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La plasticità delle forme: Catherine Malabou e la configurazione plastica fra trasformazione e distruzione

Autore


Valeria Maggiore

Università di Palermo

Ricercatrice di Estetica presso l’Università di Palermo


1. La plasticità: un concetto “epigenetico”
2. Le origini del concetto di plasticità: breve storia della plasticità dall’antichità alla Goethezeit
3. La forma plastica nella riflessione naturalistica di J.W. Goethe
4. La plasticità negativa e la distruzione delle forme
5. Conclusioni

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S&F_n. 30_2023

Abstract


The Plasticity of forms: Catherine Malabou and the Plastic Configuration between Transformation and Destruction

In the volume “Avant demain. Épigenèse et rationalité” the French thinker Catherine Malabou states that every kind of form (artistic, biological, but also conceptual form) emerges through epigenesis, a term borrowed from the natural sciences. In other words, forms “become” because each of them acquires its configuration gradually and progressively through incorporations, modifications and adaptations, processes inscribed, according to the author, within the so-called paradigm of the “plasticity of forms”. If, however, any form is constructed through epigenesis, then the concept of plasticity does not escape this view either: it emerges progressively during philosophical thought, incorporating accidental events that, as we will attempt to highlight in the course of this article, contribute to its very definition. Our aim, therefore, is to grasp the conceptual path of plasticity, a term that, deriving from the Greek expression πλαστική τέχνη (plastic art), proves to be central to the aesthetic understanding of forms.

1. La plasticità: un concetto “epigenetico”

Nel volume Avant demain. Épigenèse et rationalité[1], la pensatrice francese Catherine Malabou[2] – senz’altro una delle personalità di maggior interesse nel dibattito filosofico contemporaneo – afferma che tanto le forme biologiche quanto quelle artistiche e concettuali emergono per epigenesi, termine mutuato dalle scienze naturali che indica una modalità di «sviluppo progressivo e differenziato che sta a metà strada tra determinismo genetico e impronta selettiva dell’ambiente sull’individuo»[3] e che si caratterizza per la «comparsa successiva di parti che si formano e nascono le une dalle altre»[4]. Avvalendosi di tale termine tecnico, Malabou intende prendere le distanze da altre due modalità esplicative del modo in cui, nella riflessione naturalistica settecentesca, si tentava di spiegare la generazione delle forme embrionali: la generazione spontanea e il preformazionismo[5]. La prima di tali modalità spiega l’emergenza della vita dalla materia, postulando quella che Malabou definisce come un’«origine inorganica da cui provengono miracolosamente tutte le categorie degli esseri viventi»[6]; la seconda, si fonda invece sul presupposto che la forma sia effettivamente predeterminata o preformata, in quanto la sua essenza è innata e preesistente alla sua attualizzazione poiché «espressione di un patrimonio già costituito, ammassato che non richiederebbe che di essere riversato sotto i nostri occhi»[7].

Pur riconoscendo la pregnanza e la portata storica di tali modalità di comprensione dell’origine delle forme, Malabou prende le distanze da tali modelli, condividendo invece l’ipotesi di coloro che sostengono che le forme, di qualunque genere esse siano, non emergono grazie alla «miracolosa animazione»[8] che contraddistingue la generazione spontanea, né vengono all’essere in virtù di quella «decisione divina»[9] che regge l’ipotesi preformazionista: esse divengono o si sviluppano grazie a un processo di auto-differenziazione interna. Tale divenire costituisce infatti «l’avventura della forma che impedisce ormai di confondere quest’ultima, puramente e semplicemente con la presenza. La forma si è quindi segretamente trasformata. Essa appare oggi per ciò che è, plastica»[10]. Ogni forma (sia essa artistica, biologica o concettuale) acquisisce quindi, a suo parere, la propria configurazione in maniera graduale e progressiva attraverso inglobamenti, modificazioni e adattamenti, un processo che s’inscrive secondo l’autrice all’interno del cosiddetto paradigma della plasticità delle forme.

Quest’ultimo trova una sua prima formalizzazione nella tesi di dottorato redatta da Malabou, successivamente pubblicata in lingua francese col titolo L’Avenir de Hegel: Plasticité, Temporalité, Dialectique. Come l’autrice stessa rivela nelle conclusioni della sua opera, fu l’accidentale lettura dell’Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften[11] a spingerla a interrogarsi sul concetto di “plasticità”, definito dall’autrice come il «motivo d’interpretazione formale dominante e lo strumento esegetico ed euristico più produttivo di tutti i tempi»[12]. Scrive difatti Malabou:

Tutto ha avuto inizio […] quando un giorno “imbattendomi” nel termine “plastico”, io mi sono soffermata su di esso, allo stesso tempo intrigata e riconoscente. […] Cercando di comprenderlo in maniera più precisa, ho tentato di studiare il suo funzionamento nel testo hegeliano, soffermando la mia attenzione su tutto ciò che in esso rinviava alla dinamica della ricezione e alla donazione delle forme e dunque alla soggettività stessa nel suo processo di autodeterminazione. Un “accidente” […] mi ha perciò condotto all’essenziale[13].

 

Dedicando la propria attenzione in particolare ai venticinque paragrafi che compongono l’Anthropologie hegeliana[14] e operando una lettura originale del testo, la pensatrice francese individua lo specifico dell’essere umano non in una capacità esclusivamente peculiare all’homo sapiens (l’utilizzo strumentale della mano, la capacità di camminare in posizione eretta, di piangere e ridere, ecc.), bensì in un’attitudine: quella di coniugare il cambiamento e la permanenza, «il modellamento di sé con quello della transdifferenziazione»[15] o, in altri termini, il dare e ricevere forma, rivelando il «legame segreto che esiste tra unità formale e articolazione, pienezza di una forma e possibilità della sua dislocazione»[16].

Nel riconoscere l’importanza che il termine plasticità assume per la definizione stessa dell’essere umano, Malabou è però costretta ad ammettere che quest’ultimo non è mai stato oggetto di una trattazione filosofica esaustiva: non è mai stata chiarita la complessità teorica del termine poiché, nel corso dei secoli, quest’ultimo è stato di volta in volta associato solo a una delle due componenti definitorie sopraindicate; inoltre, non si è neppure tentata una ricostruzione storica del lemma “plasticità” che, secondo Malabou, fa il suo ingresso nella lingua tedesca (e più in generale nel lessico filosofico europeo) solo nel XIX secolo. Tuttavia, come evidenzia Jacques Derridà nella sua Prefazione all’edizione inglese de L’Avenir de Hegel, tale parola sembra conservare e trattenere «l’immensa stratificazione di un archivio invisibile»[17] che nei primi paragrafi del suo saggio dottorale, Malabou tenta di ricostruire, ponendo però l’accento solo sul fatto che

il sostantivo “plasticité” e il suo equivalente tedesco, “Plastizität”, entrarono nella lingua nel XVIII secolo e si aggiunsero a due termini già in uso formati sullo stesso radicale: il sostantivo “plastica” (die Plastik) e l’aggettivo “plastico” (plastisch). Tutte e tre le parole derivano dal greco πλάσσειν (att. πλάττειν), che significa “modellare”. “Plastico”, come aggettivo, significa, da un lato, “suscettibile ai cambiamenti di forma” o malleabile – l’argilla, la creta, sono “plastiche”; dall’altro, “chi ha il potere di dare forma”, come nelle espressioni le arti plastiche o la chirurgia plastica. Questa duplicità di significazioni si ritrova nell’aggettivo tedesco plastisch. Il dizionario di Grimm lo definisce così: “körperlich [...] gestaltend oder gestaltet (ciò che prende o dà forma – o figura – ai corpi”. La plasticità (proprio come Plaztizität in tedesco) designa la natura di ciò che è “plastico”, vale a dire di ciò che è capace allo stesso tempo di ricevere e dare forma[18].

 

Ponendosi sulla scia di Derridà, Thomas Wormald sottolinea però che, se secondo l’autrice qualsiasi forma (intesa in termini artistici o concettuali) si sviluppa e costruisce per epigenesi, allora neppure il concetto di plasticità sfugge a tale visione, non nascendo in maniera improvvisa per generazione spontanea nell’età di Goethe, né presentandosi come un concetto stabile e preformato semplicemente ripreso da Hegel: esso emerge progressivamente nel corso del pensiero filosofico, incorporando eventi accidentali che, come tenteremo di mettere in luce nel corso della nostra argomentazione, contribuiscono alla sua stessa definizione[19].

Ci proponiamo pertanto lo scopo di cogliere il percorso concettuale della plasticità, termine che derivando dall’espressione greca πλαστική τέχνη (arte plastica) si rivela centrale per la comprensione estetica delle forme; esso può inoltre essere considerato la chiave per comprendere il legame indissolubile fra la forma e l’informe, fra la sostanza e l’accidente, fra la necessità e la libertà dell’essere, un concetto che non ci si può esimere di analizzare se s’intende quindi portare avanti una riflessione coerente e accurata non solo delle forme concettuali e artistiche ma anche di quelle viventi, ponendo l’accento su quel legame indissolubile fra forma e vita che si colloca al centro della terza Critica kantiana[20] e che costituisce uno degli snodi fondamentali del dibattito estetico contemporaneo.

 

2. Le origini del concetto di plasticità: breve storia della plasticità dall’antichità alla Goethezeit

Al fine di tracciare una breve storia del termine “plasticità” occorre tenere a mente, come suggerisce Malabou nell’intervista con Kate Lawless intolata The future of Plasticity, che

il termine Plastizität compare alla fine dell’Ottocento in Goethe. All’inizio era specificamente dedicato all’estetica e anche all’educazione: il bambino è plastico perché è in grado di apprendere, ecc. Ma Hegel ha operato una trasposizione di tale concetto dal regno dell’estetica a quello della metafisica per caratterizzare la soggettività e il tempo in generale. Quindi, in un certo senso, ha rubato il concetto a Goethe. E i concetti che esistevano prima di Plastizität erano die Plastik, e l’aggettivo plastisch, che si riferiva esplicitamente alla scultura. Così, Goethe ha inventato il sostantivo Plaztizität per designare la capacità di essere scolpito. E Hegel lo ha distorto per caratterizzare l’essere temporale della soggettività[21].

 

Come testimonia difatti il Deutsches Wörterbuch dei fratelli Grimm, il sostantivo Plastizität è un termine introdotto nel dibattito culturale da Johann Wolfgang Goethe per riferirsi a un ambito di studi ristretto (quello artistico)[22] e, solo in seguito, è utilizzato nella sua traduzione francese e inglese[23] per indicare il lavoro dello scultore e, in senso più ampio, l’arte di modellare[24]. Sono quindi generalmente definite arti plastiche innanzitutto «quelle arti il cui compito principale è l’elaborazione delle forme; classifichiamo fra di esse anche l’architettura, il disegno e la pittura» e, per estensione, «l’attitudine alla formazione in generale, all’azione di modellamento esercitata dalla cultura, dall’educazione»[25]. Inizialmente limitato al contesto artistico, il termine estese quindi fin da subito il suo ambito di significazioni, trovando facile applicazione anche in ambito pedagogico e umanistico, per evolvere poi ulteriormente nel tempo ed essere adoperato, a partire dagli anni Settanta del Novecento anche in campo medico per indicare quella particolare opera di scultura corporea che siamo soliti definire chirurgia plastica. Negli ultimi decenni, infine, il concetto di plasticità cerebrale è divenuto centrale nell’ambito delle neuroscienze, indicando la capacità delle nostre sinapsi di modificare la propria efficacia grazie all’effetto dell’apprendimento, dell’abitudine e delle influenze ambientali[26].

È qui in gioco la funzionalità attiva della plasticità, che ci consente di render conto del dare forma; tuttavia, Malabou mette subito in evidenzia la parzialità di tale approccio che non consente di cogliere la funzione passiva di tale concetto, quella funzione che consente di rispondere alle complementari esigenze del ricevere forma. La plasticità ha pertanto a che vedere non solo con l’arte di plasmare, ma anche con le proprietà che contraddistinguono tutti quei materiali (come ad esempio l’argilla) che si rivelano suscettibili di plasmazione; non a caso, sono state definite plastiche tutte quelle sostanze create artificialmente in laboratorio che, pur essendo caratterizzate da una certa solidità, in determinate fasi della loro produzione si rivelano abbastanza duttili da essere forgiate sfruttando l’effetto della temperatura o della pressione (polietilene, polivinilcloruro, celluloide, ecc.). Come difatti sottolinea lo storico dell’arte francese Georges Didi-Huberman,

quando noi parliamo di “arti plastiche”, supponiamo implicitamente, etimologicamente, che le arti visuali non esistano senza questa plasticità che la materia offre all’azione delle forme. “Arti plastiche”, vuol dire plasticità del materiale: ciò significa che la materia non resiste alle forme, che essa è duttile, malleabile, modellabile, curvabile a proprio piacimento. In breve, che essa si offre umilmente alla possibilità di essere aperta, messa in opera, messa in forma[27].

 

Dal punto di vista filosofico la funzione passiva della plasticità e il suo legame con gli esseri viventi è stata chiaramente messa in luce dal saggista francese Roland Barthes che nelle Mythologies pone l’accento sullo stretto legame fra quest’ultima e il carattere di apertura e modificabilità che contraddistingue gli organismi. La plasticità indica difatti l’attitudine, peculiare a ogni essere vivente, a adattarsi all’ambiente in cui è inserito mettendo in atto una trasformazione di sé tendenzialmente infinita[28]. È bene però precisare in tal sede che, sebbene l’aggettivo plastico si caratterizzi per la sua intrinseca dinamicità, esso non deve però essere considerato un sinonimo di aggettivi come elastico[29], flessibile[30] o polimorfo, poiché la plasticità è la caratteristica peculiare di un materiale che «cede alla forma resistendo alla deformazione»[31]. Come difatti scriveva Goethe nel saggio Probleme, «l’idea della metamorfosi è un dono che viene dall’alto, molto solenne, ma al tempo stesso molto pericoloso”: “essa conduce all’assenza di forma (Formlose)» perché «è simile alla vis centrifuga e si perderebbe nell’infinito se non avesse un contrappeso, voglio dire l’istinto di specificazione (Spezifikationstrieb), la tenace capacità di persistere (Beharrlichkeitsvermögen) di ciò che una volta è divenuto realtà»[32]. La plasticità è quindi, ancora in questo senso, un fenomeno contraddittorio poiché associa la modificabilità alla fissazione della forma al punto che plastificare un documento è l’operazione che ci permette di fissare una sagoma[33].

Come sottolinea Wormald, «la strana pienezza e profondità di tale concetto senza antecedente, senza precedente, senza storia, che appare quasi come una specie di galleggiante concettuale scoperto fortuitamente come arenato in Hegel» da Malabou, «corrobora un curioso presentimento sperimentato nel confrontarsi con la plasticità»[34]: l’idea che vi sia una storia di tale concetto prima di Hegel e della Goethezeit, una storia dimenticata ma sicuramente complessa, che l’autrice non delucida mai chiaramente nelle sue opere ma che, a nostro parere, costituisce il trait d’union fra la formulazione del termine nel lessico della filosofia ellenica e la sua ripresa nell’ambito dell’idealismo hegeliano[35]. Scrive difatti Wormald:

Perché l’argomentazione di Malabou sia internamente coerente, vi deve essere un’epigenesi della plasticità: deve esistere una spiegazione di come la plasticità si sviluppa, altrimenti esso rimarrebbe […] un concetto che “si annuncia nel movimento ingenuo di una nascita senza storia[36].

 

La domanda che sorge spontanea è allora la seguente: se Hegel ha “preso in prestito” tale concetto da Goethe in che termini il poeta tedesco lo ha utilizzato e da chi lo ha a sua volta ripreso?[37] Come si evince difatti chiaramente dalle parole di Malabou, in Goethe rintracciamo il primo uso del sostantivo “plasticità”, ma l’aggettivo “plastico” a esso connesso ha una lunga storia alle spalle che Maurizio Meloni, in un paragrafo intitolato Plasticity, etymology and history del saggio monografico Impressionable Biologies. From the Archaeology of Plasticity to the Sociology of Epigenetics tenta di far emergere. Egli sottolinea che già Aristotele si era avvalso di tale aggettivo in alcuni passaggi delle sue opere[38]: ad esempio, nel Libro IV della Meteorologica, il filosofo di Stagira porta avanti un’analisi delle proprietà dei materiali, scrivendo che

fra i corpi imprimibili quelli che mantengono l’impronta e sono ben plasmabili con le mani sono plastici; invece, quelli non plasmabili, come la pietra o il legno, oppure plasmabili (ma che non mantengono l’impronta) come la lana o la spugna, non sono plastici[39].

 

La metafora della plasmabilità è altresì rintracciabile in una metafora adoperata dal filosofo greco nel breve testo raccolto nei Parva Naturalia, intitolato De memoria et reminiscentia. «Ci si potrebbe chiedere», scrive Aristotele, «in che modo, allorché l’affezione sia presente e la cosa sia assente, si abbia memoria di ciò che non è presente». E subito dopo specifica:

il movimento che si genera imprime come una certa impronta di ciò che si è sentito, come chi sigilla con gli anelli. Perciò inoltre in quelli che sono in gran movimento per un’affezione o per l’età, non si genera memoria, come se il movimento e il sigillo si imponessero nell’acqua corrente. In altri, invece, l’impronta non si produce a causa del fatto che sono logorati, come i vecchi edifici, e per la durezza di ciò che accoglie l’affezione[40].

 

Tuttavia, secondo Wormald, sebbene i passaggi qui riportati testimonino la presenza dell’aggettivo “plastico” nel corpus aristotelico, il filosofo di Stagira non si fa portavoce di un investimento filosofico significativo, limitandosi a far leva soltanto sulla funzione passiva della plasticità dei materiali e utilizzando le metafore a essa legate solo come veicolo concettuale per altri fini. Una certa centralità teorica può invece essere rintracciata nell’opera del medico Galeno di Pergamo (129-201 d.C.), il quale si avvale dell’espressione dynamis diaplastiké nell’ambito di una discussione sulle teorie biologiche relative alla generazione degli esseri viventi che conduce nello scritto De naturalibus facultatis[41]. In tal sede Galeno descrive una speciale facoltà «configurativa (diaplastikén[42] della Natura, non riducibile alle qualità dei quattro tradizionali elementi naturali (fuoco, aria, acqua e terra) e che, a suo parere, è responsabile della messa in moto di una serie di processi estremamente complessi che entrano in gioco nella formazione degli esseri viventi; specifica inoltre, che tale facoltà è «anche artistica, meglio, la migliore e più alta arte, che fa ogni cosa per un qualche fine, cosicché non c’è nulla di inattivo e superfluo o tale comunque da essere meglio disposto altrimenti»[43]. Associando quindi un termine etimologicamente legato al verbo greco diaplattein con il termine dynamis (tradizionalmente tradotto come facoltà, potere o capacità), il medico greco intende quindi fornire una spiegazione della generazione e della formazione degli esseri viventi facendo appello a un potere artistico che la Natura dispiega nella costruzione degli esseri viventi[44].

Come evidenziato dallo storico della scienza Hiro Hirai, l’idea galenica di una facoltà plasmatrice fu trasmessa al mondo latino tramite la mediazione di Avicenna (980-1037) e Averroè (1126-1198); grazie all’indiscussa autorità di tali filosofi, i pensatori latini fecero propria la nozione di virtus formativa[45], che fu ampiamente ripresa in ambito rinascimentale. Ad esempio, il medico, botanico e umanista Niccolò da Lonigo, detto Leoniceno (1428-1524), con la pubblicazione del trattato De virtute formativa del 1506, fu il primo a introdurre le opere di Galeno nel contesto umanistico rinascimentale[46]; Marsilio Ficino (1433-1499) si avvalse del concetto di vis formativa per la sua interpretazione dei testi di Plotino e in particolare del concetto di anima mundi; la lettura delle opere di tali pensatori influenzarono l’idea di vis conformans o conformatrix promossa dal medico e astronomo francese Jean François Fernel (1497-1558)[47] che a sua volta fu d’ispirazione per l’elaborazione del concetto di facoltà plastica da parte dell’umanista e filosofo italiano Giulio Cesare Scaligero (1540-1609), in un gioco di continui rimandi letterari fra Italia e Francia.

Con il poliedrico filosofo e medico accademico aristotelico tedesco Jacob Schegk (1511-1587) il concetto di vis plastica giunse finalmente in Germania, influenzando l’opera di pensatori come il medico e naturalista tedesco Daniel Sennert (1572-1637) e il già citato medico inglese William Harvey (1578-1678). Infine, sottolinea Worland nella sua ricostruzione del tortuoso percorso compiuto dynamis diaplastiké di Galeno dall’età tardo-antica e medievale fino all’epoca moderna, «c’è un consenso universale nel ritenere che la nozione entrò nell’immaginario moderno in una nuova consapevole articolazione filosofica nelle opere del filosofo e teologo di Cambridge Ralph Cudworth (1617-1688)»[48], il quale si fece portavoce del concetto di Plastick Nature. «È qui», afferma Wormald, «che queste istanze “accidentali” del plastico si cristallizzano per la prima volta, formalizzandosi in qualcosa di unico e filosoficamente sostanziale»[49]. Cudworth sviluppa, infatti, tale nozione per tentare di mediare tra quelle che considera due posizioni discutibili: è ugualmente poco plausibile secondo tale autore, sostenere che «tutte le cose sono prodotte casualmente, o dal Meccanismo non guidato della materia» o che «Dio stesso [...] fa ogni cosa immediatamente e miracolosamente»[50]. Nel primo caso Dio è troppo presente nella formazione e nel funzionamento del mondo; nel secondo si cade nell’impasse dovuta al riconoscere che, se non si può totalmente escludere la presenza di Dio in Natura, secondo Cudworth non si può nemmeno affermare che Dio sia però ovunque e responsabile di tutto. Fare appello al concetto di natura plastica[51] consente al pensatore di uscire da tali paradossalità: essa è un agente formativo più che materiale e agisce come «una sorta di artista inconscio al servizio di Dio»[52], come una forza inferiore e subordinata alla divinità, la quale garantisce però che la formazione del mondo sia ancora disposta e ordinata da quest’ultima[53].

L’invenzione concettuale di Cudworth ebbe una notevole influenza sulle riflessioni estetiche proposte dal filosofo Anthony Ashley-Cooper, III conte di Shaftesbury (1671-1713) all’inizio del XVIII secolo: nel Soliloquy, or Advice to an Author[54], il filosofo inglese estese e approfondì l’idea iniziale di Cudworth, esortando ciascuno dei suoi lettori a diventare un «secondo artefice, un vero Prometeo dopo Giove», modellandosi o formandosi come «quell’artista-sovrano o natura plastica universale (universal plastic nature[55]. Come suggerisce Wormald, infatti, «attraverso la nozione di questa natura plastica, Shaftesbury reinventa sia l’individuo che la natura come artisti che si formano da soli, costantemente in un processo di trasformazione e creazione»[56].

La visione di Shaftesbury dell’individuo e della natura come artisti creativi o plastici – come geni, agenti formativi di tipo prometeico – migra poi in Germania a metà del diciottesimo secolo, catturando l’immaginazione del filosofo tedesco Johann Gottfried Herder (1744-1803), allievo di Immanuel Kant e intimo amico di Goethe. Come quindi sintetizza Wormald, «il fondamento nascosto della concezione panteistica della natura di Goethe, della Natura come forza dinamica, pervasiva, formativa e autoformante, come Plastizität, è la concezione di Shaftesbury e, implicitamente, di Cudworth della natura come plastica»[57].

 

3. La forma plastica nella riflessione naturalistica di J.W. Goethe

Come suggerisce Wormald, l’idea di plasticità «gode di una storia ricca e complessa, peregrinando attraverso secoli e continenti in una molteplicità di forme»[58], fino ad arrivare a Goethe, colui che è individuato da Malabou come il diretto predecessore hegeliano di tale concezione. Nel corpus degli scritti goethiani l’aggettivo plastisch e i suoi derivati compaiono tuttavia raramente[59], sebbene il concetto di Plastizität del vivente e della natura più in generale si riveli centrale per comprendere le linee fondamentali della concezione goethiana della natura.

Quest’ultima emerge con forza dalla lettura del breve testo scientifico intitolato Die Nature[60], considerato il manifesto della visione goethiana: la natura è caratterizzata per il poeta tedesco da un’intrinseca plasticità e dinamicità e, per tale motivo, lo studioso che intende indagarla deve rispecchiarla, deve cioè essere anch’egli plastico e seguirne i percorsi tanto nel suo dispiegarsi “totale”, quanto nella configurazione delle singole forme naturali. Il già formato, afferma infatti Goethe, viene subito ritrasformato e «noi, se vogliamo acquisire una percezione vivente della natura, dobbiamo mantenerci morbidi e plastici seguendo l’esempio ch’essa stessa ci dà»[61].

Il concetto di plasticità, qui evocato, si rivela quindi un principio sistemico chiave, valido tanto per il nostro essere nel mondo, quanto per la nostra comprensione di esso, tanto per la nostra morfologia corporea quanto per la morfologia del nostro stesso pensiero; esso ci consente di considerare il vivente nella sua unità spirituale e corporea come una struttura dinamica, allo stesso tempo preorganizzata e inedita, in grado d’integrare necessità e casualità, determinazione e accidente. Ci consente cioè, come direbbe Malabou, di coniugare «il modellamento di sé con quello della transdifferenziazione»[62].

La forma che Goethe ha difatti in mente è una forma che si modella differenziandosi da sé stessa; essa è una Bildung, una forma formans, una forma in formazione costante. Scrive difatti a tal proposito il poeta tedesco nello scritto Die Absicht eingeleitet:

Per indicare il complesso dell’esistenza di un essere reale, il tedesco si serve della parola Gestalt, forma; termine nel quale si astrae da ciò ch’è mobile, e si ritiene stabilito, concluso e fissato nei suoi caratteri, un tutto unico. Ora, se esaminiamo le forme esistenti, ma in particolar modo le organiche, ci accorgiamo che in esse non v’è mai nulla d’immobile, di fisso, di concluso, ma ogni cosa ondeggia in un continuo moto. Perciò il tedesco si serve opportunamente della parola Bildung, formazione, per indicare sia ciò che è già prodotto, sia ciò che sta producendosi. Ne segue che, in una introduzione alla morfologia, non si dovrebbe parlare di forma e, se si usa questo termine, avere in mente soltanto un’idea, un concetto, o qualcosa di fissato nell’esperienza solo per il momento. Il già formato viene subito ritrasformato; e noi, se vogliamo acquisire una percezione vivente della natura, dobbiamo mantenerci mobili e plastici seguendo l’esempio ch’essa stessa ci dà[63].

 

Il passo qui citato – sicuramente uno dei più noti nell’ambito degli scritti scientifici goethiani – consente di mettere in luce una distinzione terminologica interna al concetto di forma e indirettamente legata al termine “plasticità”. A differenza dell’italiano, il tedesco si avvale, infatti, di più vocaboli per riferirsi alla forma, lessemi che testimoniano sfumature concettuali differenti. La forma si presenta, immediatamente come Gestalt, termine che deriva dal verbo tedesco stellen, utilizzato per indicare l’atto di disporre qualcosa in un ordine rigido come, ad esempio, i libri sullo scaffale di una libreria. Come sottolinea Goethe stesso, in tale lemma «si astrae da ciò ch’è mobile, e si ritiene stabilito, concluso e fissato nei suoi caratteri, un tutto unico»[64]: la Gestalt è quindi un’unità circoscritta e bloccata nelle sue caratteriste esteriori, un “tutto” in cui le parti si strutturano in maniera rigida. Da una semplice analisi delle forme esistenti, e in particolar modo delle forme viventi, ci accorgiamo però che tale definizione non si rivela soddisfacente: essa non è sufficiente a chiarire la complessità delle strutture morfologiche che non appaiono fisse e in sé concluse ma in continua metamorfosi, passando costantemente da una conformazione formale a un’altra. Per tale motivo la lingua tedesca si serve opportunamente anche del termine Bildung (formazione) per indicare sia le conformazioni già raggiunte, sia il processo stesso con cui esse si realizzano. Come infatti afferma Federica Cislaghi, «la forma vivente non è altro che il depositarsi del caos, del continuum indistinto della vita tra confini che non sono mai definitivamente stabiliti, poiché l’esistenza particolare è un prodotto dell’infinito e illimitato fluire della vita»[65].

Il poeta tedesco cerca pertanto di elaborare una teoria che, fondata sull’osservazione empirica, gli consenta di andare oltre la molteplicità dei singoli dati esperimentali, ricercando una legge generale che spieghi la malleabilità, la plasticità e la variabilità del vivente. Tale proponimento si traduce nel tentativo d’intuire nella molteplicità delle forme naturali «il duraturo, il permanente, quella forma archetipa con cui la natura gioca»[66], ciò che Goethe definisce Urphänomen[67]. Un proposito che il poeta tedesco si pone già due mesi prima della partenza per l’Italia, come testimonia la lettera inviata alla Signora von Stein il 9 luglio 1786, in cui confida le difficoltà di venire a capo di tale problema e i moti che quest’ultimo produce nel suo animo:

sono pervaso e oppresso da mille idee. Il mondo delle piante mi turbina di nuovo dentro, non riesco a liberarmene per un minuto, ma fa bei progressi. Siccome sto leggendo i miei vecchi scritti, riaffiorano in me anche parecchie vecchie pene […]. Non si tratta né di un sogno, né di una fantasia: è la scoperta d’una forma essenziale, con cui la natura compie, direi, il suo gioco, e nel gioco produce la vita nelle sue semplici forme[68].

 

Goethe fa qui riferimento alla «libera fantasia della natura, che gioca, nei limiti assegnatile, a trovare le combinazioni più impensate, più inattese e sorprendenti: pur seguendo una regola, la natura parla un linguaggio di libertà e levità, di bellezza e di indipendenza da ogni finalità esteriore, giocando con apparente arbitrio e scarsa “serietà” […] il molteplice gioco delle forme»[69]. Nel testo Entstehen des Aufsatzes über Metamorphose der Pflanzen, leggiamo infatti:

i fenomeni della formazione e metamorfosi degli esseri organici mi avevano affascinato; immaginazione e natura sembravano qui gareggiare a chi sapesse procedere con più audacia e conseguenza. Come perciò la mia attenzione si concentrasse sempre più su questa mobilità, con quanto impegno le corressi dietro, soprattutto viaggiando, in mutate latitudini geografiche, altezze barometriche e altre condizioni diverse, ne danno un primo assaggio le notizie che ho cominciato a pubblicare sul mio viaggio in Italia; il prossimo volume spiegherà come abbia concepito in modo embrionale l’idea della metamorfosi delle piante, con quale gioia, anzi trasporto, l’abbia amorosamente inseguita a Napoli e in Sicilia, l’abbia applicata ad ogni singolo caso, e dell’accaduto abbia riferito a Herder con l’entusiasmo di chi abbia scoperto l’evangelica moneta. Tutto questo vi si leggerà per esteso[70].

 

L’idea dell’Urpflanze, di un’“impressione improvvisa” concernente la forma essenziale o Urphänomen relativo alle forme vegetali, con la quale la natura gareggia in prove di creatività, modificando, alterando, trasformando le sue componenti, lo aveva assalito per la prima volta nel suo Viaggio in Italia, per l’esattezza il 22 settembre 1786 nell’orto botanico di Padova. Nel suo diario di viaggio Goethe, infatti, scrive:

in questa varietà che mi viene incontro sempre nuova, acquista una nuova forza la congettura che tutte le forme vegetali abbiano potuto svilupparsi da un’unica pianta. Solo su questa base sarebbe possibile determinare esattamente i generi e le specie, il che, mi sembra, finora si è fatto molto arbitrariamente. A questo punto della mia filosofia botanica mi sono arenato, e non vedo ancora in che modo districarmi[71].

 

Qualche mese dopo, nel “giardino pubblico alla marina” di Palermo, il poeta trova conferma della propria “allucinazione”: il giardino si presenta ai suoi occhi come un’oasi botanica, come un meraviglioso laboratorio morfologico a cielo aperto in cui la variabilità delle forme vegetali s’impone all’osservatore[72]. Nei mesi successivi Goethe continua a riflettere sul fenomeno della molteplicità formale e la testimonianza dell’esito positivo del suo lavoro intellettuale è rintracciabile in una lettera inviata da Napoli il 17 maggio 1787 all’amico Herder:

ho da confidarti che sono prossimo a scoprire il segreto della genesi e dell’organizzazione delle piante e si tratta della cosa più semplice che si possa immaginare. Sotto questo cielo sono possibili osservazioni bellissime. Il punto fondamentale in cui si cela il germe, l’ho scoperto nel più chiaro indubitabile dei modi; tutto il rimanente lo vedo nel suo insieme e soltanto pochi punti sono da definire meglio. La pianta originaria sarà la più straordinaria creazione del mondo (die Urpflanze wird das wunderlichste Geschöpf von der Welt), e la natura stessa me la invidierà[73].

 

L’Urpflanze goethiana può quindi essere definita come il tentativo di «ricondurre ad un principio generale semplice la molteplicità delle manifestazioni particolari dello splendido giardino del mondo»[74]. Tale forma archetipa – che rende conto della trasformabilità delle forme nel loro pur riconoscersi come “affini”, “legate” da rapporti d’intrinseca relazionalità – confessa difatti Goethe è già «una specie di ideale […] poiché l’osservatore non vede mai con gli occhi il fenomeno puro, ma molto dipende dal suo stato d’animo, dalle condizioni dell’organo in quel dato momento, dalla luce, dall’aria, dalla situazione atmosferica e da mille altre circostanze»[75]. Essa non è qualcosa che possiamo cogliere con lo sguardo[76], ma un’idea regolativa, nel senso kantiano del termine[77], un principio che non possiamo empiricamente riscontrare in natura ma che ci aiuta nell’interpretare il mondo delle forme naturali e nel riconoscere nessi di somiglianza, continuità e affinità fra le forme. La forza plasmatrice della Natura, ci avverte difatti il poeta stesso nella poesia Metamorphose der Tiere, sembra «elargire l’arbitrio alle forme»[78] (Willkür zu schaffen den Formen), ma il suo è uno «sforzo vano»[79] poiché essa segue un filo conduttore nel suo operare e non può oltrepassare le barriere imposte dall’Urphänomen alla forma organica: l’impulso alla formazione non ha un potere plasmativo assoluto, ma deve sempre sottostare a un principio di economia o alla legge di bilanciamento degli organi[80] che vincola il cambiamento. I capitoli di spesa, in cui sono annoverate dettagliatamente le sue “uscite”, le sono infatti prescritti ed essa è libera solo fino a un certo punto di stabilire quanto destinare a ciascun vivente e in che modo: se in un capitolo si rivela più magnanima nell’elargire doni (se cioè una componente della forma viene trasformata o ampliata), essa dovrà nondimeno sottrarre qualcosa a un’altra componente perché «non può mai trovarsi in debito o fare bancarotta»[81], pena la distruzione della forma e il suo disfacimento nell’informe. Proprio «questo bel concetto di potenza e di limite, di arbitrio e legge, di libertà e misura»[82] è alla base del mutevole ordine delle forme della Natura e del dare e ricevere forma su cui si articola la riflessione di Malabou[83].

Il concetto di Urphänomen si fa quindi somma espressione del paradosso della plasticità perché «il fenomeno – che come tale non è nulla di originario, ma solo un aggrovigliamento fortuito dei fini della natura, una stazione di transito nel continuum della vita, destinata a durare per un attimo solo – si autoproduce come vincolo dell’economia»[84]. Se, infatti, «il circolo configurativo della Natura è limitato […] a causa della moltitudine delle parti e della molteplice modificabilità, le variazioni della forma sono possibili all’infinito»[85] e tale equilibrio è da rintracciare proprio nell’apertura e nella contemporanea chiusura alla variazione giocata. Quest’ultima, afferma risolutamente Goethe, non sono un “sogno”, né una “fantasia”, ma la traduzione simbolica di una “sensazione” di unità del mondo naturale, di un’impressione di armonia che coinvolge lo studioso tedesco nella contemplazione delle manifestazioni organiche e che si traduce in un’intuizione immaginifica.

L’Urphänomen è dunque una forma capace di dare “figura” al visibile, senza fissarlo in un’immagine statica, bensì coniugando storicità e dinamicità. Come sintetizza Malabou, essa è un «embrione della forma che esiste senza esistere, che comincia a vivere, a scrutare tutto pur nascondendosi»[86]. Si può affermare quindi che l’idea archetipa condivide con la materia organica il fatto di essere «come l’argilla o il marmo dello scultore. Produce i suoi rifiuti, i suoi scarti. Ma tali residui […] sono assolutamente necessari per la realizzazione della forma […] che appare infine, nella sua evidenza, a prezzo della loro scomparsa»[87]. Un processo di selezione che non contraddice la plasticità, bensì ne è condizione: esso è funzionale, continua la Malabou, «alla purezza e alla potenza della forma risultante»[88].

La pensatrice francese si muove pertanto sullo stesso “accidentato” territorio concettuale di Goethe nel tentativo di delineare un’ontologia della plasticità: focalizzando la sua attenzione sulla forma umana piuttosto che su quella vegetale o animale, Malabou si propone di rintracciare un modo nuovo e non ingenuo di ripensare filosoficamente il rapporto fra la mente umana, la forma del vivente e l’accidentalità dell’esistenza a partire proprio dal concetto di plasticità, perno teorico della sua intera argomentazione. «Nella filosofia, nell’arte […], nella genetica, nella neurobiologia, nell’etnologia e nella psicanalisi», scrive infatti la pensatrice, «la plasticità appare come uno schema operativo sempre più pregnante»[89].

 

4. La plasticità negativa e la distruzione delle forme

La portata filosofica di tale termine è colta con estrema chiarezza anche da Friedrich Nietzsche che in un passaggio della seconda delle sue Considerazioni inattuali definisce la plasticità come «quella forza di crescere a modo proprio su sé stessi, di trasformare e incorporare cose passate ed estranee, di sanare ferite, di sostituire parti perdute, di riplasmare in sé forme spezzate»[90] forgiando la propria identità nel confronto con qualcosa di esterno. Nel paradosso della consistenza[91] – già messo in luce da Goethe e rintracciato dalla Malabou nell’articolazione della dialettica hegeliana – può quindi essere definito “plastico” qualsiasi organismo, anche il corpo umano, che è in grado di subire un’azione di modellamento ambientale e allo stesso tempo di costituire il motore di tale azione[92].

Nell’opera intitolata Que faire de notre cerveau? la pensatrice francese ottiene un’ulteriore attestazione del modo di operare della plasticità grazie al confronto con i più recenti risultati delle neuroscienze. In tal sede, pur facendo esplicitamente riferimento ad un ambito di studio circoscritto (la plasticità del nostro encefalo), Malabou sottopone a ulteriore analisi il concetto di plasticità portando avanti un’argomentazione che può però facilmente essere estesa a qualunque ambito della trattazione biologica. L’autrice individua difatti tre livelli di articolazione della plasticità, distinti sul piano teorico ma strettamente interconnessi: il primo è rappresentato della cosiddetta plasticità di sviluppo, la capacità del nostro cervello (e in maniera estensiva dell’organismo vivente nel suo processo di sviluppo embrionale) di ricevere forma tramite il determinismo genetico e di dare forma a se stesso grazie alla creazione di sempre nuove connessioni sinaptiche; il secondo, punta l’accento sulla capacità di modulazione della plasticità poiché «è sotto l’influsso dell’esperienza strettamente individuale che l’efficacia sinaptica aumenta o diminuisce»[93]. In altri termini, non soltanto siamo in grado di creare sempre nuove connessioni sinaptiche (come il primo livello evidenzia), ma anche quelle già esistenti si riorganizzano, aumentando o diminuendo la loro portata in funzione delle sollecitazioni esterne e permettendo al cervello d’individualizzarsi ed evolvere. Infine, è possibile confrontarsi anche con una forma di plasticità post lesionale in quanto il nostro encefalo è in grado di riparare sé stesso dopo una lesione di lieve entità e persino di compensare le funzioni psichiche di un’area lievemente compromessa.

Malabou scava però ancora più in profondità nel concetto e ritiene che le accezioni del termine sin qui evidenziate riescano solo parzialmente a delucidarne la portata[94]. In tutti i casi citati ci confrontiamo difatti solo con una forma di plasticità che possiamo definire positiva poiché rende ragione del normale scorrere della vita ed è concepita «come una sorta di lavoro creativo, in senso materiale e biologico, spontaneo, che forma la nostra identità»[95] e la preserva dalle pressioni esterne. Scrive a tal proposito l’autrice:

nella maggior parte dei casi le vite seguono il loro corso come i fiumi. I cambiamenti e le metamorfosi caratteristici di tali vite, sopraggiunti come conseguenza del caso e delle difficoltà o semplicemente legati al corso naturale degli eventi, appaiono come i segni e le pieghe di una realizzazione continua, quasi logica[96].

 

La pregnanza di tale modalità di comprensione della plasticità è indubbiamente legata alla concezione identitaria del corpo[97] che si è progressivamente affermata nella cultura occidentale e che ci consente di comprendere perché «col tempo si diviene finalmente ciò che si è»[98], partecipando attivamente alla costruzione finale dell’individuo. In tale concezione il corpo non solo appartiene al soggetto, ma deve anche essere concepito come un riflesso non distorto della sua identità come testimonia il fatto che più l’individuo s’identifica con la sua apparenza corporea, più quest’ultima acquista importanza da un punto di vista sociologico e psicologico[99].

Tale concezione positiva si rivela però parziale nel tratteggiare i caratteri fondamentali dell’ontologia della plasticità perché si armonizza con la tradizionale interpretazione metafisica della sostanza. Nella maggior parte dei casi quest’ultima è difatti interpretata come il substrato che permane inalterato agli eventi accidentali della vita ed è proprio tale concezione che ci consente di spiegare perché tutti quei cambiamenti che la forma vivente subisce in termini di modificazioni corporee superficiali (come il prendere o perdere peso, l’accrescimento, ecc.) siano comprensibili e ordinari nel proprio manifestarsi. In tutti i casi sinora citati quindi la plasticità ha l’unico scopo di salvaguardare l’identità personale ed è «concepita come una sorta di opera di scultura naturale che forma la nostra identità, la quale a sua volta si modella con l’esperienza e fa di noi i soggetti di una narrazione, di una storia singolare, riconoscibile, identificabile con i suoi avvenimenti, con i suoi vuoti, con il suo futuro»[100].

Essa si rivela però fallimentare se un incidente/accidente arresta la storia dell’individuo: si apre in questo caso uno squarcio nella nostra esistenza per dare inizio a una novità esistenziale che segna un solco profondo nell’autobiografia dell’individuo[101]. «Si pensa spesso alla costruzione plastica senza un vero collegamento con una forma radicale che le è contraria», invece, «la costruzione è sempre controbilanciata, secondo Malabou, da una forma di distruzione. La creazione, l’invenzione non è mai scissa dalla sua controparte distruttiva: questa è una legge fondamentale della vita»[102]. Come evidenzia difatti la pensatrice, «nessuno pensa spontaneamente a un’arte plastica della distruzione. Tuttavia, anche quest’ultima configura. Una faccia spaccata è ancora un volto, un moncone è pur sempre una forma, una psiche traumatizzata resta una psiche»[103].

Non si può quindi trascurare l’importanza di una componente contrapposta e complementare alla plasticità positiva: una plasticità negativa che si contrappone al procedere graduale che contraddistingue la sua declinazione positiva e distrugge la forma esistente. «Quest’inclinazione esistenziale e biologica progressiva, che non fa che trasformare il soggetto in sé stesso, non dovrebbe farci dimenticare il potere della deflagrazione plastica di tale identità, potere che trova rifugio sotto la sua apparente levigatezza, come una riserva di dinamite nascosta»[104].

Il riferimento è a tutti quei casi in cui abbiamo a che fare con una plasticità dirompente ed esplosiva[105] che agisce come un vero e proprio “atto terroristico”, sconvolgendo la nostra vita e disorganizzandola[106]. Una duplicità di direzioni interne alla plasticità che Malabou sintetizza nell’incipit del saggio L’ontologie de l’accident affermando che «in conseguenza di gravi traumi, talvolta per un nonnulla, il cammino si biforca e un individuo nuovo, senza precedenti, coabita con l’antico e finisce per prenderne del tutto il posto»[107]. «Un mostro», scrive la pensatrice francese, «del quale nessuna anomalia genetica permette di spiegare l’apparizione. Un essere nuovo viene al mondo una seconda volta, nato da un solco profondo aperto nella sua biografia»[108].

Se sopraggiungono eventi accidentali che si contraddistinguono per «la violenta irruzione di qualcosa di radicalmente inatteso, qualcosa per cui il soggetto non era assolutamente pronto, qualcosa che il soggetto non può integrare in alcun modo»[109] nella propria identità sostanziale: il soggetto è costretto a cercare nuovi percorsi mettendo in atto un mutamento inevitabile e repentino che lo porta ad essere «radicalmente altro da sé stesso»[110]. Come sottolinea difatti Tessier, «nella singolare esperienza dell’accidente, la domanda “Chi sono io?” che implica il concetto d’identità personale, è improvvisamente sostituita dall’interrogativo “Chi sono diventato?” e a volte anche dalla domanda “Che cosa sono diventato?”»[111]

In casi alcuni casi (si pensi, a titolo di esempio, a gravi incidenti che sfigurano il corpo o ad alcuni tumori ossei in cui «il corpo “turbato” dalla malattia subisce una forma di mutazione»[112]), «il nostro corpo malato non è più un compagno discreto, ma una realtà che si impone insidiosamente e rifiuta di essere dimenticata»[113]: da accidentale si fa sostanziale poiché l’identità dell’individuo non può essere indifferente a essa. In altri casi invece, l’evento accidentale (rappresentato ad esempio da patologie neurodegenerative) si traduce in un’estraneità nei confronti del proprio stesso corpo. In contesti patologici di tal tipo, il corpo non può essere definito grottesco, poiché la caratteristica principale di tale categoria estetica è «la mancanza di fissità, la sua imprevedibilità e la sua instabilità»[114]: nella sindrome di Alzheimer – patologia alla quale Malabou ha dedicato la sua attenzione – il corpo non è alterato a livello della sua configurazione formale, ma permane intatto; la malattia induce però il soggetto a vivere una realtà bloccata, ferma in una fase della propria vita che non corrisponde alla sua età anagrafica. La plasticità deflagra e degenera in rigidità. Tutto ciò che quell’individuo vive e sperimenta dopo il sopraggiungere della malattia è vissuto in maniera straniata, come se accadesse a un altro, come se fosse l’oggetto di una narrazione in terza persona.

La pensatrice francese ha dedicato ampio spazio nei suoi scritti all’analisi di «tali fenomeni di plasticità distruttrice, delle identità scisse, interrotte improvvisamente, dei deserti dei malati d’Alzheimer, dell’indifferenza affettiva di alcuni cerebrolesi, dei traumi di guerra, delle vittime di catastrofi, naturali o politiche»[115], confidando che l’interesse nei confronti delle identità scisse deriva da motivazioni personali e, in particolare, dal fatto che la nonna, cui era molto legata, era affetta da una grave patologia neurodegenerativa[116].

Partendo da un’esperienza privata, Malabou si rende difatti conto che la teoria psicoanalitica di stampo freudiano non offre gli strumenti idonei a indagare le forme di soggettività post-traumatica[117] poiché parte dal presupposto che la malattia mentale e, più in generale, tutti gli eventi violenti e dolorosi che determinano la creazione di nuove identità sono in grado di alterare o distruggere la psiche di un soggetto solo se quest’ultima è afflitta da traumi psichici pregressi, assenti però in queste nuove forme d’individualità[118]. Si tratta di «strane figure che sorgono dalla lesione o dal nulla, una sorta di stallo del futuro, figure che non scaturiscono né da un conflitto infantile irrisolto, né dalla pressione di ciò che è stato rimosso, né dal subìto ritorno di un fantasma»[119] e che, non a caso, Malabou definisce nouveaux blessés per sottolineare la necessità di studiare con occhi nuovi tali peculiari manifestazioni formali della plasticità distruttrice.

Trattato ma con riferimenti poco chiari, spesso scorto nella letteratura fantastica ma mai ricondotto al reale, trascurato dalla psicanalisi, ignorato dalla filosofia, senza nome proprio nella neurologia, il fenomeno della plasticità patologica, di una plasticità che non ripara, di una plasticità senza compensazione né cicatrice, che taglia il filo di una vita in due o in più segmenti che non troveranno più riconciliazione, possiede quindi una propria fenomenologia che reclama di essere scritta[120]

 

afferma la nostra autrice. È dunque necessario tratteggiare una nuova prospettiva teorica che «permetta il riconoscimento del malato di Alzheimer non come un essere umano a cui si è inceppato qualcosa nel cervello, ma come una persona che vive una natura radicalmente nuova»[121]. Come difatti sottolinea Malabou, «la depersonalizzazione di mia nonna» è stata «operata dalla malattia di Alzheimer. Dico “operata” perché mi è sembrato che mia nonna, o almeno questa sua nuova e ultima versione, era l’opera della malattia, la sua realizzazione, la sua peculiare scultura»[122]. La malattia di cui l’anziana era sofferente, come altre patologie, non è quindi «solamente un’affezione neurodegenerativa, ma anche un attentato della psiche, poiché essa colpisce l’identità del soggetto»[123] distruggendola: chi è affetto da tale sindrome non riconosce più sé stesso, né è riconosciuto dai propri cari, ha assunto per accidente un’altra forma[124].

 

5. Conclusioni

Proprio grazie a un evento negativo di tale portata, proprio grazie al disorientamento dell’accidente che sconvolge la nostra narrazione biografica, comprendiamo dunque qual era «la sostanza stessa del percorso, il suo orientamento fondamentale»[125] che è stato messo in discussione e superato favorendo l’emergere di qualcosa di nuovo. L’accidente si rivela quindi allo stesso tempo «creazione e collasso, […] è un’opera inconscia, un’invenzione nel senso del disvelamento di ciò che era nascosto, dell’attesa di ciò che deve aver luogo»[126] e che si colloca oltre la soglia dell’accidente stesso. L’impatto che l’accidente plastico può avere sulla nostra identità scuote alle fondamenta le teorie filosofiche fondate sull’assunto che essa sia la qualità del permanere nel tempo e sull’idea che la vita di una forma (sia essa animale, vegetale, umana o concettuale), per quanto complessa e articolata, sia comunque un processo lineare, prevedibile e consequenziale in ogni sua tappa[127].

In chiusa alla presente analisi che nel suo piccolo ha tentato di mantenersi plastica, procedendo anch’essa in termini epigenetici, non possiamo esimerci dal notare che il termine greco per indicare l’accidente (συμβεβηχός), concetto centrale nel pensiero di Malabou, deriva dal verbo συμβαίνω tra i cui molteplici significati ritroviamo accordarsi, corrispondere, ma anche sopraggiungere e avvenire. Se i primi ci riportano al principio goethiano del legame plastico e indissolubile fra la natura e colui che si rapporta ad essa, gli altri due significati ci riconducono invece a un’espressione che la pensatrice francese nelle sue opere definisce come sinonimo del termine “plasticità”: voir venir[128].

Abbiamo scelto deliberatamente di mantenere tale espressione nella dizione francese poiché essa potrebbe forse essere tradotta in italiano solo per mezzo della perifrasi “visione di qualcosa che ci viene incontro”. Il voir venir indica quindi quell’“atto della visione” che “vede” ciò che deve ancora venire, intendendo quest’ultimo sia come ciò che “prevediamo” si manifesterà in futuro e che possiamo congetturare a partire da ciò che empiricamente vediamo, sia l’inaspettato e l’imprevedibile. Il voir venir indica una visione del pensiero che si apre al contingente e all’impensato: una visione epigenetica della forma.


[1] C. Malabou, Avant demain. Épigenèse et rationalité, PUF, Paris 2014; tr. it. di A.F.J. Maciel, Divenire forma. Epigenesi e razionalità, Meltemi, Milano 2020.

[2] La pensatrice francese Catherine Malabou nasce il 18 giugno 1959 a Sidi Bel Abbès in Algeria. Dopo essersi laureata nel 1979 presso l’École Normale Supérieure de Lettres et Sciences Humaines di Fontenay-aux-Roses, il 15 dicembre 1994 discute la sua tesi di dottorato su Hegel, realizzata con la supervisione di Jacques Derrida (1930-2004) e pubblicata col titolo L’Avenir de Hegel: Plasticité, Temporalité, Dialectique (Vrin, Paris 1996). Inizia la sua carriera accademica come maître de conférences all’Université Paris Ouest Nanterre – La Défense, dove tiene corsi di filosofia fino al 2011, anno in cui è nominata professore ordinario presso il Center for Modern European Philosophy (CRMEP) dell’University of Kingston, nel Regno Unito. Nel 2017 ottiene inoltre l’incarico di docente di Letteratura comparata e di Studi e lingue europee presso la University of California a Irvine. Attualmente, insegna anche all’European Gradute School di Saas-Fee, comune svizzero del cantone di Valais. Le sue opere si focalizzano sul rapporto fra filosofia, psicoanalisi e neuroscienze, aprendosi a prospettive di ordine teoretico, estetico, di filosofia della mente e ai gender studies.

[3] C. Malabou, Avant demain, cit., p. 15. Come sottolinea l’autrice, il termine deriva dall’unione del prefisso greco epi (che significa “al di sopra”) con il sostantivo genesis (che indica la “genesi” o la “costituzione” di un ente). Il termine fa la sua prima comparsa nel De generatione animalium di Aristotele, laddove leggiamo in riferimento agli animali che «tutti si definiscono prima nei loro contorni, e poi acquistano i colori, la morbidezza e la durezza, insomma come se la natura operasse come un pittore: anche i pittori infatti, dopo averlo tracciato con le linee, rivestono l’animale coi colori» (Aristotele, Riproduzione degli animali, II 6, 743b 23-25, in Id., Opere biologiche di Aristotele, a cura di D. Lanza, M. Vegetti, UTET, Torino 1971, pp. 915-916). Tuttavia, tale termine entra a far parte del lessico tecnico della biologia solo a partire dal XVII secolo, quando il medico inglese William Harvey (1578-1657) lo utilizza nel trattato Exercitationes de generatione animalium (1651) per indicare la teoria embriologica secondo la quale l’embrione si sviluppa gradatamente a partire da un germe indifferenziato; uno sviluppo che implica la comparsa successiva e progressivamente sempre più complessa di parti dell’organismo, nuove per morfologia e struttura.

[4] Ibid., p. 44. Ricordiamo che la teoria dell’epigenesi nella sua formulazione classica (che, secondo Malabou, costituisce lo sfondo indispensabile per la comprensione della posizione kantiana sul trascendentale e l’origine delle categorie) si afferma nel 1759 con la pubblicazione della Theoria generationis del fisiologo tedesco C.F. Wolff (1734-1794) e ottiene un’ulteriore conferma nell’ipotesi dell’impulso formativo (Bildungstrieb) formulata nel 1789 dal naturalista tedesco J.F. Blumenbach (1752-1840). Cfr. a tal proposito: C.F. Wolff, Theoria generationis, Georg Olms Verlag, Hildesheim 1966; J.F. Blumenbach, Über den Bildungstrieb (Nisus formativus) und seinen Einfluß auf die Generation und Reproduction, in G.C. Lichtenberg, G. Forster (eds.), Göttingisches Magazin der Wissenschaften und Litteratur, vol. 1, n. 5, 1780, pp. 247-266; tr. it. di A. De Cieri, Impulso formativo e generazione, Edizioni 10/17, Salerno 1992.

[5] Scrive Malabou per spiegare l’origine delle forme: «ci sono tre vie che corrispondono analogicamente a tre teorie biologiche della generazione: 1) la generazione equivoca (generatio aequivoca); 2) la preformazione; 3) l’epigenes» (Avant Demain, cit., p. 51). Per un’analisi più approfondita di tali teorie cfr. J. Roger, Les Sciences de la vie dans la pensée française au XVIIIe siècle. La génération des animaux, de Descartes à l’Encyclopédie, Albin Michel, Paris 1993.

[6] C. Malabou, Avant Demain, cit., p. 52. La generazione spontanea (detta anche generatio aequivoca, abiogenesi, archigonia o generatio primaria) indica quindi quella teoria, «già ampiamente sorpassata all’epoca di Kant», che «rende ragione dell’apparire della vita a partire dalla differenziazione spontanea della materia inorganica. Essa suppone una differenza di natura tra l’origine della generazione – materia inerte – e il principio generatore – iniziativa vitale» (ibid.). Nel XIX secolo i paladini di tale teoria non furono, come si potrebbe pensare, i promotori del modello vitalista bensì i meccanicisti, i quali vedevano nella possibilità di dimostrare la nascita della vita dalla materia inorganica il crollo di ogni ipotesi di un intervento di creazione divina o di una forza vitale per spiegare l’origine della vita. Tale teoria fu poi ripresa, in una veste differente, in pieno ottocento dallo zoologo tedesco Ernst Haeckel (1834-1919), il primo a introdurre i termini di autogonia e di plasmogonia per indicare rispettivamente la generazione spontanea da sostanza inorganica e organica. Oggi la generazione spontanea è generalmente considerata una possibilità teorica: nell’ambito del pensiero evoluzionista si considera quest’ultima un fenomeno che può essersi verificato in epoche remote, ma che non possiamo osservare in natura né siamo in grado di riprodurre in laboratorio.

[7] Ibid., p. 58. Secondo la teoria preformazionista, infatti, «l’embrione è pienamente costituito, un individuo in miniatura la cui crescita deve essere intesa unicamente da un punto di vista quantitativo» e «non consiste nel dispiegarsi degli organi e delle parti già formate» (ibid., p. 45).

[8] Ibid., p. 58.

[9] Ibid., p. 53.

[10] C. Malabou, La plasticité au soir de l’écriture. Dialectique, destruction, déconstruction, Léo Scheer, Paris 2004, p. 11. Il nesso fra epigenetica e plasticità è ben messo oggi in evidenza dalle scienze naturali perché, come attesta Becky Mansfield, «le scienze della vita stanno generando una visione trasformativa del corpo biologico non come fisso e innato ma come permeabile al suo ambiente e, quindi, plastico», B. Mansfield, Folded futurity: Epigenetic plasticity, temporality, and new thresholds of fetal life, in «Science as Culture», n. 26, 2017/3, p. 355 – (ove non diversamente indicato, le traduzioni di opere citate in lingua originale sono nostre). Dall’inizio degli anni ʻ90, infatti, si è posta sempre maggiore enfasi sull’idea che le sinapsi celebrali siano scolpite dalle influenze sociali e culturali anche nella vita adulta. Cfr. a tal proposito A. Clark, Embodiment and the philosophy of mind, in A O’Hear (ed.), Current Issues in Philosophy of Mind: Royal Institute of Philosophy Supplement 43, Cambridge University Press, New York pp. 35-52; D.C. Park. C.-M. Huang, Culture wires the brain. A cognitive neuroscience perspective, in «Perspectives on Psychological Science», n. 5, 2010/4, pp. 391-400; M. Overgaard, M. Jensen, Consciousness and Neural Plasticity, in «Frontiers Research Topic», 2012 (www.frontiersin.org/research-topics/77/consciousness-and-neural-plasticity); T. Rees, Plastic Reason: An Anthropology of Brain Science in Embryogenetic Terms, University of California Press, Berkeley 2016.

[11] G.W.F. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, Faksimilierter Druck der ursprünglichen Fassung, Heidelberg 1817; tr. it. di V. Cicero, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio. Testo tedesco a fronte, Bompiani, Milano 2000.

[12] C. Malabou, La plasticité au soir de l’écriture. Dialectique, destruction, déconstruction, Léo Scheer, Paris 2004, p. 107. Cfr. anche B. Bhandar, J. Goldberg-Hiller (ed. by), Plastic Materialities. Politics, Legality and Metamorphosis in the Work of Catherine Malabou, Duke University Press, Durham-London 2015; T. Giesbers, Plasticity, in R. Braidotti, M. Hlavajova (eds.), Posthuman Glossary, Bloomsbury, London-New York 2018, pp. 320-323; A. Hope, The Future is Plastic: Refiguring Malabou’s Plasticity, in «Journal for Cultural Research», n. 4, 2014, pp. 329-349; J. Martinon, On Futurity. Malabou, Nancy and Derrida, Palgrave MacMillan, New York 2007; T. Wormald, I. Dahms (eds.), Thinking Catherine Malabou: Passionate Detachments, Rowman & Littlefield International, London 2018.

[12] C. Malabou, Que faire de notre cerveau?, Bayard, Parigi 2004; tr. it. di E. Lattavo, Cosa fare del nostro cervello?, Armando, Roma 2007, p. 106.

[13] C. Malabou, L’Avenir de Hegel, cit., pp. 246-247.

[14] Cfr. G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, cit., §§ 388-412.

[15] C. Malabou, Cosa fare del nostro cervello?, cit., p. 106.

[16] C. Malabou, La plasticité au soir de l’écriture, cit., p. 14. Per una breve lettura critica del concetto di plasticità e di autocostruzione del sé nel pensiero dell’autrice rimandiamo all’articolo di H.J. Silverman, Malabou, Plasticity and the Sculpturing of the Self, in «Concentric: Literary and Cultural Studies», 2010, pp. 89-102, consultabile on-line alla pagina web: http://www.concentric-literature.url.tw/issues/M/5.pdf.

[17] J. Derridà, Preface, in C. Malabou, The Future of Hegel. Plasticity, Temporality and Dialectic, eng. transl. by L. During, Routledge, New York 2005, p. xvi.

[18] C. Malabou, L’Avenir de Hegel, cit., p. 20.

[19] Cfr. T. Wormald, On plasticity’s own conceptual epigenesis: Malabou on the origin and history of plasticity, in «Cosmos and History: The Journal of Natural and Social Philosophy», vol. 16, n. 1, 2020, p. 103 in cui l’autore afferma: «che dire […] del divenire-sostantivo della plasticità; che dire della storia dei suoi accidenti? Se la sostanza è la storia, l’espressione singolare, dei suoi accidenti – il divenire essenziale o sostanziale dell’accidente – allora che dire della storia del divenire-sostantivo epigenetico della plasticità?». E ancora: «misurato rispetto agli indici del pensiero di Malabou, quindi, la spiegazione esistente della stessa generazione della plasticità non soddisfa lo standard epigenetico richiesto stipulato da una genuina forma biologica e filosofica. Se la plasticità raggiungesse la sua forma sostanziale in Hegel, non dovrebbe esistere un resoconto del divenire concettuale della plasticità, della sua epigenesi?», ibid., p. 112.

[20] I. Kant, Kritik der Urtheilskraft, 1790; tr. it. di E. Garroni, H. Hohenegger, Critica della facoltà di giudizio, Einaudi, Torino 1999.

[21] C. Malabou, K. Lawless, The future of plasticity, in «Chiasma: a Site for Thought», n. 3, 2016/1, pp. 103-104.

[22] Cfr. a tal proposito le voci Plastik, Plastiker e plastisch del Deutsches Wörterbuch von Jacob und Wilhelm Grimm, 16 Bde. in 32 Teilbänden, Leipzig 1854-1961.

[23] C. Malabou, Ouverture : Le Vœu de plasticité, in Ead., Plasticité (éd. par), Léo Scheer, Paris 2000, pp. 5-25.

[24] C. Malabou, L’Avenir de Hegel, cit., p. 21. L’Estetica, in effetti, si è interessata alla plastica perlopiù in riferimento alla capacità attiva di modellare la materia, fulcro di un testo cardine della riflessione settecentesca, la Plastik di J.G. Herder (tr. it. di D. Di Maio, S. Tedesco, Plastica, Aesthetica Edizioni, Palermo 2010).

[25] Ibid., p. 21.

[26] Cfr. C. Malabou, Souffrance cérébrale, souffrance psychique et plasticité, «Études», 4, 2011, pp. 487-498.

[27] G. Didi-Huberman, La Matière Inquiète. (Plasticité, Viscosité, Étrangeté), in «Lignes», n.1, 2000, p. 210.

[28] R. Barthes, Mythologies, Éditions du Seuil, Paris 1957, p. 160. «Come il suo nome comune indica», afferma Barthes, essa è «l’ubiquità resa visibile; è […] traccia del movimento. […] È, insomma, uno spettacolo da decifrare: lo spettacolo dei suoi risultati». È in tale accezione aggettivale che il termine è utilizzato in ambito biologico: Darwin, ad esempio, si avvale di esso nelle prime pagine dell’Origin of Species dove afferma di avere l’impressione «che l’intero organismo sia divenuto plastico e tenda a differenziarsi in piccola misura da quello del tipo originario» (C. Darwin, L’origine delle Specie per selezione naturale o preservazione delle razze privilegiate nella lotta per la vita, Newton Compton Editori, Roma 2006, p. 48). Si veda inoltre il capitolo On Aesthetic plasticity, in T. Sparrow, Plastic Bodies: Rebuilding Sensation After Phenomenology, Open Humanities Press, London 2015, p. 177 ss. in cui l’autore afferma che si può applicare anche alla morfologia corporea il nucleo concettuale del pensiero sulla plasticità, adoperato dalla Malabou in riferimento alla capacità plasmativa del cervello umano (cfr. a tal proposito il saggio C. Malabou, Cosa fare del nostro cervello?, cit. e l’intervista all’autrice realizzata da D. Ferrante, M. Piasentier, Plasticità, tra filosofia continentale e neuroscienze. Un’intervista a Catherine Malabou, «Micromega. Il rasoio di Occam. filosofia/filosofie», consultabile on-line alla pagina web: www.ilrasoiodioccam-micromega.blogautore. È l’autrice stessa a spingerci su tale strada nel breve scritto, recentemente pubblicato, C. Malabou, Whither Materialismus Althusser/Darwin, in B. Bhandar, J. Goldberg-Hiller (eds.), Plastic Materialities, cit., p. 49 laddove afferma che un’attenta lettura dell’Origin of Species ci rivela che il concetto di plasticità rappresenta uno dei motivi centrali del pensiero darwiniano. La lettura “biologica” del concetto di plasticità costituisce, inoltre, il baricentro del saggio di R. Mawani, Insects, war, plastic life, in ibid., pp. 159-188.

[29] Da un punto di vista fisico, l’elasticità indica la proprietà che contraddistingue i materiali reversibili, vale a dire i materiali che sono in grado, dopo aver subito una deformazione, di ritornare alla forma iniziale del sistema. I materiali che definiamo plastici non hanno però una tale forma di “memoria”: pur possedendo una continuità ontologica (costanza) e resistendo al polimorfismo infinito non sono tuttavia in grado di mantenersi inalterati nella deformazione.

[30] Come sottolinea Malabou, la flessibilità indica la capacità di piegarsi alle esigenze esterne, di «prendere una piega, non darla», C. Malabou, Cosa fare del nostro cervello?, cit., p. 21. Pur essendo quindi strettamente connesso all’idea di plasticità, tale concetto fa però leva solo su una delle significazioni del termine messe in evidenza dall’autrice, quella riguardante la ricezione della forma, C. Malabou, La plasticité au soir de l’écriture, cit., p. 56.

[31] Ibid., p. 27.

[32] J.W. Goethe, La Natura, in Id., La metamorfosi delle piante e altri scritti sulla scienza della natura, a cura di S. Zecchi, Ugo Guanda Editore, Parma 2008, p. 144.

[33] Cfr. E. Combet, Du concept de la plasticité a la plasticité du concept, «Plastir», 14, 2009, pp. 206-223.

[34] T. Wormald, On plasticity’s own conceptual epigenesis, cit., p. 112.

[35] Cfr. quanto affermato in Maurizio Meloni nel saggio Impressionable Biologies. From the Archaeology of Plasticity to the Sociology of Epigenetics, Routledge, New York 2019, p. 26: «tuttavia, la lettura di Malabou riflette una visione idealizzata della plasticità che rimane insoddisfacente dal punto di vista genealogico. Oscura l’incorporamento dell’opera di Aristotele in una serie di metafore […] da cui la plasticità emerge in termini sublimati».

[36] T. Wormald, On plasticity’s own conceptual epigenesis, cit., p. 112.

[37] Cfr. Ibid., p. 108.

[38] Ibid., p. 6 ss.

[39] Aristotele, Meteorologica. Testo greco a fronte, tr. it. di L. Pepe, Bompiani, Milano 2003, p. 197, cap. IX, 386a 26-29.

[40] Id., La memoria e il richiamo alla memoria, in Id., L’anima e il corpo. Parva naturalia, tr. it. di A.L. Carbone, Bompiani, Milano 2003, p. 135, 450a-450b.

[41] Galeno, Sulle facoltà naturali, in Id, Opere scelte di Galeno, a cura di I. Garofalo, M. Vegetti, UTET, Torino 1978, pp. 833-997. Cfr. anche H. Hirai, Medical Humanism and Natural Philosophy: Renaissance Debates on Matter, Life and the Soul, Brill, Boston 2011, p. 19; W.B. Hunter, The Seventeenth Century Doctrine of Plastic Nature, in «The Harvard Theological Review», n. 43, 1950/3, pp. 197-213; D. Stanciu, The Sleeping Musician: Aristotle’s Vegetative Soul and Ralph Cudworth’s Plastic Nature, in M. Horstmanshoff, H. King, C. Zittel, Blood, Sweat and Tears: The Changing Concepts of Physiology from Antiquity to the Present, Brill, Leiden 2012, pp. 713-751.

[42] Ibid., p. 854.

[43] Ibid.

[44] Wormald sottolinea che nello specifico, Galeno invoca questo principio per promuovere un’argomentazione contraria alla teoria embriologica di Aristotele: secondo il filosofo di Stagira, infatti, quella maschile rappresenta la forza attiva o “forma” che plasma la “materia” femminile e passiva. Contro tale posizione, Galeno propone che sia il maschio che la femmina contribuiscano con un principio formale alla generazione, dando così entrambi forma alla prole. Galeno conia, pertanto, l’espressione dynamis diaplastiké per indicare un potere o capacità (dynamis) che “ha luogo tra” (dia-plastike) l’entità maschile e quella femminile, una capacità plastica che ricorda molto il dare e ricevere forma su cui Malabou articola le sue riflessioni, cfr. T. Wormald, On plasticity’s own conceptual epigenesis, cit., p. 115. Cfr. anche J.E.H. Smith, The Problem of Animal Generation in Early Modern Philosophy, Cambridge University Press, New York 2006, p. 7.

[45] Cfr. H. Hirai, Medical Humanism and Natural Philosophy, cit., p. 33 ss. in cui sono descritti accuratamente tali passaggi. Si sottolinea in particolare che il vescovo e filosofo tedesco Alberto Magno di Bollstädt (1193 circa-1280) fece ampio uso della nozione di “potere formativo”, generalizzando tale idea e applicandola non solo all’ambito biologico ma anche alla fisica in generale e facendo appello a tale forza per spiegare la formazione di minerali e fossili. Cfr. a tal proposito A. Takahashi, Nature, Formative Power and Intellect in the Natural Philosophy of Albert the Great, in «Early Science and Medicine», n. 1, 2008, pp. 451-481.

[46] Cfr. ibid., pp. 33-45. Cfr. inoltre D. Mugnai Carrara, Una polemica umanistico-scolastica circa l’interpretazione delle tre dottrine ordinate di Galeno, in «Annali dell’Istituto e museo di storia della scienza di Firenze», n. 8, 1983, pp. 31-57; V. Nutton, The Rise of Medical Humanism: Ferrara, 1464-1555, in «Renaissance Studies», n. 11, 1997, pp. 2-19; D. Bacalexi, Trois traducteurs de Galien au XVIe siècle: Nicolò Leoniceno, Guillaume Cop, Leonhart Fuchs, in V. Boudon-Millot et al., Lire les médecins grecs à la Renaissance, De Boccard, Paris 2004, pp. 247-269.

[47] Cfr. Ibid., pp. 46 ss.

[48] Cfr. Ibid., 116. «Con piccole differenze e sottolineature», conclude qui l’autore, «questa genealogia comprende essenzialmente la mappa scheletrica delineata dagli studiosi sulla storia della plasticità che conduce al XVII secolo e alla moderna filosofia occidentale ed europea».

[49] Ibid., p. 120.

[50] R. Cudworth, True Intellectual System of the Universe: Wherein All the Reason and Philosophy of Atheism Is Confuted and Its Impossibility Demonstrated, Richard Royston, London 1678, p. 147. 

[51] Ibid., p. 150.

[52] T. Wormald, On plasticity’s own conceptual epigenesis, cit., p. 122.

[53] R. Cudworth, True Intellectual System of the Universe, cit., p. 150.

[54] A. Ashley-Cooper (Shaftesbury), Soliloquy, or Advice to an Author, J. Morphew, London 1710; tr. it. di P. Zanardi, Soliloquio ovvero consigli a un autore, Il Poligrafo, Padova 2000.

[55] Ibid., p. 77.

[56] T. Wormald, On plasticity’s own conceptual epigenesis, cit., p. 122.

[57] Ibid.

[58] Ibid., p. 119.

[59] Citiamo a titolo di esempio alcune di tali occorrenze. L’aggettivo, declinato al femminile, compare ad esempio nel titolo del breve scritto Plastische Anatomie (J.W. Goethe, Plastische Anatomie, 1832; tr. it. di G. Targia, Anatomia plastica, in Id., Morfologia, Nino Aragno Editore, Torino 2013, p. 847 ss.), un testo in cui Goethe si confronta con l’arte di quei virtuosi della ceroplastica e incisori che, seguendo dettagliatamente le indicazioni dei docenti universitari di anatomia, producevano vere e proprie opere d’arte didattiche. Se in tale occorrenza Goethe si avvale del termine riconducendolo al significato di “scultura”, diverso è l’utilizzo che di esso possiamo riscontrare in Della mia vita. Poesia e verità, a cura di L. Balbiani, Bompiani, Milano 2020, p. 1643, in cui leggiamo: «grazie a un certo talento naturale e all’esercizio mi riusciva bene un profilo, disponevo anche facilmente sulla carta quello che scorgevo davanti a me in natura; ma mi mancava la forza plastica (die eigentliche plastische Kraft), l’abilità nel dare corpo ai contorni mediante chiaro-scuri ben dosati». Qui l’aggettivo viene difatti utilizzato in associazione al sostantivo Kraft per indicare la forza che è in grado di dar forma all’immagine, limitando tuttavia il significato del concetto stesso di plasticità alla sua accezione attiva.

[60] J.W. Goethe, La Natura, in Id., La metamorfosi delle piante e altri scritti sulla scienza della natura, cit., p. 154-155. Il frammento fu pubblicato per la prima volta anonimo, con il titolo Fragment, nel «Tiefurter Journal», n. 32, 1782; fu ripubblicato con il titolo Natur in «Pfälzisches Museum», I, 4, 1784. In una lettera inviata all’amico Knebel il 3 marzo 1783, Goethe confida però di non esserne l’autore, al contrario di quanto si pensava nei circoli culturali: oggi la critica è concorde nell’attribuirne la paternità al teologo svizzero G.C. Tobler; tuttavia, il testo è riportato in tutte le più importanti edizioni delle opere scientifiche goethiane poiché riflette mirabilmente le concezioni del poeta tedesco sulla natura come Goethe stesso conferma nel saggio intitolato Spiegazione del frammento “la natura” dettato al Cancelliere von Müller il 24 maggio 1828 e pubblicato postumo da Eckermann. Qui Goethe afferma: «questo scritto, trovato nel carteggio dell’eternamente compianta duchessa Anna Amalia, e fattomi recentemente pervenire, è scritto da una mano ben nota, di cui abitualmente mi servivo nel penultimo decennio del secolo per i miei lavori. Che l’abbia composto io, non ricordo per certo, ma le sue considerazioni collimano con le idee alle quali la mia mente era allora pervenuta» (ibid., pp. 155-156).

[61] Id., Introduzione all’oggetto, in La metamorfosi delle piante, cit., p. 43.

[62] C. Malabou, Cosa fare del nostro cervello?, cit., p. 106.

[63] J.W. Goethe, Introduzione all’oggetto, in Id., La metamorfosi delle piante, cit., p. 43.

[64] Ibid.

[65] F. Cislaghi, Goethe e Darwin. La filosofia delle forme viventi, Mimesis, Milano-Udine 2008, p. 35.

[66] R. Steiner, riportato in E. Ferrario, Sviluppo biografico della concezione della natura in Goethe fino al viaggio in Italia e genesi della morfologia botanica, in J.W. Goethe, Gli scritti scientifici. Morfologia I: Botanica, a cura di E. Ferrario, Il Capitello del Sole, Bologna 1996, pp. 321-340.

[67] La “matrice della forma”, quel vincolo «fissato dall’interno in modo generico (generisch von innen determiniert)» (J.W. Goethe, Gli scheletri dei roditori, raffigurati e comparati da D’Alton, in Gli scritti scientifici. Morfologia II: Zoologia, a cura di E. Ferrario Il Capitello del Sole, Bologna 1999, p. 243) che consente al singolo ente naturale di essere sempre riconoscibile nelle sue trasformazioni individuali e che, allo stesso tempo, permette a noi osservatori di individuare un operare unico della Natura è rappresentato in Goethe dal tipo vegetale (l’Urpflanze) e da quello animale (l’Urtier), veri e propri Urphänomene che traspaiono nelle forme incarnate. Essi sono in grado di “fissare la forma”, di «capovolgere un fatto in un’essenza» (E. Guglielminetti, Metamorfosi nell’immobilità, Jaca Book, Milano, 2000, p. 27) e vincolarla materialmente ai propri equilibri compositivi, divenendo «istanze di continuità capaci di determinare la natura essenziale e la riproposizione dell’ente» (ibid.).

[68] Lettera di J.W. Goethe alla Sig.ra von Stein del 9 luglio 1786 pubblicata in J.W. Goethe, Lettere alla Signora von Stein, tr. it. a cura di R. Spaini Pisaneschi, Lettere, Milano 1986, pp. 241-243; cfr. anche la lettera inviata da J.W. Goethe alla sua interlocutrice pochi giorni prima (il 15 giugno) in cui il poeta scrive: «non so trovare le parole per esprimerti quanto il libro della natura mi sia sempre più leggibile: il mio lungo sillabare mi è stato di aiuto: adesso, tutto in una volta, ogni cosa si è schiarita e la mia intima gioia è indicibile. Per quanto possa trovare cose nuove, niente mi è inatteso, tutto combina e aderisce» (ibid., p. 239).

[69] P. Giacomoni, “Vis superba formae”. Goethe e l’idea di organismo tra estetica e morfologia, in G. Giorello, A. Grieco (a cura di), Goethe scienziato, Einaudi, Torino 1998, p. 204.

[70] J.W. Goethe, Origine del saggio sulla Metamorfosi delle piante, in Id., La metamorfosi delle piante, cit., p. 53.

[71] Id., Italianische Reise; tr. it. a cura di E. Castellani, Viaggio in Italia, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1993, p. 63. Per un’analisi dell’evoluzione dell’idea di Natura in Goethe cfr. E. Ferrario, Sviluppo biografico della concezione della natura in Goethe fino al viaggio in Italia e genesi della morfologia botanica, cit., pp. 321-340. Qui l’autore mette in luce che l’esperienza italiana condusse Goethe all’elaborazione di una concezione della natura organica (e in particolar modo vegetale) che nelle sue linee generali rimarrà definitiva; «nel corso della sua successiva lunga esistenza Goethe non apporterà infatti che conferme», afferma Ferrario, «esplicitazioni o specifici approfondimenti rispetto a quanto concepito e fissato nei mesi italiani e negli anni immediatamente successivi» (ibid., p. 333).

[72] «Stamane andai al giardino pubblico col risoluto e calmo proponimento di tener dietro ai miei sogni poetici, quando fui afferrato alla sprovvista da un altro fantasma (ein anderes Gespenst) che già da qualche giorno mi inseguiva furtivo», scrive Goethe. «Molte piante, ch’ero abituato a vedere in cassette o in vasi, o addirittura chiuse dietro i vetri d’una serra per la maggior parte dell’anno, crescono qui felici sotto il libero cielo; e nell’adempiere perfettamente la loro determinazione (indem sie ihre Bestimmung vollkommen erfüllen), esse diventano per noi più comprensibili (werden sie uns deutlicher). Di fronte a tante forme nuove o rinnovate si ridestò in me la vecchia idea fissa (die alte Grille) se non sia possibile scoprire fra quell’abbondanza la pianta originaria (die Urpflanze). È impossibile che non esista! Come riconoscerei altrimenti che questa o quella forma è una pianta, se non corrispondessero tutte a un unico modello?» (ibid., p. 294 – traduzione modificata). Cfr. a tal proposito G.F. Frigo, La pianta come fenomeno originario in Goethe. Il contesto epistemologico e filosofico, in D. v. Engelhardt, F.M. Raimondo (eds.), Goethe e la pianta. Natura, scienza e arte, in «Quaderni», n. 9, 2006, p. 21) l’uso del termine Urpflanze compare nel 1787, durante il viaggio in Italia, ma è presente fin dall’inizio negli studi botanici di Goethe poiché già dai primi anni ʽ80 egli era solito discutere con Herder sulle “forme originarie” presenti in natura e che si proponeva di indagare.

[73] Id., Viaggio in Italia, cit., p. 357. R.M. Lupo sottolinea che in tale brano «è possibile attestare anche la convinzione goethiana che lo sguardo morfologico è lo sguardo di colui che è, appunto, “amico dei fenomeni” in quanto destinatario, sul piano sensibile come sul piano intellegibile, del mostrarsi di essi nel loro essere» (R.M. Lupo, Materia e metamorfosi. A partire dalla morfologia goethiana, in A. Le Moli, A. Cicatello (eds.), Understanding Matter. Vol. I – Perspectives in Moder Philosophy, New Digital Frontiers, Palermo 2015, p. 131).

[74] A. Allegra, Metamorfosi. Enigmi filosofici del cambiamento, Mimesis, Milano-Udine 2010, p. 132. Haeckel a tal proposito afferma che «Goethe si era sforzato di riconoscere un unico organo fondamentale dal cui infinitamente vario perfezionarsi e modificarsi si potesse immaginare derivata tutta la ricchezza di forme che ci si presenta nel mondo vegetale; quest’organo fondamentale lo trovò nella foglia» (E. Haeckel, Storia della creazione naturale, tr. it. cit., p. 50).

[75] J.W. Goethe, Esperienza e scienza, in Id., La metamorfosi delle piante, cit., p. 135.

[76] Cfr. quanto scrive F. Moiso nel saggio La scoperta dell’osso intermascellare e la questione del tipo osteologico, in G. Giorello, A. Grieco (a cura di), Goethe scienziato, cit., p. 327: «ogni forma è come trasformata ed è egualmente “lontana” dal tipo come lo è qualsiasi altra. Trasformazione non significa un processo di allontanamento da un’origine».

[77] Un interessante riferimento per comprendere tutto ciò è rappresentato dal saggio Ein glückliches Ereignis in cui Goethe racconta il suo memorabile incontro con Friedrich Schiller in occasione di una seduta della società di naturalisti organizzata dal medico e botanico tedesco August Batsch (1761-1802). I due pensatori avevano per caso lasciato entrambi la sala nello stesso momento e tra loro s’intrecciò un colloquio sull’argomento della conferenza. «Arrivammo a casa sua», scrive Goethe, «la conversazione mi indusse ad entrare; lì esposi vivacemente la metamorfosi delle piante e con alcuni tratti sommari della penna feci nascere davanti ai suoi occhi una pianta simbolica (eine symbolische Pflanze). Egli ascoltava e guardava il tutto con grande interesse, deciso a comprenderlo; ma quando ebbi finito scosse la testa e disse: “Questa non è un’esperienza, questa e un’idea”. Io ribattei con un certo malumore; giacché con quella frase era stato indicato nel modo più rigoroso il punto che ci divideva […] mi contenni e replicai: “In fondo sono contento di avere delle idee senza saperlo e di vederle addirittura con gli occhi”» (J.W. Goethe, Teoria della Natura, Editore Paolo Boringhieri, Torino 1958, p. 60). Grazie all’elaborazione della teoria della metamorfosi a partire dall’osservazione della molteplicità vegetale, Goethe era convinto di aver fondato le proprie ricerche biologiche sul solido terreno dell’esperienza e, per tal motivo, fu particolarmente “ferito” dalle parole di Schiller che aveva definito il disegno dell’Urpflanze un’idea, termine che, a suo dire, nulla aveva a che fare con l’ambito esperienziale e che esisteva solo nell’iperuranio platonico. Ma questa non era sicuramente l’intenzione di Schiller: esperto conoscitore di Kant, egli sapeva bene che nel sistema kantiano l’idea non è, come in Platone, contrapposta all’esperienza, quanto piuttosto un momento nello stesso processo esperienziale degli organismi. Ciò vale, a maggior ragione, per quelle che Kant definisce idee estetiche (ästhetische Idee) che, afferma il filosofo nel §49 della Critica della facoltà di giudizio, sono «una rappresentazione dell’immaginazione associata a un concetto dato, la quale, nel libero uso dell’immaginazione, è legata con una tale molteplicità di rappresentazioni parziali che non può essere trovata per quell’idea un’espressione che designi un concetto determinato, e che quindi fa aggiungere a un concetto, nel pensiero, molto di indicibile» (I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, cit., p. 152). La pianta originaria di Goethe è secondo Schiller un buon esempio d’idea estetica perché non «appartiene a nessuna categoria tassonomica, ma sta sopra e al di fuori di esse, in quanto archetipo di natura ideale che contiene in sé stesso la potenzialità creativa di tutte le forme» (D. Nani, Sincronicità e dinamica della forma. Connessioni simboliche nell’anatomia dei vertebrati, Il Capitello del Sole, Bologna 2001, p. 34).

[78] Id., Metamorfosi degli animali, in Id., Tutte le poesie, vol. 1, t. II, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1989, p. 1015.

[79] Ibid.

[80] La loi de balancement des organes, che Goethe riprende nelle sue linee generali da Geoffroy Saint-Hilaire (1772-1844), è ispirata alla legge di conservazione della massa scoperta dal chimico francese Antoine-Laurent de Lavoisier (1743-1794), la quale afferma che, in una reazione chimica che avviene all’interno di un sistema chiuso, la massa dei reagenti è esattamente uguale alla massa dei prodotti, anche se appare in diverse forme. Tale legge parte quindi dalla constatazione che la natura è retta da un principio di economia. «La previdente natura», afferma a tal proposito il poeta tedesco, «si è fissato un bilancio, uno stato di spese ben definito. Essa opera arbitrariamente nei capitoli particolari, ma la somma generale rimane sempre la stessa; per modo che, se spende troppo da una parte, fa economia dall’altra» (J.W. Goethe, Principes de philosophie zoologique discutés en mars 1830 au sein de l’académie royale des sciences par M. Geoffroy de Saint-Hilaire; tr. it. di M. Lessona, Principii di Filosofia Zoologica discussi nel marzo 1830 all’Accademia delle Scienze di Parigi da Stefano Geoffroy-Saint-Hilaire, in Id., Principii di Filosofia Zoologica e Anatomia Comparata, Edoardo Perino Editore, Roma 1885, p. 14). Gli organismi, infatti, emergono dalla variazione per contrazione ed espansione di una forma archetipa: «lo sviluppo di una parte è causa della scomparsa di un’altra. Alla base di questa legge sta l’esigenza alla quale ogni essere è legato: esso non può uscire dalla propria dimensione. Una parte non può cioè aumentare senza che l’altra diminuisca, una parte non può giungere totalmente a dominare senza che l’altra scompaia totalmente» (Id., Lavori preliminari per la morfologia, in Id., La metamorfosi delle piante, cit., p. 109).

[81] E. Guglielminetti, Metamorfosi nell’immobilità, cit., p. 65.

[82] J.W. Goethe, Metamorfosi degli animali, cit., p. 1015.

[83] «Non ci sono, in Goethe due componenti, la semiretta dell’ordine e quella del moto, di cui egli produrrebbe la saldatura in un punto» (E. Guglielminetti, Metamorfosi nell’immobilità, cit., p. 65.

[84] Ibid.

[85] Ibid., p. 237; tr. it., p. 120 (modificata).

[86] C. Malabou, An Eye at the Edge of Discourse, in «Communication Theory», n. 17, 2007, p. 23.

[87] C. Malabou, Ontologia dell’accidente. Saggio sulla plasticità distruttrice, tr. it di V. Maggiore, Meltemi, Milano 2019, cit., p. 34.

[88] Ibid.

[89] C. Malabou, Le Voeu de Plasticité, in C. Malabou (ed.), Plasticité, Éditions Léo Sheer, Paris 2000, p. 7.

[90] F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita. Considerazioni inattuali, II (1874), tr. di S. Giametta, in La nascita della tragedia. Considerazioni inattuali, I-III, Adelphi, Milano 1972, p. 265.

[91] Didi-Huberman suggerisce a tal proposito che perché si possa avere una forma, in altri termini perché «un’individuazione possa aver luogo, è necessario che una materia possa offrire tale sottile qualità di non essere né troppo secca né troppo liquida, né troppo dura né troppo molle», G. Didi-Huberman, La Matière Inquiète, cit., p. 213. Cfr. anche C. Malabou, K. Lawless, The future of plasticity, cit., p. 103 in cui Malabou afferma che «Hegel contrappone la plasticità alla flessibilità, cioè un’eccessiva liquidità, e la rigidità, un’eccessiva durezza. Quindi, essere plastica significa che tutto ciò che ti accade ti modella ma allo stesso tempo non ti distrugge. La plasticità è il modo in cui il tempo ci modella o ci modella, costituisce la nostra soggettività e allo stesso tempo permette la resistenza».

[92] C. Malabou, La plasticité au soir de l’écriture, cit., p. 57. Un importante riferimento teorico può essere rintracciato in F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita. Considerazioni inattuali, II, tr. it. di S. Giametta, in Id., La nascita della tragedia. Considerazioni inattuali, Adelphi, Milano 1972, p. 265. Per il filosofo tedesco la forza plastica è capace «di crescere a modo proprio su sé stessi, di trasformare e incorporare cose passate ed estranee, di sanare ferite, di sostituire parti perdute, di riplasmare in sé forme spezzate», forgiando l’identità nel confronto con qualcosa di esterno.

[93] Ead., Cosa fare del nostro cervello?, cit., p. 15.

[94] Cfr. C. Malabou, K. Lawless, The future of plasticity, cit., p. 102 in cui Malabou confida: «è vero che all’inizio ho elaborato un concetto positivo di plasticità, e solo in seguito pervenni alla sua accezione negativa».

[95] A.F. Jardilino Maciel, Introduzione a C. Malabou, Avvenire e dolore trascendentale, Mimesis, Milano-Udine 2019, p. 16.

[96] C. Malabou, Ontologia dell’accidente, cit., p. 31.

[97] Cfr. A. Corbin, J.-J. Courtine, G. Vigarello, Histoire du corps, Seuil, Paris 2005.

[98] C. Malabou, Ontologia dell’accidente, cit., p. 31.

[99] P. Tessier, Le corps accidenté, cit., p. 10. L’identità si concepisce quindi come un’«esperienza dinamica e incarnata» (ibid., p. 223) in cui il corpo non è più concepito come «l’ente opaco che Descartes paragonava a un vascello di cui l’anima era il pilota» (ibid., p. 221), ma gioca un ruolo fondamentale perché «l’individuo investe nel proprio corpo, esercita la volontà di trasformarlo» (ibid.). Si realizza così un equilibrio fra differenziazione e normalizzazione che ci spinge a mettere in atto trasformazioni corporee volontarie che mirano al conseguimento di un ideale estetico normativo (praticare sport, mettersi a dieta, ecc.) o, al contrario, a concedersi piccole trasgressioni (sottoporsi a un lifting, fare un tatuaggio, ecc.). Tali mutamenti estetici, insieme agli impercettibili cambiamenti fisici e psichici che la vita quotidiana ci costringe ad affrontare, rappresentano l’affermazione della personalità del soggetto: ogni nuova configurazione corporea è il segno di una realizzazione continua, di trasformazioni che rafforzano l’identità, «la caricaturizzano o la fissano, non la contraddicono mai. Non la sconvolgono mai» (C. Malabou, Ontologia dell’accidente, cit., p. 31.).

[100] C. Malabou, Ontologia dell’accidente, cit., pp. 32-33. In C. Malabou, K. Lawless, The future of plasticity, cit., p. 104 l’autrice confessa di aver compreso la limitatezza della sua posizione per un caso fortuito: «terminato il dottorato mi sono resa conto di aver solo sottolineato il “lato buono” della plasticità, i suoi valori positivi di costruzione e formazione. Penso di essermene resa conto, in verità, in seguito a una domanda che qualcuno mi ha rivolto dopo una conferenza o un discorso. Qualcuno mi ha chiesto delle implicazioni negative della plasticità. Cos’è esattamente l’esplosione? Quindi, è così che ho iniziato a chiedermi come potremmo concepire una tipologia negativa di modellamento, e questo mi ha condotto alla questione del trauma».

[101] G. Isetta, Accidente e plasticità. Pensare filosoficamente l’invecchiamento, in «Esercizi Filosofici», 1, 2015, p. 106. Cfr. anche V. Maggiore, Accidenti plastici. Quando la plasticità distruttrice crea nuove identità formali, in C. Malabou, Ontologia dell’accidente. Saggio sulla plasticità distruttrice, Meltemi, Milano 2019, pp. 9-27.

[102] A.F. Jardilino Maciel, Introduzione, cit., p. 17.

[103] C. Malabou, Ontologia dell’accidente, cit., p. 33. Un esempio della forza creatrice della plasticità è testimoniato dallo scrittore franco-catalano Antoni Casas Ros. In un’opera autobiografica intitolata Il teorema di Almodovar egli descrive l’incidente stradale che lo ha sfigurato: un cervo spuntò all’improvviso sulla strada mentre era alla guida della sua automobile facendogli perdere il controllo della vettura. La sua compagna, seduta sul sedile del passeggero, morì sul colpo; lui si salvò, ma l’incidente lo lasciò per sempre sfigurato. Scrive l’autore: «all’inizio ho creduto ai medici, ma la chirurgia ricostruttiva non è riuscita a cancellare lo stile cubista della mia faccia. Picasso mi avrebbe odiato perché rappresento la negazione della sua inventiva. Si potrebbe pensare che anche lui mi abbia incontrato alla stazione di Perpignan, il centro dell’universo secondo Dalì. Sono una fotografia sfocata che può far venire in mente un viso» (A. Casas Ros, Il teorema di Almodovar, Ugo Guanda, Parma 2009, p. 11). Il volto di Casas Ros può essere definito come l’esito di un’opera di accostamento e riconfigurazione che nulla ha a che fare col “metodo combinatorio” del celebre pittore greco Zeusi, il leggendario artista che si proponeva di riprodurre la perfezione della figura umana selezionando le parti del corpo più armoniose di diversi soggetti e ritraendole in maniera congiunta: qui la combinazione e la ricomposizione dei tratti del volto è grottesca e ha luogo senza scopo o ragione. Essa è l’esito di una tragedia improvvisa e accidentale, i cui segni permangono nel corpo e nello spirito del soggetto e gli impediscono di condurre una vita del tutto normale.

[104] C. Malabou, Ontologia dell’accidente, cit., p. 31.

[105] Ibid., p. 32.

[106] Cfr. C. Malabou, Cosa fare del nostro cervello?, cit., p. 14. Tale peculiare caratteristica della plasticità è testimoniata tra l’altro dalla comunanza etimologica che lega il termine plasticité alla dizione francese plastiquage, vocabolo utilizzato per riferirsi a una sostanza in grado di suscitare violente detonazioni, una bomba al plastico che genera la rottura della forma e il suo disfacimento nell’informe.

[107] Ibid.

[108] Ibid., pp. 31-32.

[109] S. Žižek, Descartes and the Post-Traumatic Subject: On Catherine Malabou’s Les nouveaux blessés and other autistic Monsters, in «Qui Parle», 2, 2009, p. 125. Cfr. V. Maggiore, Quando la malattia “rimette in forma”: la plasticità distruttrice e le figure del trauma, in «Spazio Filosofico», n. 1, 2019, p. 131 ss. P. Virilio fa coincidere la plasticità esplosiva con il sopraggiungere di «tutti gli accidenti, dal più banale al più tragico, dalle catastrofi naturali ai disastri industriali e scientifici, senza tralasciare la categoria, troppo spesso dimenticata, dell’accidente felice, il colpo di fortuna, il coup de foudre o persino il coup de grâce!» che possono radicalmente trasformare la nostra esistenza (P. Virilio, The original Accident, Polity Press, Cambridge 2007, p. 4).

[110] Cfr. C. Malabou, K. Lawless, The future of plasticity, cit., p. 101 in cui Malabou sottolinea che in casi come questo la «metamorfosi non è una risurrezione; è solo un tentativo di colmare il divario che si è aperto al centro dell’identità».

[111] P. Tessier, Le corps accidenté, cit., p. 217.

[112] Ibid., p. 65. Cfr. ad esempio J. Connors, Katie’s new face, in «National Geographic», 09/2018, pp. 40-89 in cui sono riportate le esperienze psicologicamente difficili di alcune persone che hanno subito delicati trapianti facciali.

[113] M. Marzano, La philosophie du corps, PUF, Paris 2007, p. 53.

[114] F.S. Connelly (ed.), Modern Art and the Grotesque, Cambridge University Press, Cambridge 2003, p. 4.

[115] C. Malabou, Ontologia dell’accidente, cit., p. 32.

[116] Cfr. C. Malabou, Les nouveaux blessés. De Freud à la neurologie : penser les traumatismes contemporains, Bayard, Paris 2007, pp. 1-2. Un motivo del tutto personale (e ancora una volta “accidentale”) la spinse quindi a riconoscere le difficoltà con cui filosofia, psicanalisi e medicina si sono confrontate nel riferirsi a tali configurazioni identitarie: «al momento della malattia di mia nonna ho dovuto ammettere che l’unità ospedaliera nella quale era stata ricoverata non offriva alcun aiuto psicoterapeutico. I pazienti di questo reparto geriatrico non erano certamente maltrattati, ma era chiaro che non li si considerava più giustamente come soggetti dotati di psiche e che nessuno sarebbe stato in grado di rispondere al loro disagio se non imbottendoli di medicinali» (ibid., p. 10).

[117] S. Žižek, Descartes and the Post-Traumatic Subject, cit., pp. 123-147.

[118] Cfr. C. Malabou, Les nouveaux blessés, cit., p. 26 ss. Cfr. J.-J. Barreau, Du traumatisme à l’évènement, in «Topique», n. 2, 2006, pp. 103-125. Cfr. C. Malabou, K. Lawless, The future of plasticity, cit., p. 100 in cui Malabou confessa: «come sai, la mia elaborazione del trauma non è esattamente quella della psicoanalisi. Il tipo di traumi che m’interessano implicano una questione di temporalità, ma sono immediati, non tardivi. Colpiscono la persona. Sto pensando qui alle lesioni cerebrali. La psiche non ha il tempo di prepararsi al trauma, ma nemmeno la possibilità di reinterpretarlo a posteriori perché il più delle volte la lesione si ripercuote sul linguaggio e sulla memoria. Quindi, sono interessata al tipo di trauma che, secondo me, Freud ha trascurato, cioè il trauma fisico che si verifica nel cervello».

[119] C. Malabou, Ontologia dell’accidente, cit., p. 32.

[120] Ibid., p. 34.

[121] G. Isetta, Alzheimer e plasticità. Ripensare la natura delle neurodegenerazioni, in «Spazio filosofico», n. 1, 2019, p. 127.

[122] C. Malabou, Les nouveaux blessés, cit., p. 2.

[123] Ibid., p. 4.

[124] Quando andava a trovare la nonna nella clinica in cui era ricoverata l’autrice aveva l’impressione di non riconoscerla più, come se «dietro l’alone familiare dei capelli, il tono della voce, il blu degli occhi, si percepisse, fenomeno ontologico sconvolgente, la presenza assolutamente incontestabile di qualcun altro» (ibid., p. 2): un individuo irriconoscibile, «il cui presente non proviene da alcun passato, il cui futuro non ha alcun avvenire; un’improvvisazione esistenziale assoluta» (C. Malabou, Ontologia dell’accidente, cit., p. 31).

[125] G. Didi-Huberman, La conoscenza accidentale. Apparizione e sparizione delle immagini, Bollati Boringhieri, Milano 2011, p. 12.

[126] P. Virilio, The original Accident, cit., p. 9.

[127] Cfr. P. Tessier, Le corps accidenté, cit., p. 225.

[128] Cfr. Martinon, On Futurity, cit., pp. 27-68. Un termine la cui importanza è sottolineata anche da Derrida, guida accademica della Malabou: «la plasticità», afferma il filosofo francese, «non è un concetto secondario o un altro concetto che si aggiunge al voir venir […] è lo stesso concetto […] in ragione della sua autocontraddizione dialettica e della sua mobilità, il voir venir è esso stesso un concetto plastico. I due concetti sono intercambiabili» (J. Derrida, Le temps des adieux Heidegger (lu par) Hegel (lu par) Malabou, in «Revue Philosophique de la France et de l’Étranger», n. 188, 1998, p. 8).

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