svolgimento di un’unica immagine della temporalità, addentrandosi nella quale – come nella spirale della geranos che conduce nel cuore di un labirinto, direi qui anticipando quanto dovremo vedere in modo più articolato – è possibile ritrovare la strada perduta della felicità nella natura, o forse della nascita: «Lær mig at gentage/ fremtiden nu/ mens vi fødes» (Insegnami a ripetere/ il futuro ora,/ mentre nasciamo)[15].

In un senso prettamente morfologico, ricordare e ripetere sono due differenti modalità dello sguardo sulla medesima forma temporale: ricordare ciò che non è accaduto è l’anticipazione della catastrofe, la denuncia del corso del mondo che vi conduce e l’azionare il freno d’emergenza; ripetere il futuro mentre si nasce può essere la derealizzazione dell’identità, l’innalzarsi sino a quella disposizione per il mondo che dice la felicità possibile.

Il che del resto è quanto dire che la denuncia della violenza nei confronti del mondo fa tutt’uno con la cura (omsorg) per il mondo e prelude alla possibilità che l’essere umano e la lingua dell’uomo siano occhio del mondo[16].

Ci interessa considerare come l’immagine della temporalità qui messa in luce si depositi per un verso in figurazioni poetiche assolutamente peculiari, e come per altro verso essa dia luogo a una riflessione sul farsi stesso del discorso poetico che raggiunge risultati estetici e crediamo teoretici di rara densità.

Muoviamo anzitutto da questo piano relativo al “metodo” poetologico, che è oltretutto quello sul quale in modo più diretto si dimostra la presa di distanza di Christensen dal “modernismo” e l’accesso a una configurazione del discorso poetico che traduca appunto quella derealizzazione dell’io lirico della modernità. Come scrive la stessa Christensen, «c’è una cesura tra coloro che credono che noi umani, con il nostro linguaggio, siamo separati dal mondo, e coloro che sperimentano l’uso del linguaggio da parte degli esseri umani come parte del mondo, cosicché divenga evidente che ogni volta che ci esprimiamo attraverso il linguaggio, anche il mondo si esprime»[17].

Il linguaggio logico-pratico, argomenta Christensen[18], muove dal presupposto secondo il quale facendo astrazione da determinati elementi della realtà, dalla sua concretezza e variabilità empirica, sia possibile giungere a stabilire un insieme di verità sul mondo. Ciò presuppone, evidentemente, una relazione esterna fra il linguaggio umano ed il mondo che da esso verrebbe “conosciuto in modo vero”.

Tutto al contrario, la poesia secondo Christensen forse non può dire alcuna verità sul mondo, ma «può essere vera perché è vera la realtà che accompagna le parole. Questa misteriosa associazione fra linguaggio e realtà è il modo in cui si riconosce la poesia. Un mistero che potrebbe ben essere lo stato di segretezza di cui parla Novalis quando dice Das Äussere ist ein in einen Geheimniszustand aufgehobenes Innere (l’esterno è un interno che viene sollevato in uno stato di segretezza)»[19].

Il linguaggio umano e la realtà, in questo senso, riscoprono nella poesia una origine comune, mai completamente dimenticata ma ormai difficilmente attingibile. Si tratta di un orizzonte che solo una consapevole elaborazione stilistica rende ancora accessibile: «Bisogna scegliere esattamente la parola casuale che può essere resa necessaria. Rendere necessaria una parola significa collegare o fondere parole e fenomeni. Non che il caso sia abolito, perché anche dopo la sua elezione la parola rimane casuale come prima. Ma in tutto il suo essere mera coincidenza insieme al fenomeno essa s’inserisce nello stato di segretezza, in cui il mondo interno e quello esterno stanno insieme come se mai fossero stati separati»[20].

Tramite il linguaggio umano, secondo il titolo dello splendido frammento già citato, Il mondo vuole vedere se stesso [21]: «il mondo può scrivere se stesso attraverso la coscienza umana. Ciò può avvenire solo perché siamo collegati alle forme della natura, essendo una delle sue diverse forme»[22].

Altrove Christensen mostrerà come l’attività poetica, con il suo proporsi come scoperta di un senso del mondo che «è già lì e gestisce incessantemente la propria stessa trasformazione»[23], risponda a una fondamentale esigenza biologica dell’essere vivente; in questo senso la produzione poetica «non differisce in linea di principio dal modo in cui gli alberi mettono le foglie. I sistemi biologici che si autoproducono e si autoregolano sono fondamentalmente dello stesso tipo, che si chiamino alberi o esseri umani»[24].

Presupposti teorici di questo tipo – oggetto di una lunga serie di contributi analitici che vanno dagli anni Settanta alle soglie del Duemila e che mettono in dialogo con una prospettiva ecologica l’elaborazione di una riflessione fondata sulla teoria della complessità, non senza ripensare (come si è intravisto) alcuni dei fondamenti della filosofia romantica novalisiana in merito alla relazione fra linguaggio, mondo, attività della materia vivente – trovano puntuale rispondenza nell’attività poetica di Inger Christensen, per la quale l’allontanamento dalla poetica modernista e l’apertura all’ascolto di un linguaggio “della natura” comporta l’elaborazione di procedure stilistiche di elaborazione sistemica, secondo una considerazione del linguaggio poetico fondata sulla comprensione del significato biologico dei sistemi autoregolativi, così nettamente dichiarata dalla stessa Christensen, come abbiamo appena visto, nei lavori di maggior impegno teorico.

 

2. Morfologia come epigenesi del sistema

L’elaborazione di questa nuova poetica – ampiamente innestata in quella che sulla scorta di riferimenti quali Merleau-Ponty e Arne Næss potremmo definire una nuova ontologia gestaltista e declinata, come abbiamo visto nella prima parte di queste note, secondo una ben precisa riarticolazione della temporalità e secondo una concezione della “storia come catastrofe” – si sviluppa in Inger Christensen non solo con un rinvio esplicito alla teoria della complessità e ai sistemi autoregolativi, ma in senso specificamente poetologico con riferimento al fenomeno della poesia sistemica (Systemdigtning), particolarmente diffuso in Danimarca e in tutta la Scandinavia a partire dagli anni Sessanta del Novecento[25].

Di fatto Christensen adotta una grande varietà di sistemi, quasi sempre a loro volta costituiti da incroci di principi sistemici differenti, che caratterizzano e connotano in modi differenti tutte le sue opere maggiori. Rinviando ad altre analisi per una discussione dettagliata di tali sistemi[26], mi interessa qui cogliere l’occasione offerta dalla pubblicazione nel 2018 del grande volume di abbozzi postumi Verden ønsker at se sig selv. Digte, prosa, udkast[27] e dagli studi cui l’edizione di tali inediti ha dato luogo[28].

Il caso che qui ci interessa in modo specifico è quello costituito dal lungo poemetto alfabet, costruito per intero sulla base dell’interazione fra due principi ordinativi sistemici, che in certo modo “guidano” la composizione poetica, con effetti paragonabili a quelli del serialismo musicale della generazione di Darmstadt e dintorni, fenomeno artistico che pure è in altre occasioni esplicitamente chiamato in causa da Christensen, come avviene nel caso delle ricerche di Olivier Messiaen che stanno alla base del sistema di brev i april.

I due principi seriali che interagiscono nel discorso morfologico di alfabet sono quello alfabetico-verbale e quello numerico; il poema è infatti articolato in quattordici sezioni la cui prima parola inizia, secondo l’ordine, con le prime quattordici lettere dell’alfabeto danese, e dunque a, b, c, d, e, f, g, h, i, j, k, l, m, n. Ma con questo principio organizzativo linguistico-verbale interagisce, determinandone di fatto la vicenda assai complessa, un principio di tipo matematico, che regola la lunghezza di ogni sezione. Si tratta, come è noto, della serie di Fibonacci, in base alla quale ogni numero della serie stessa è uguale alla somma dei due numeri che lo precedono. In tal modo alla prima brevissima poesia di un solo verso fa seguito un crescendo di 2, 3, 5, 8 ecc. versi, sinché già “m” conta 377 versi mentre “n”, con cui il poemetto si interrompe al verso 321 della sezione, avrebbe dovuto contare secondo la serie ben 610 versi.

I due principi si propongono da un punto di vista filosofico come interazione fra ordine verbale e ordine numerico della realtà, e così letteralmente come “principi di crescita” del mondo e del linguaggio poetico, tanto più che le varie poesie muovono di volta in volta dall’articolare verbalmente l’esistenza del mondo: natura (così il celebre incipit: abrikotstræerne findes – gli albicocchi esistono), opere umane, sentimenti, sino appunto alle invenzioni umane che minacciano l’esistenza stessa del mondo (atombomben findes – la bomba atomica esiste), e sino al riferimento alla stessa formalizzazione del linguaggio umano su cui s’incardina la poesia (alfabeterne findes ­– gli alfabeti esistono)[29]. Il poemetto dato alle stampe presenta questo sistema, ulteriormente articolato con una serie di “regole” di livello inferiore, che via via determinano ulteriori implicazioni di tipo stilistico, e al tempo stesso indirizzano lo sviluppo contenutistico dell’opera.

Quel che appunto l’ampio materiale pubblicato nel 2018 consente di vedere è però il fatto che tale sistema non è affatto il mero presupposto all’opera, ma è piuttosto esso stesso attore e oggetto di uno sviluppo che – proseguendo e determinando l’interazione con il modello biologico dei sistemi autoregolativi – occorrerebbe definire epigenetico. Il sistema non è cioè un toolkit pronto per la produzione dell’organismo poetico, ma piuttosto la vicenda formale dell’organismo poetico retroagisce sul sistema, ridefinendone via via le condizioni di possibilità sino agli esiti formali che trovano espressione nell’opera pubblicata, che tuttavia si caratterizzano a loro volta per una dinamica di significazione continuamente aperta, continuamente diveniente nell’interazione fra le condizioni della forma e il discorso poetico che riapre quella forma, fra l’articolazione sonora e verbale del linguaggio e il suo controcanto silente e derealizzante costituito dalla serie numerica e dal suo rendersi immagine della forma del poema.

Alla luce delle bozze inedite adesso pubblicate, osserva T.A. Nexø, «è possibile indicare come Inger Christensen abbia sperimentato contemporaneamente la progettazione dell’insieme delle regole formali del libro, con la questione del modo in cui l’insieme delle regole dovrebbe svilupparsi lungo il percorso del libro»[30]. In modo ancor più netto, secondo lo stesso studioso «Christensen non ha ideato una serie di regole e di sistemi che ha poi “riempito” per iscritto. Al contrario è chiaro che i principi formali della composizione del libro si sono sviluppati durante il lavoro sulla raccolta, di pari passo con il lavoro sui singoli poemi e brani»[31].

Il principio numerico della serie di Fibonacci non ha nel poemetto un mero effetto “quantitativo” sulla determinazione del numero complessivo di versi di ogni sezione, agendo viceversa in profondità sulla scansione ritmica delle strofe delle varie poesie, con effetti particolarmente significativi via via che le varie sezioni diventano più lunghe; in questo modo, progressivamente le “sezioni alfabetiche” si suddividono in poesie e in strofe fra loro articolate, e ciò avviene sempre seguendo insieme un criterio verbale, caratterizzato da una crescente complessità del lessico e del discorso poetico, e un criterio numerico (e dunque appunto ritmico).

In questo senso il farsi del sistema articola insieme i grandi snodi teorici e poetici dell’opera, fra nominazione dell’esistente, minaccia all’esistenza, reincantamento poetico del mondo, in una dinamica in cui i due principi seriali dialogano in modi estremamente vari con i materiali linguistici, nonché con i due grandi motivi del ricordo e della ripetizione, dell’infelicità e della felicità.

Limitandoci qui a un unico esempio saliente (ancora in relazione alla bellissima analisi di Nexø), la sezione relativa alla lettera “g” si sviluppa sulla suggestione del termine “grænserne” (confini). Secondo la serie di Fibonacci la sezione stessa deve raggiungere un totale di 21 versi. Nella stesura definitiva Christensen adotta una scansione che suddivide i 21 versi facendo ancora ricorso alla serie, secondo un crescendo che rende bene il ritmo di amplificazione del materiale linguistico e tematico: le strofe contano dunque 1, 2, 2, 3, 3, 5, 5 versi. Di fatto in tal modo la poesia offre a partire dal concetto di ‘confine’ una potente propulsione in avanti dell’impianto rappresentativo del poema, che giunge a toccare numerosi fra i temi portanti dell’opera, sino al verso conclusivo della sezione, che dice della stessa opera di poesia, definendola giftige, hvide, forvitrende digt[32] (velenosa, bianca, disgregantesi poesia), quasi accennando dunque a un’implosione finale del sistema, come poi avverrà di fatto con la sezione “n”, che interrompe il poema e lo sviluppo seriale su immagini allucinate di una distopia post-atomica.

Nelle bozze[33] si trovano invece due tentativi fondati su una struttura spiraliforme, in cui le strofe – riannidando su se stessa, per così dire, la serie numerica – contano 5, 3, 2, 1, 2, 3, 5 versi, ed il verso singolo centrale ripete quasi come in una formula d’incantesimo quello iniziale del poema sugli albicocchi (abrikotstræerne findes, abrikotstræerne findes). Al posto dunque dell’attuale indirizzo vettoriale, al posto della mimesi di uno sviluppo impetuoso e alla fine autodistruttivo (appunto la velenosa, bianca, disgregantesi poesia), avremmo avuto una pulsione centripeta e uno sviluppo assai più intensamente figurale (al modo di certa poesia barocca o anche di certe avanguardie europee novecentesche: una scelta stilistica di fatto sostanzialmente assente nella redazione definitiva) che avrebbe fatto sì che la poesia si sviluppasse dal centro verso l’esterno, in certo modo ruotando estaticamente attorno a se stessa.

Come si vede, il pensiero morfologico all’opera nel lavoro di Christensen connette nel modo più stretto l’impianto formale e l’elaborazione dei motivi, in un modo tale per cui lo sviluppo epigenetico del sistema non si configura meramente come una metafora biologica in più a disposizione della poetessa per i propri fini, ma diventa piuttosto il luogo di scambio, la superficie di contatto, fra gli elementi autorganizzativi del sistema, l’evocazione o piuttosto ripetizione del mondo nel linguaggio e l’invenzione poetica dell’autrice, più che mai presente, se è vero che «il mondo può scrivere se stesso attraverso la coscienza umana»[34].

Insomma Christensen articola una poetica che costruisce il proprio discorso a partire dalla disposizione per il mondo della coscienza umana e che, nel momento stesso in cui riconosce l’essere umano come parte e voce della natura, non intende affatto tale naturalizzazione come una limitazione in senso deterministico della libertà dell’uomo, ma piuttosto si rivolge a indagare il senso stesso di tale disposizione, il farsi della relazione di cui l’essere umano vive e da cui è attraversato, nell’occasione del darsi del mondo e della parola che lo dice.

Una volta Inger Christensen ha espresso tutto ciò tramite un’immagine bella e inusuale, forse figlia del Coup de dés di Mallarmé e delle riflessioni di Merleau-Ponty: «Quando mi siedo e gioco con un dado che alternativamente tiro e si ferma su 1 o 2 o 3 o 4 o 5 o 6 in ordine casuale, mi diverto a immaginare la sicurezza che starebbe solo nel fatto che il dado non trovi mai riposo né sull’1 né sul 6, né sul 2 né sul 5 e né sul 3 né sul 4, ma continui incessantemente a far rotolare queste quantità opposte attorno alla loro impossibile coincidenza, nel profondo del centro del dado, in un sette irrequieto e tridimensionale»[35]. La non-esistenza del sette non si risolve in nessuno dei numeri posti sulle sei facce del dado, né in alcun modo ne rappresenta l’origine o il punto di quiete o la sostanza profonda. La coincidenza si dà in quanto impossibile, il sette rimane irrequieto e tridimensionale, e proprio la sua inquietudine che derealizza ogni esito è il tumulto formale che muove l’immaginazione di Christensen.

 

3. Cerbero, il melograno e il loto sacro (Geografia del labirinto)

C’è un breve passaggio, che quasi si direbbe attentamente nascosto e quasi smarrito nello sviluppo di una delle poesie di brev i april, Lettera in aprile, in cui davvero Christensen si rivolge a qualcuno quasi avviando una lettera[36]:

Kære forsvundne undren,

jeg må skabe min egen undren

eller være unterlagt

samme forsvinden

i sproget

som senere i døden.

Uden at forstå

Og uden at sammenligne.

 

Caro scomparso stupore,

devo creare il mio stesso stupore

o essere sottomessa

alla stessa scomparsa

nella lingua

come poi nella morte.

Senza capire

E senza comparare.

 

Il mondo si riapre allo stupore, alla comprensione e insieme alla meraviglia per la vita e per la morte, nella forma del linguaggio. La disposizione per il mondo è in ultima analisi disposizione allo stupore, accettazione della complessità del mondo, della molteplicità irriducibile della felicità e dell’infelicità, accettazione dell’intrecciarsi delle dimensioni del tempo del ricordo, della ripetizione e dell’unicità, del chiasma continuo del vissuto e del non vissuto[37].

Disporsi per il mondo in questo senso significa per Inger Christensen riconoscersi parte del labirinto, come dice uno dei lavori principali della produzione saggistica della poetessa, divenuto poi anche il titolo di una raccolta di prose[38].

Il labirinto è da vedere, dice Christensen, «come una sorta di processo di pensiero condiviso, un nastro di Möbius fra gli esseri umani e il mondo»[39]. Nel suo bellissimo libro sulla figura del labirinto, Károly Kerényi[40] descrive il percorso misterico della geranos, la “danza delle gru” secondo lo strano nome con cui questa pratica si è diffusa. Una fune conduce i danzatori all’interno dello spazio chiuso del labirinto, sino all’avvolgersi dei danzatori in figura di una spirale, raggiunto il centro della quale la marcia prosegue rivolgendosi indietro in senso inverso, sino a fuoriuscire all’aperto, designando così il percorso stesso la vicenda dell’occultamento nella morte e la matrice della vita oltre la morte.

La temporalità anamnestico-prolettica di Christensen, il suo mondo della ripetizione, è in ultima analisi configurazione di questa danza della geranos, fra immersione nella non esistenza e stupore del paese dei vivi (“levendes land”)[41] come una volta definirà Christensen l’utopia della terra liberata.

Sono molte le figure che si presentano nella prosa e nella poesia di Christensen quasi a popolare la geografia del labirinto; figure profondamente attraversate dalla duplicità che informa la dinamica stessa della geranos, a partire da quella di Cerbero, che si affaccia in alcune varianti di una delle sezioni più belle di alfabet, quella che nella redazione definitiva comincia livet, luften vi indånder findes (la vita, l’aria che respiriamo esistono)[42]. In una di queste varianti leggiamo dunque[43]:

lidenskaben findes, lidenskaben findes

drømmene liljerne drømmer i henslængte

dale, hvor af og til Kerberos hviler sig

blid som en hvalp, og lidelsen findes

lidelsens vinteroffer findes som fandtes

der til luftens leg med de faldende

snefnug en enkel principtegning enkel

blid som en hvalp, og lidelsen, lidelsens

vinteroffer findes, som fandtes der til luftens

leg med de faldende snefnug en enkel

principtegning en lethed i alt en lighed

i alt

 

la passione esiste, la passione esiste

i sogni che sognano i gigli nelle desolate

valli dove occasionalmente riposa Cerbero

gentile come un cucciolo, e la sofferenza esiste

il sacrificio invernale della sofferenza esiste come se esistesse

lì per il gioco dell’aria con i fiocchi di neve

cadente un semplice schizzo semplice

gentile come un cucciolo, e la sofferenza, la sofferenza

il sacrificio invernale esiste, come se esistesse per il gioco

dell’aria con i fiocchi di neve cadente un semplice

schizzo una leggerezza in tutto una similitudine

in tutto

 

Il richiamo dell’allitterazione (con la sua forma indecidibile fra ricordo e ripetizione) guida da lidenskab a liljerne, da luftens leg a lidelse, da lethed sino a lighed: Cerbero, il cane infernale, occasionalmente riposa gentile come un cucciolo fra la passione e la sofferenza, sicché il principio (schellinghiano, e già morfologico nella tradizione da Herder a Goethe) della somiglianza universale diviene qui anzitutto un semplice schizzo che si profila nell’aria, un’immagine della vita che è forse appunto quel comprendere e quel comparare che Christensen chiedeva al caro scomparso stupore.

E che non è altro, ancora, che l’occasionale riposo del cane infernale, talvolta gentile come un cucciolo.

In una variante successiva della stessa poesia[44], il semplice schizzo nell’aria viene paragonato a vaghe memorie personali (som månen/ i Lund, come la luna/ a Lund), cui viene accostato l’ulteriore riferimento al loto sacro (den hellige lotus) caro alle mitologie dell’Oriente asiatico; il loto che è sacro, leggiamo, som alt der er helligt er spiseligt, perché tutto ciò che è sacro è commestibile[45].

Che quel che prende forma in tal modo sia, al tempo stesso, il paesaggio della mente e il paesaggio del labirinto del mondo, viene chiarito oltre ogni dubbio nei versi che seguono, con cui l’abbozzo prosegue:

en enkel principtegning enkel som latterens

tråde gennem mørke labyrinter, enkel

som en luftspejlings kort over områder sindet

holder skjult

 

un semplice schizzo semplice come il filo

di una risata attraverso oscuri labirinti, semplice

come una mappa miraggio delle aree che la mente

tiene nascoste

 

La risata (latteren), filo d’Arianna attraverso il labirinto, non è altra cosa dal gioco dell’aria (luftens leg), che prende forma nel miraggio, letteralmente il riflesso nell’aria (luftspejling), che la mente custodisce.

In questa rifrazione infinita del linguaggio, in cui il ricordo dell’infelicità diviene ripetizione della felicità riconoscendo la parentela segreta fra l’esistenza e la non esistenza, una figura ulteriore, per noi conclusiva, attraversa la poesia di Inger Christensen. Ed è quella della melagrana (granatæble), che percorre la pagine di brev i april.

Tagliata a metà, la melagrana somiglia/ a un tipo di cervello/ diverso dal nostro (Det ligner/ en anden slags hjerne/ end vores)[46], e in questo senso incarna il miraggio di una mappa che permetta di attraversare ridendo gli oscuri labirinti del mondo e della mente.

Ma soprattutto la melagrana è il frutto di Persefone, abitante dei due mondi dei vivi e dei morti, che ne mangia parte dei chicchi, e così rimane parte dell’anno con lo sposo Ade e parte dell’anno con la madre Demetra.

Il problema filosofico – squisitamente morfologico – che pone Inger Christensen sta dunque nel debordare del carattere inesauribile della realtà in ciò che la stessa Christensen tematizza come “indifferenza fra esistenza e non-esistenza” o diremmo piuttosto nel lavoro della forma attraverso il doppio registro dell’esistenza e della non-esistenza, nella forma sistemica e nelle sue rifrazioni infinite, e dunque nel suo porsi, nel farsi del linguaggio poetico, fra necessità della manifestazione/configurazione sistemica e scarto della forma vivente. Il lavoro di Christensen nella geografia mitica del labirinto ne costituisce, forse, una delle figure più profonde, costituendo così al tempo stesso l’esito poetico esemplare di una derealizzazione del moderno che dice la forma del nostro tempo.


[1] W. Benjamin, Sul concetto di storia (1950), tr. it. Einaudi, Torino 1997, p. 101 (Materiali preparatori delle tesi, MS 1100).

[2] V. von Weizsäcker, Forma e tempo, tr. it. in Forma e percezione, Mimesis, Milano 2012, p. 42.

[3] I. Christensen, Verden ønsker at se sig selv, in Som var mit sind lidt græs der blev foralt, Gyldendal, København 2017, ed. elettronica senza indicazione di pagine.

[4] Cfr. Ead, Afrealisering, ora in Essays. Hemmelighedstilstanden/ Del af labyrinten, Gyldendal, København 2019, ed. elettronica senza indicazione di pagine.

[5] La riflessione sulla derealizzazione e quella sul lavoro stanno insieme in Christensen in una breve serie di scritti pubblicati fra 1979 e 1980 nella collana Krise & Utopi, curata insieme con Niels I. Meyer e Ole Thyssen. Gli scritti sono intitolati rispettivamente Afrealisering, Arbejde, Energi, Broderskab (Derealizzazione, Lavoro, Energia, Fraternità), con una coda diaristica-narrativa intitolata Sne (Neve, 1981). I quattro saggi apparvero con il sottotitolo Tentativo di dizionario utopico, rispettivamente sotto le rubriche “Crescita”, “Lavoro/disoccupazione”, “Energia”, “Democrazia” (Sne corrisponderà ulteriormente alla rubrica “Guerra o pace”); cfr. Afrealisering, Arbejde, Energi, Broderskab, Sne, in Ead., Essays. Hemmelighedstilstanden/ Del af labyrinten, cit. 

[6] Id., Afrealisering, cit.

[7] Cfr. ad es. A. Næss, Reflections on Gestalt Ontology, in «The Trumpeter», 21, 1, 2005, pp. 119-128; anche Ecosophy and Gestalt Ontology, in «The Trumpeter», 6, 4, 1989, pp. 134-137.

[8] I. Christensen, Verden ønsker at se sig selv, cit.

[9] Mi limito qui a far riferimento a Ead., det (1969), brev i april (1979), alfabet (1981), ora tutti in Ead., Samlede digte, Gyldendal, København 2020.

[10] Ead., Sådan en vinternat, in «Politiken», 19. december 1981. In proposito si veda I.W. Holm, Før vi forsvandt. Den profetiske stemning i „Sådan en vinternat“, in Genbesøgt. Inger Christensens efterladte papirer, a cura di D. Ringgard, J.R. Kjærgård, Aarus Universitetsforlag, Aarus 2020, pp. 43-69.

[11] I. Christensen, Alfabeto. Poesie, testo danese a fronte, tr. it. Giardini, Pisa 1987, per il seguito pp. 108-109.

[12] A proposito di questo decisivo concetto della poetica di Christensen cfr. il già cit. I.W. Holm, Før vi forsvandt. Den profetiske stemning i,Sådan en vinternat, che apre a un utile confronto con Kierkegaard, di cui si dirà qualcosa nel seguito. Dello stesso I.W. Holm si veda anche Et hvidkalket, gudsforladt lys. Inger Christensens alfabet og katastrofen, in «Ejss», 46, 1, 2016, pp. 137-156. Cfr. anche P. Lindegård, Gentagelsens verden i Inger Christensens digtning, diss. Stockholm universitet 2016; il concetto emerge in modo particolare nella raccolta del 1979 brev i april, tr. it. con testo danese a fronte Lettera in aprile, kolibris, Ferrara 2013. Ovviamente le numerose ricerche dedicate a questa raccolta sono tornate a loro volta a indagare il concetto. Si veda esemplarmente A. Hultenheim, Omsorgens poetik – en läsning af Inger Christensens Brev i april, diss. Stockholm universitet 2017; si veda ancora L. M. Rösing, Den omsorg der skal til for at gentage verden, in Genbesøgt. Inger Christensens efterladte papirer, a cura di D. Ringgard, J.R. Kjærgård, cit., pp. 106-126.

[13] S. Kierkegaard, La ripetizione (1843), tr. it. BUR Rizzoli, Milano 2018, p. 12.

[14] W. Benjamin, Agesilaus Santander, in Walter Benjamin e il suo angelo, a cura di G. Scholem, tr. it. Adelphi, Milano 1978, p. 24.

[15] I. Christensen, Lettera in aprile, cit., pp. 34-35.

[16] Per quel che riguarda la relazione fra Christensen e Merleau-Ponty, qui assolutamente evidente, cfr. S. Roberg, Besvärja världen. En ekopoetisk studie i Inger Christensens Alfabet, Ellerströms, Tallinn 2021; mi permetto inoltre, su questo punto e per una interpretazione complessiva della poetica di Christensen, di rinviare anche al mio La poesia e la forma del nostro tempo. Ontologia, Poetica, Storia, Meltemi, Milano 2023.

[17] I. Christensen, Hemmelighedstilstanden (1992), in Eadem, Essays. Hemmelighedstilstanden/ Del af labyrinten, cit.

[18] Ibid.

[19] Ibid.

[20] Ibid.

[21] Id., Verden ønsker at se sig selv, cit.

[22] Id., Hemmelighedstilstanden, cit.

[23] Id., Den naive læser (1991), in Essays. Hemmelighedstilstanden / Del af labyrinten, cit.

[24] Ibid.

[25] Christensen si richiama esplicitamente al concetto di “poesia sistemica”, elaborato da S.H. Larsen sul finire degli anni Sessanta; si veda S.H. Larsen, Systemdigtningen. Modernismens trejde fase, Munksgaard, København 1971; una interessante rilettura critica di tutta la questione in J. Wichter, Inger Christensens alfabet als ”Systemdichtung“, BoD, Norderstedt 2015.

[26] Rinvio ancora al mio La poesia e la forma del nostro tempo, cit., pp. 82-123, e alla bibliografia ivi presente.

[27] I. Christensen, Verden ønsker at se sig selv. Digte, prosa, udkast, Gyldendal, København 2018.

[28] Mi riferisco anzitutto al cit. D. Ringgard, J.R. Kjærgård (a cura di), Genbesøgt. Inger Christensens efterladte papirer; particolarmente rilevante per quel che segue T.A. Nexø, Vreden, håbet, barnet. Skjulte ansatser i udkastene til Inger Christensens alfabet, pp. 70-89.

[29] Cfr. I. Christensen, Alfabeto. Poesie, cit., pp. 16-17, 44-45, 114-115.

[30] T.A. Nexø, Vreden, håbet, barnet. Skjulte ansatser i udkastene til Inger Christensens alfabet, cit., p. 74.

[31] Ibid., p. 77.

[32] I. Christensen, Alfabeto. Poesie, cit., p. 30.

[33] Id., Verden ønsker at se sig selv. Digte, prosa, udkast, cit., pp. 179-180.

[34] Id., Hemmelighedstilstanden, cit., corsivo mio.

[35] Ead., Terningens syvtal, cit.

[36] Ead., Lettera in aprile, cit., pp. 30-31.

[37] Nella risposta a un’intervista Christensen dice: «So che devo morire e che la mia vita ha solo una direzione. Ma nell’istante in cui ho accesso alla poesia, ho accesso a un universo che va in tutte le direzioni». Svar på enquêten ”Hvorfor skriver De?”, in Ead., Verden ønsker at se sig selv. Digte, prosa, udkast, cit., p. 862.

[38] Ead., Jeg tænker, altså er jeg en del af labyrinten (1978), in Ead., Essays. Hemmelighedstilstanden/ Del af labyrinten, cit.

[39] Ibid.

[40] K. Kerényi, Labyrinth-Studien, Rhein, Zürich 1950, tr. it. Nel labirinto, Bollati Boringhieri, Torino 2016.

[41] I. Christensen, Det malede værelse, Brøndums Forlag, København 1976; tr. it.  La stanza dipinta, Scritturapura, Asti 2014, p. 35.

[42] Ead., Alfabeto. Poesie, cit., pp. 62-63.

[43] Ead., Verden ønsker at se sig selv. Digte, prosa, udkast, cit., p. 203, trad. mia.

[44] Ibid., p. 204.

[45] Nella versione definitiva i fiocchi di neve diverranno manna cadente, accostando così il riferimento biblico a quello mitologico al loto, mentre scomparirà la figura di Cerbero.

[46] Ead., Lettera in aprile, cit., pp. 24-25.

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