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Formazione e trasformazione. Il desiderio di forma in un essere che nasce privo di forma esistenziale

Autore


Guido Cusinato

Università di Verona

Professore Ordinario di Filosofia Teoretica presso l’Università di Verona

Indice


1. Oltre la teoria del calco. Alice e Brucaliffo: Who are you?
2. Il mestiere di vivere
3. La coltivazione del desiderio
4. L’essere toccati dal mondo
5. Conclusioni

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S&F_n. 30_2023

Abstract


Formation and Transformation. The Desire for Form in a Being born without Existential Form

What is our personal singularity? We often think of it as something that remains “identical” as the hours, days, and years of our existence pass by. Others have turned to the idea of “psychological continuity” (Derek Parfit) or “innate image” (James Hillman). In what follows, I show that our personal singularity cannot be conceived of in terms of identity, continuity, or even an innate image, because it assumes form unpredictably through deviations, falls, mistakes, traumas, ruptures, or transformations. What defines the personal singularity is the uniqueness of an expressive pathway made up of ruptures and discontinuities, through which each of us attempts to overcome the self-referential perspective of our social self, to be reborn in the encounter with the other, and to assume form in caring relationships. This expressive pathway is the result of the “craft of living” of a being who comes into the world without having finished being born, and who finds herself lacking an existential form. Such an existential form is molded by practices of emotional sharing and by a desire that does not refer back to predetermined models.

1. Oltre la teoria del calco. Alice e il Brucaliffo: Who are you?[1]

Alice nel paese delle meraviglie compie un viaggio di trasformazione a partire da una nuova nascita, quella che si compie quando cade nella tana del Bianconiglio. Cade infatti a testa in giù, così come un neonato che si fa strada nel canale del parto. Attraverso questa nuova nascita, Alice entra nel paese delle meraviglie, ma la trasformazione è così profonda che non sa più chi è, tanto che non sa cosa rispondere a chi le chiede chi sia e da dove venga. Fra i personaggi che le pongono questa domanda quello più insistente è Brucaliffo, una sorta di bruco-pensatore, il cui passatempo preferito è quello di fumare narghilè e canticchiare creando lettere di fumo. Appena incontra Alice le pone subito la fatidica domanda: «Who are you?». A questa domanda Alice risponde: «I-I hardly know, sir, just at present – at least I know who I was when I got up this morning, but I think I must have been changed several times since then»[2].

Brucaliffo non accetta che Alice non sappia definirsi in modo preciso e le ripropone insistentemente la domanda. Infatti, è chiuso nei propri schemi mentali e non riesce a capire che Alice è una persona che si trasforma e che, trasformandosi, non può essere irrigidita all’interno di un’identità personale fissa. Così Alice è costretta a ripetergli che non è in grado di dargli una risposta migliore, in quanto l’aver cambiato forma così tante volte nel corso della stessa giornata l’ha confusa. Alla fine, spazientita dal continuo ribattere di Brucaliffo, esclama: «Well, perhaps you haven’t found it so yet, […] but when you have to turn into a chrysalis – you will some day, you know – and then after that into a butterfly, I should think you’ll feel it a little queer, won’t you?». E in effetti di certo non può essere proprio un bruco, che sta per trasformarsi in crisalide e poi in farfalla, a negare il concetto di trasformazione!

Per molto tempo in filosofia si è ragionato come Brucaliffo, e si è pensato che un individuo potesse rispondere alla domanda «chi sei tu?» facendo riferimento a qualcosa di simile a una “identità personale” o a una “continuità psicologica”. Si tratta in realtà di concetti molto insidiosi.

 

1.1 Prima ipotesi. Il mito dell’identità psicologica

Quasi sempre il problema della forma dell’individuo è stato affrontato cercando d’individuare un’identità che permane costante nel corso del tempo. In età moderna è stato John Locke a sviluppare questa idea. Locke però aveva il merito di slegare il concetto d’identità personale da una prospettiva metafisica di sostanza e dall’idea di anima. Nel Saggio sull’intelletto umano Locke critica la tesi che l’identità personale possa essere concepita nel senso dell’identità di una sostanza, e piuttosto fa dipendere tale identità dalla coscienza che un individuo ha di permanere identico nel corso del tempo attraverso le diverse esperienze[3].

In tal modo si è sviluppata un’ontologia dell’identità personale che lega insieme i concetti di unicità e di identità[4]. David Parfit ha pensato di risolvere il problema sostituendo il concetto di “identità” con quello di “continuità psicologica”[5], ma in tal modo non si sposta di molto il problema.

Forse bisognerebbe invece chiedersi a chi ci si riferisce: al soggetto che dice: “Io”, il sé sociale che dirige la mia esistenza quotidiana, oppure la singolarità personale, quella che caratterizza l’umano come ens amans?[6].

L’identità e la continuità psicologica funzionano egregiamente per definire il sé sociale, ma diventano problematiche se riferite alla singolarità personale. Infatti, ciò che caratterizza la singolarità personale non ha nulla a che fare con l’identità della coscienza e neppure con la continuità psicologica, dal momento che, al contrario, è il risultato di un percorso di deviazione dall’identità, caratterizzato da rotture e quindi non descrivibile neppure in termini di continuità. Tale discontinuità è chiaramente sperimentabile ad es. nel fenomeno dell’autentico fenomeno del pentimento, tanto che ciò che lo caratterizza è il non riconoscersi più in un determinato atto compiuto nel passato. È pertanto fuorviante pensare che l’unicità della singolarità personale implichi necessariamente l’identità o la continuità psicologica che invece caratterizza il sé sociale.

Ciò che definisce la singolarità personale non è l’identità e neppure la continuità, bensì l’unicità di un percorso espressivo, fatto di rotture e discontinuità, con cui un determinato individuo supera la prospettiva autoreferenziale del proprio sé sociale, per rinascere nell’incontro con l’altro e per prendere forma nelle relazioni di cura.

È altrettanto fuorviante pensare che l’unicità della singolarità personale implichi l’irripetibilità, se con irripetibilità s’intende l’impossibilità di ripercorrere un determinato percorso espressivo[7]. Le varie rotture del percorso, che rende unica la singolarità, sono infatti rese possibili dall’influsso dell’esemplarità altrui. Tale influsso dimostra che, a certe condizioni, è possibile ripercorrere il percorso che rende unica una determinata singolarità personale. Tuttavia, nel ripeterlo otterrò maieuticamente un risultato diverso.

 

1.2 Seconda ipotesi. Il mito della ghianda di Hillman

Una tesi che negli ultimi decenni ha avuto un’ampia risonanza è quella sviluppata da James Hillman nel libro Il codice dell’anima, con la teoria della ghianda: «La teoria della ghianda dice (e ne porterò le prove) che io e voi e chiunque altro siamo venuti al mondo con un’immagine che ci definisce»[8]. Hillman sostiene che la forma della nostra esistenza è riconducibile a una immagine “innata”, che corrisponde di fatto alla nostra vocazione. Tale immagine, verso cui ci spinge la voce del demone è spesso lontanissima da quella dei nostri genitori o da quella predominante nel nostro ambiente di origine.

A rendere affascinante tale ipotesi è la sostituzione del concetto di identità sostanziale con quello di destino. Così come nel codice genetico della ghianda è già inscritto il progetto attraverso il quale essa diventerà una quercia, altrettanto nel codice genetico della nostra immagine individuale è già inscritto il progetto che ci porterà a diventare ciò che siamo destinati a essere fin dall’inizio. Quindi, se tu sei una ghianda, per quanto tenti di deviare il corso degli eventi, il suo destino sarà inevitabilmente quello di diventare una quercia. Certo non è possibile prevedere l’esatta forma di questa quercia, essa infatti verrà condizionata anche dai fattori ambientali, ma in ogni caso la ghianda assumerà una forma riconducibile all’idea innata di quercia.

Per giustificare la propria ipotesi Hillman si rifà al mito di Er, quello in cui Platone recepisce dall’orfismo il mito della reincarnazione, e che viene narrato al termine del X Libro della Repubblica. Riprendendo questo mito, Hillman sostiene che l’immagine che ci definisce in realtà non ci è imposta, ma sarebbe stata scelta dalla nostra anima nell’aldilà, e poi una volta venuti al mondo ci saremmo dimenticati di tale scelta:

Prima della nascita, l’anima di ciascuno di noi sceglie un’immagine o disegno che poi vivremo sulla terra, e riceve un compagno che ci guidi quassù, un daimon, che è unico e tipico nostro. Tuttavia, nel venire al mondo, dimentichiamo tutto questo e crediamo di essere venuti vuoti. È il daimon che ricorda il contenuto della nostra immagine, gli elementi del disegno prescelto, è lui dunque il portatore del nostro destino[9].

 

Il problema è che non sappiamo fin dall’inizio di essere una ghianda, perché il nostro destino è velato ed è quindi nostro compito quello di scoprirlo, prestando ascolto alle voci enigmatiche dell’inconscio, espresse appunto dal demone. In tal modo Hillman identifica la forza motrice di questa immagine individuale nel demone, inteso come la divinità interiore che risiede nell’inconscio e che ci tormenta fino a quando non scopriamo e realizziamo il nostro vero destino. Certo poi le circostanze potranno modificare i dettagli, ma la ghianda prenderà la forma inconfondibile di quercia. È vero, in questo caso il calco non determina la forma della nostra esistenza fin nei minimi particolari, ma i tratti decisivi, sono già predeterminati.

Tale immagine ha una potenza suggestiva incalcolabile e contiene sicuramente un nucleo di verità. Tuttavia, nonostante tutte le spiegazioni e gli innumerevoli tentativi compiuti da Hillman stesso, non riesce a scrollarsi di dosso un’aura di fatalismo. Con “codice dell’anima” Hillman intende del resto il “codice genetico” dell’anima, cioè l’idea che il nostro destino sia già inscritto in un “codice” dell’anima.

È possibile ripensare l’ipotesi di Hillman al di fuori di queste ambiguità? La mia tesi è che alla base del “codice dell’anima” di Hillman non ci sia il fato, ma il desiderio.

 

1.3 Un’ipotesi alternativa: una forma generata dal desiderio

Nella prima ipotesi, quella del mito dell’identità sostanziale, è presente la tesi che l’umano prenda forma innalzandosi verso l’alto, magari rifacendosi a un paradigma ideale, ad es. l’essenza universale e immutabile della natura umana. Il feticcio di una identità irripetibile è il risultato psicologico del terrore esistenziale nei confronti del divenire. Per sfuggire a tale terrore si ricorre alla mitologia dell’innalzamento verso un mondo ideale e immutabile. In tal modo l’identità irripetibile viene pensata come un’identità che si erige su sé stessa. Il modello è quello dell’erezione di un edificio. Non bisogna scordare che comunque la logica della posizione eretta rappresenta una delle maggiori conquiste dell’umano: la conquista della posizione eretta. Tale conquista è diventata il paradigma dominante anche per descrivere il processo di formazione dell’umano. È una tesi molto diffusa, tanto che perfino il filosofo tedesco Peter Sloterdijk, pur rifiutando l’idea di un modello predefinito, concepisce la sua antropotecnica all’interno del paradigma della erezione acrobatica[10].

E se invece, rovesciando l’ipotesi di Sloterdijk, la singolarità dell’esistenza umana prendesse forma non innalzandosi verso l’alto, ma nell’inciampare sullo scoglio dell’esperienza? Nel fallire e nel cadere verso il basso? E se, all’origine delle svolte più rilevanti, ci fosse l’esperienza di una crisi o di un annuncio così radicale da farci mancare la terra sotto i piedi e da mettere in discussione tutte le nostre certezze?

L’ipotesi di Hillman insiste sul fatto che a motivare il processo di formazione sia la voce di un demone che ci spinge a cercare la nostra vocazione. E se tale vocazione non fosse riconducibile a una “immagine innata”? Se fosse molto più indeterminata di quanto suggerisce il mito della ghianda?

Ritengo improbabile che ci sia una idea innata, o in qualche modo già scelta prima della nostra nascita che predetermina la forma della nostra esistenza. L’estrema plasticità dell’esistenza umana dimostra il contrario. Nell’umano, infatti, il problema della forma viene alla luce in tutta la sua sconcertante radicalità. Esiste un essere vivente, l’umano, che nasce senza disporre di una forma esistenziale. Questo è dimostrato dalla totale dipendenza del neonato nei confronti della madre. Ma se nasce privo di una forma, allora ha un compito aggiuntivo, non previsto per le altre forme viventi: dotarsi di una forma che non ha. Tale forma non viene determinata imitando un modello preesistente o sviluppando una immagine innata, ma grazie al desiderio. Esiste pertanto una relazione essenziale fra forma umana e desiderio. Non il desiderio psicologico e individualista del sé sociale, ma il desiderio della singolarità personale che emerge nelle pratiche di emotional sharing[11].

 

1.4 La morfologia di Goethe e un nuovo concetto di plasticità

La tesi che la vita proceda generando forma senza rifarsi a un calco ideale o a modelli prestabiliti è riconducibile a Goethe. Prima di Goethe, il processo di formazione (Bildung) del vivente era stato generalmente inteso come la capacità di ricevere passivamente una forma già presente nel mondo delle idee, così come l’argilla riceve la forma dall’idea di vaso. Goethe rovescia questa prospettiva e pone alla base del processo di formazione della vita non la capacità di ricevere forma, bensì quella di generarla. Introducendo il concetto di “morfologia”, Goethe concepisce una natura che non riceve passivamente una forma già presente nel mondo delle idee, ma piuttosto tras-forma, cioè genera una forma nuova. In tal modo scopre che nel vivente si verifica un processo di formazione (Bildung) attraverso trasformazione (Umbildung), nel senso di generare forme sempre nuove[12].

Tale prospettiva morfologica mette in luce un nuovo concetto di plasticità. Accanto alla plasticità intesa come capacità di adattarsi a ricevere passivamente una forma, esiste una plasticità del vivente che genera senza rifarsi a modelli precostituiti.

Alla plasticità, nel senso di capacità di ricevere una forma, corrisponde il cambiamento (nel senso di adattamento, flessibilità o elasticità), ad es. la modifica della forma di un materiale elastico che, al venir meno della pressione esterna, riacquista la forma iniziale. Oppure il processo di adattamento che si verifica in un camaleonte per mimetizzarsi o in un individuo per conformarsi opportunisticamente al suo ambiente.

Invece alla plasticità, intesa come capacità di generare forma, corrisponde la trasformazione (Umbildung) intesa come il processo irreversibile con cui un sistema organico, sociale o personale, crea un nuovo equilibrio, generando, nello spazio aperto dalla rottura dell’equilibrio preesistente, una forma che prima non c’era. La trasformazione non si limita a riparare o a ricalibrare omeostaticamente un equilibrio preesistente: ne fa emergere uno nuovo. Introduce un nuovo inizio, cioè una novità ontologica rispetto all’inizio precedente. Questo nuovo inizio risulta un effetto che eccede la causa, e che non è riconducibile alla categoria del finalismo, in quanto rimane imprevedibile non solo nel suo sorgere, ma anche nel suo svilupparsi.

 

2. Il mestiere di vivere

2.1 Antropogenesi ed epigenetica

Certo, anche il processo di formazione degli altri esseri viventi non ricade nell’ipotesi del calco. Tuttavia gli altri esseri viventi vengono al mondo con una forma che si definisce in poco tempo. Per questo sono privi di quel desiderio che orienta il processo di formazione umano. L’umano invece viene al mondo senza avere una forma compiuta. La domanda alla base dell’enigma umano non è pertanto chi è l’umano, ma piuttosto che cosa può diventare.

Per distinguerlo dall’antropotecnica di Sloterdijk, indico il processo di trasformazione, volto a dare una forma a un essere che nasce privo di forma esistenziale, con il termine di antropogenesi.

L’acrobatica di Sloterdijk è il risultato di una tecnica ascetica di matrice stoica, basata sul controllo delle passioni da parte del soggetto sovrano. Il soggetto acrobatico di Sloterdijk è ancora una volta un soggetto padrone di sé, che governa dall’alto la propria vita emotiva. C’è cambiamento, ma non c’è trasformazione, come del resto indica esplicitamente anche il titolo del testo di Sloterdijk che non esorta a trasformare, bensì a cambiare la propria vita (Tu devi “cambiare” (ändern) la tua vita).

L’antropogenesi non è una tecnica acrobatica d’innalzamento verso l’alto basata sul controllo delle emozioni. Piuttosto è un processo formativo che inizia subito dopo la nascita biologica grazie alle relazioni di cura della madre nei confronti del neonato[13] e che prosegue nelle pratiche di emotional sharing.

Konrad Lorenz ha distinto un comportamento innato, già presente alla nascita, e un comportamento acquisito. I comportamenti innati sono quelli che consentono a un anatroccolo, che è appena uscito dal guscio dell’uovo, di correre, nuotare, filtrare il fango col becco, pulire e ingrassare le proprie piume. Il comportamento acquisito è invece influenzato dalle sue prime esperienze e si determina entro un lasso temporale piuttosto breve, che nell’anatroccolo è di circa 36 ore. Dopo di che diventa irreversibile. È il fenomeno dell’“imprinting” che colpì Lorenz fin da piccolo: un anatroccolo identifica la madre con il primo oggetto in movimento che incontra una volta uscito dall’uovo[14]. Le esperienze successive alle 36 ore iniziali non riescono più a mettere in discussione questo imprinting che perciò diventa un marchio indelebile. Di conseguenza, in un breve periodo di tempo, l’ordine del sentire dell’anatroccolo assume una forma irreversibile. Nella maggior parte degli organismi animali lo sviluppo, dalla cellula ovarica fecondata fino all’individuo completo, è un processo influenzato da fattori genetici ed ambientali che si irrigidisce poco dopo la nascita con il raggiungimento di una forma compiuta.

Se è vero che la vita, come dimostra l’epigenetica di Eva Jablonka[15] e Denis Noble[16], non interrompe del tutto il processo formativo dei diversi esseri viventi neppure dopo la nascita biologica, questo processo assume nell’umano una forma particolarmente plastica. Nell’umano la plasticità epigenetica viene portata alle estreme conseguenze: diventa antropogenesi, che è influenzata in prevalenza da fattori culturali mediante pratiche di emotional sharing.

Ciò muta profondamente il significato stesso dell’esperienza. Nell’antropogenesi l’esperienza plasma direttamente la fisionomia e la forma esistenziale dell’umano. L’umano si fa nel fare esperienza. Prima ancora di sedimentarsi in una abitudine, l’esperienza è una novità che feconda, lascia un segno, tocca, trasforma. Una novità che offre uno spazio ulteriore alla nascita del nuovo in me.

Ciò che rende possibile all’esperienza di plasmare la forma umana è il desiderio. Il desiderio permette di empiricizzare l’apriori kantiano, consente di compiere un’eresia dal punto di vista kantiano: rendere trascendentale un certo tipo di esperienza. Ci sono certe esperienze che ci toccano e che toccandoci ci modellano attraverso il desiderio.

 

2.2 Venire al mondo senza aver finito di nascere

È veramente impressionante osservare come un puledro riesca a reggersi in piedi e a camminare già dopo un paio di ore dalla nascita. Il puledro, infatti, nasce con uno schema corporeo già funzionante. Continuerà a “nascere” anche dopo essere venuto al mondo, ma in un senso molto limitato. Invece l’umano nasce incompiuto e senza gli strumenti necessari per sopravvivere.

Se qualcuno mi chiedesse che cosa è la prima cosa che mi viene in mente pensando alla differenza fra un neonato umano e di un altro mammifero risponderei: il pianto. Un puledro appena nato di solito non piange, e lo stesso si può dire anche per gli altri animali non umani. Un neonato invece, appena viene alla luce, piange. Il neonato di un puledro non ha bisogno di piangere perché possiede fin dall’inizio uno schema corporeo (Leibschema), tanto da essere in grado, nel giro di poco tempo, di coordinare i propri movimenti per tentare di reggersi in piedi. Per il puledro la cosa più importante è quella d’imparare a camminare il più rapidamente possibile. Invece per un neonato umano la cosa più importante è quella di stabilire una condivisione emotiva stabile con una figura materna che possa prendersi cura di lui. Per questo piange. L’esistenza del neonato prende forma attraverso pratiche di emotional sharing che culminano in forme di «sintonizzazioni affettive» con la madre.

La prima cosa che salta agli occhi è che nell’umano il fenomeno dell’imprinting, e con esso il concetto di comportamento acquisito, muta radicalmente. È come se il fenomeno dell’imprinting diventasse dinamico e venisse diluito lungo l’arco di tutta l’esistenza. Sicuramente nell’umano le prime esperienze sono importanti, ma anche quelle successive possono svolgere un influsso decisivo e modificare il quadro creato da quelle precedenti.

L’umano nasce con un apparato digerente che è già in grado di metabolizzare il latte, ma privo di un ordine del sentire capace di gestire la propria sfera affettiva. Il suo sentire e le sue emozioni inizialmente si sviluppano e crescono solo grazie alle relazioni di cura e alle pratiche di emotional sharing rese possibili dalla figura materna e successivamente dalle relazioni sociali. È solo in conseguenza di questa crescita del sentire che emerge un orizzonte di senso.

L’esistenza umana non ha un senso preconfezionato. Ha solo delle possibilità di senso. La cultura è la grande incubatrice dell’antropogenesi che permette di dare all’esistenza umana quell’orizzonte di senso che non è incluso a livello biologico.

La forma dell’esistenza umana non è scontata. Il suo punto di partenza, su cui può sempre ricadere, è l’informe. L’esperienza del non senso di fronte all’informe fa scoprire che nella formazione umana non c’è un piedistallo biologico su cui appoggiarsi, in quanto la forma dell’esistenza umana è un risultato, e non un punto di partenza. Il bisogno psicologico di sicurezza ha indotto a pensare la forma dell’esistenza coma una sostanza o un’essenza predefinita. Invece senza un continuo esercizio di formazione, senza antropogenesi, l’esistenza umana si dissolverebbe e ricadrebbe nel non senso.

Gli animali non umani partono da una esistenza che è già codificata a livello biosemiotico. Invece per l’umano vivere è un mestiere impegnativo. Le farfalle e gli scoiattoli non hanno bisogno di fare filosofia; infatti, vengono al mondo con una struttura di senso già predeterminata. Invece l’umano ha bisogno di fare filosofia in quanto viene al mondo senza aver finito di nascere e privo di una forma esistenziale. Ha bisogno di fare filosofia perché, a differenza degli animali non umani, è gravato da un compito aggiuntivo: dare una forma a un’esistenza che originariamente non ha forma attraverso pratiche di emotional sharing capaci di coltivare e far crescere il proprio sentire.

Veniamo al mondo senza aver finito di nascere. Questo significa che non c’è un orizzonte di senso dell’esistenza che ci sia già dato automaticamente, fin dalla nascita, a livello biologico. Al centro dell’esistenza umana non c’è il problema di realizzare una forma prestabilita della specie umana o di riprodurre una pretesa essenza umana, immutabile ed eterna. Piuttosto c’è il problema di assumere una forma esistenziale, che manca alla nascita, senza potersi rifare a un modello universale. Non essendoci una natura umana fissa e già definita una volta per sempre, ogni umano rappresenta una nuova promessa che si rinnova nei confronti dell’umanità: una nuova Eva o un nuovo Adamo che, nel dare una forma alla propria esistenza, inaugura un nuovo percorso dell’umanità.

Siamo come funamboli che camminano su di una fune senza avere sotto una rete di sicurezza. Nel nostro caso, pertanto, vivere diventa un vero e proprio mestiere: il mestiere di vivere. Il “mestiere di vivere”, come tutti i mestieri, non è però un’attività arbitraria che si possa improvvisare, ma richiede un tirocinio e consiste nel dare una forma alla singolarità della nostra esistenza grazie alle relazioni di cura con l’altro e alle pratiche di emotional sharing. Un compito che non sempre riesce. Le sofferenze psichiche e tutta la psicopatologia ne è una dimostrazione. L’arte che, nel corso dei secoli, si è affinata nel tentativo di affrontare questa sfida è la filosofia intesa come esercizio di trasformazione.

 

2.3 Il desiderio. Neotenia e incompiutezza staminale

Nel secolo scorso il fatto di venire al mondo senza aver finito di nascere è stato interpretato come un difetto o una mancanza, da ricondurre alla tesi dell’“animale malato”, o nella migliore delle ipotesi a quella della neotenia o “infanzia cronica”, secondo cui l’umano è il risultato, come sostenuto da Louis Bolk, di un “parto prematuro”[17].

Il concetto di antropogenesi permette di superare definitivamente la tesi dell’”animale malato”[18] e di ripensare lo stesso concetto di neotenia in una nuova prospettiva. Il venire al mondo senza aver finito di nascere, privi cioè di una forma esistenziale predefinita, non è infatti un difetto o una mancanza. L’umano non è un animale mancante o malato, ma un animale “incompiuto”, e per questo capace di una plasticità proteiforme. L’antropogenesi va ripensata a partire dall’apertura resa possibile da questa incompiutezza: proprio grazie al fatto di essere incompiuto l’umano può prendere forma a livello culturale.

Alla base della mia singolarità non c’è un progetto già concluso, ma un “frammento di verità” che rimane vero solo nella misura in cui posticipa la condizione di completezza, in modo da poter continuare ad interagire con altri frammenti di verità. Il desiderio è desiderio di prolungare all’infinito l’interazione con i frammenti di verità di altre singolarità. La plasticità umana, e quindi l’antropogenesi, è legata all’azione del desiderio che con la sua insoddisfazione posticipa il più possibile la cristallizzazione della forma esistenziale, e in tal modo fa proseguire l’interazione dei frammenti di verità.

Affermare che l’umano viene al mondo senza aver finito di nascere – e che la sua caratteristica è quella di prolungare la propria nascita, al di fuori del grembo materno – significa dare una descrizione “neotenica” del processo di formazione umano. Una neotenia che tuttavia nell’umano si caratterizza per preservare una condizione “staminale”, più che “fetale”. Infatti, grazie al desiderio, l’esistenza mantiene un carattere “proteiforme” che ricorda quello delle cellule staminali. Nell’umano il prolungamento della nascita, al di fuori del grembo materno, è preso in carico dalle relazioni di cura e reso possibile dalle pratiche di emotional sharing, a partire da quelle che nascono fra il neonato e la madre. Lo sviluppo proteiforme non va in tutte le direzioni a caso, ma è orientato da queste relazioni di cura e dalle pratiche di emotional sharing.

In sintesi, il desiderio è un “principio neotenico” in quanto ritarda e posticipa l’irrigidimento dell’esistenza umana e mantiene aperta, nel senso del proteiforme, la vitalità del frammento di verità che ci definisce. È per questo che la singolarità personale rimane una “totalità incompiuta”[19], per certi aspetti una “totalità staminale”.

 

3. La coltivazione del desiderio

3.1 Analfabetismo emotivo e competenza emotiva

Come si è visto, l’antropogenesi implica un concetto radicale di trasformazione, in quanto orientata dal desiderio. Non un desiderio psicologico, pensato nella prospettiva di un sentire individuale, ma un desiderio che viene coltivato nelle pratiche di emotional sharing rivolte alle relazioni di cura. Al centro dell’ontologia della singolarità non c’è pertanto l’identità o la continuità di una sostanza individuale, e neppure una immagine innata (la ghianda di Hillman), bensì il desiderio che emerge dall’ordine del cuore, inteso come l’ordine del sentire proprio della singolarità personale.

Un desiderio e un sentire plastici. Eppure, il sentire – al contrario del pensiero, della consapevolezza e della conoscenza – è stato spesso considerato qualcosa di immutabile e di astorico. L’impressione è quella di un umano che progredisce solo nella conoscenza, ma non nel sentire. Questa convinzione è decisamente falsa. La caratteristica dell’umano è quella di nascere con un sentire estremamente plastico che prende forma sotto l’influsso di fattori ambientali e culturali. Il sentire è una pianticella che va coltivata e curata. È su questa plasticità del sentire che si fonda il processo di trasformazione dell’umano, cioè del processo antropogenetico che contraddistingue l’umano. Questa plasticità contraddice la presunta astoricità del sentire.

Lo stesso vale per le emozioni. Quando si pensa alle emozioni si pensa spesso a qualcosa di viscerale e di istintivo, qualcosa che parte dalla pancia e ci travolge, quindi qualcosa da evitare. In realtà queste catastrofi non derivano dall’emozione in sé, ma dalla mancanza di “competenza emotiva” e dal fenomeno dell’“analfabetismo emotivo”. Nell’esistenza umana, le emozioni possono travolgerci proprio perché rivelano una straordinaria plasticità e non sono più regolate dall’istinto. La plasticità delle emozioni non va “corretta” o “raddrizzata”, ma va coltivata in quanto le emozioni continuano a svilupparsi e a maturare anche molti anni dopo la nascita biologica.

Le emozioni svolgono una funzione decisiva nel dirigere il processo espressivo con cui la nostra esistenza prende forma nel mondo attraverso la società, la cultura e il linguaggio. Le emozioni fanno parte di noi e accompagnano ogni gesto ed esperienza della nostra vita. Alla luce di ciò, diventa essenziale comprenderle, conoscerle, e imparare a gestirle: sono la prima finestra sul mondo. Fin dalla prima infanzia è fondamentale allenare la competenza emotiva, che non va pensata in una prospettiva individualistica: non consiste solo nella capacità di riconoscere e nominare le proprie emozioni, ma soprattutto nella capacità di esprimerle e di condividerle.

 

3.2 La coltivazione del desiderio

Al momento della nascita biologica ci sono pulsioni, ma non c’è desiderio. E successivamente non viene fuori dal neonato come qualcosa di già compiuto, così come una novella Minerva, che nacque dalla testa di Giove già adulta e armata di tutto punto. Non è nemmeno un seme selvatico che germina da solo e si sviluppa per conto proprio. Piuttosto è acceso da una scintilla che da migliaia di anni, da quando l’umanità è nata, si trasmette di generazione in generazione non per via biologica, ma culturale, grazie alle pratiche di emotional sharing. Se questa scintilla non viene trasmessa nei primi dodici mesi di vita, il neonato ricade nella deprivazione affettiva descritta da Renè Spitz[20]. E anche una volta acceso, il desiderio ha bisogno di essere coltivato in un lento e faticoso processo di alfabetizzazione emotiva attraverso le relazioni di cura.

Pertanto, l’umano non entra nel mondo attraverso la nascita biologica, ma attraverso la nascita che viene accesa da questa scintilla. È da questa nascita che prende forma l’unicità di ogni Eva e ogni Adamo. Ciò che viene trasmesso, dunque, non è il desiderio, ma solo la scintilla che accende il desiderio come un fuoco. Tale trasmissione avviene per via maieutica, attraverso la testimonianza del desiderio dei genitori. Grazie a essa la figlia o il figlio vede che è possibile desiderare e ricostruire un orizzonte di senso che va oltre l’orizzonte autoreferenziale e conformistico del proprio sé sociale. Un orizzonte di senso che corrisponde alla nuova costellazione della propria fame di nascere.

Senza desiderio, il processo di atrofizzazione della singolarità personale non potrà che proseguire, fino a sostituire l’impegno, la speranza e la dedizione, necessari a costruire i legami sociali e una prospettiva per il futuro, con le diverse forme di depressione e di disturbi alimentari. Una volta ucciso il desiderio, queste forme di malessere si espandono fino a fagocitare il futuro. Una società rimane aperta solo nella misura in cui rimangono aperti spazi di comunità in cui agisce la spinta del desiderio. Senza questa spinta la società finisce per collassare sotto il peso della propria prospettiva autoreferenziale e diventa una società chiusa. Nell’attuale era narcisista[21], la questione al centro della democrazia è quindi la coltivazione del desiderio.

 

3.3 Cura del desiderio e relazioni di cura

La lingua inglese, al contrario di quella italiana, distingue con accuratezza fra “cure” e “care”. La “cure” è rivolta a persone malate o bisognose, ed è principalmente intesa come un’attività che mira a medicalizzare una patologia, o a compensare una mancanza o disabilità. Invece la “care” evoca l’atto del “coltivare” e comprende tutte le attività che promuovono la fioritura della vita di una persona[22]. Va subito precisato però che ci sono anche zone ibride e inoltre non c’è una unica cure e una unica care, ma diversi tipi di cures e cares.

L’origine filosofica del concetto di “care” risale all’Alcibiade I di Platone. Per il Socrate platonico la caratteristica fondamentale della “giusta cura” non è quella di medicalizzare una patologia o di compensare una mancanza, ma di “rendere migliori” (Alcibiade I, 128d). Inoltre, la epimeleia heautou non è una cura intimistica rivolta al soggetto autoreferenziale, bensì una care che si rivolge all’anima (epimeleia tes psyches) con il fine di coltivarla per renderla migliore. Infine, la dimensione sociale e politica della cura è ampiamente valorizzata da Platone con l’analogia fra la tripartizione dello stato e dell’anima, e fra la cura dello stato e la cura dell’anima. Per Platone l’individuo non è un’isola separata dalla società in cui vive.

Com’è noto, la prospettiva filosofica della epimeleia heautou è stata riportata in auge alla fine del Novecento in particolare da Pierre Hadot e dall’ultimo Foucault[23]. Una prospettiva che però non ha mancato di sollevare paure e sospetti, tanto che il tentativo di ridare una dignità culturale alle attività di care o di teorizzare una filosofia della care sono stati guardati a lungo con sospetto, come se fossero espressioni ideologiche di un ripiegamento intimistico nella sfera del pre-politico[24].

Si tratta di pregiudizi che riflettono una concezione novecentesca della politica, secondo cui le trasformazioni sociali passano esclusivamente attraverso il partito o il collettivo politico. L’idea di fondo è che il centro propulsivo delle società umane sia rappresentato esclusivamente dai mezzi di produzione economica e dalla produzione di ricchezza economica, senza tener presente che per la sopravvivenza di una società le pratiche di care sono altrettanto importanti dei mezzi di produzione.

Non esistono società umane prive di care. Se ci limitassimo ad accudire i neonati nel senso dei bambini istituzionalizzati osservati da René Spitz[25], quindi esclusivamente nel senso della cure e non della care, questi non potrebbero diventare individui capaci di camminare, di parlare o di avere una minima vita sociale e pertanto la società umana sarebbe destinata all’estinzione nel giro di poco tempo. Non potrebbe esistere nessuna società umana perché si interromperebbe la trasmissione da generazione in generazione della scintilla del desiderio, quella scintilla che rende possibile il salto verso il pensiero simbolico. Dalla qualità di questa care dipende la forma della società umana e pertanto il futuro di ogni civiltà. La trasformazione sociale non può prescindere da una care del desiderio, che merita pertanto di essere posta al centro e non ai margini dell’iniziativa culturale, sociale e politica.

Solo negli ultimi decenni – grazie alle etiche della cura femminista – è stata riconosciuta l’importanza e la centralità della care per qualsiasi società[26]. Come osserva Joan Tronto, una delle voci più significative dell’etica della cura, per lungo tempo tutto ciò che aveva a che fare con la care è stato relegato ai margini della società, tanto che le attività legate alla care sono di solito, ancora oggi, sottopagate e riservate alle donne o a categorie emarginate.

Per questi motivi, al termine di “cura” preferisco l’espressione “relazioni di cura”. Questo consente di evitare fin dall’inizio i possibili fraintendimenti di una “cura sui” solipsistica.

 

3.4 Il ghigno del folle come pietrificazione della forma

Il rapporto fra desiderio e forma esistenziale dell’umano è particolarmente evidente nel caso del modus vivendi dell’ossessivo che è caratterizzato da una forma patologica di disgusto generalizzato verso ogni cosa. Finora in filosofia la funzione del disgusto è stata, con poche eccezioni, sottovalutata[27]. Il disgusto, nella sua essenza, è una spontanea reazione di difesa nei confronti di tutto ciò che viene percepito come “marcio” o coinvolto in un processo di “putrefazione”. Quando una forma vivente smette di vivere la sua forma si decompone e marcisce. “Marcire” deriva dal verbo latino “morire”. La “putrefazione” è un processo diametralmente opposto a quello originato dalla fame di nascere: in un caso c’è decomposizione attraverso la morte, nell’altra creazione di forma vitale attraverso la nascita. Nella putrefazione il disgusto percepisce il deperimento di una forma vitale. È vero che il brulicare dei vermi in un cadavere di un uccello può essere interpretato come un’esplosione di vita; tuttavia, suscita disgusto in quanto mi identifico con il cadavere e non con i vermi.

Il disgusto generalizzato che caratterizza il modus vivendi dell’ossessivo è il modo di essere di un individuo che ha paura di perdere la propria forma esistenziale in conseguenza del blocco della fame di nascere. La fame di nascere produce forma esistenziale attraverso il desiderio. Senza la fame di nascere, la propria forma esistenziale non si rinnova e rischia di essere compromessa da qualsiasi forma di contagio. Da qui l’ossessione del contagio. L’ordine del cuore è l’organo che posiziona la singolarità personale nel mondo e produce enattivamente forma esistenziale[28]. Nell’ossessivo si verifica un disturbo enattivo dell’ordine del cuore. Il disgusto è una delle poche risorse enattive che rimangono a disposizione di un’esistenza privata della capacità di rinnovare la propria forma esistenziale: attraverso il disgusto la persona ossessiva si aggrappa a quel poco di forma che le è rimasta e prende le distanze da tutto ciò che potrebbe metterla a repentaglio.

Infine, si può osservare che in alcuni casi patologici, in cui si verifica un blocco totale della fame di nascere, non c’è solo disgusto per ciò che accade attorno, ma anche inquietudine per ciò che ribolle nell’interiorità. In mancanza di una fame di nascere, c’è il rischio che i vissuti che premono per manifestarsi non vengano metabolizzati e quindi rimangano informi. In questo caso il disgusto, provocato dalla paura di vedere contaminata la propria forma esistenziale, è accompagnato dalla pietrificazione della propria esistenza interiore causata dall’incapacità di metabolizzare l’informe. Non si tratta dell’esperienza del rimanere senza parole o del non trovare le parole giuste, ma del rimanere pietrificati nel corpo. Ciò che pietrifica è la paura di esprimere l’informe. Qui è il corpo stesso che si contrae. Il ghigno del folle è la contrazione del viso che tenta di bloccare l’espressione dell’informe. La paura di esprimere l’informe, l’osceno e il folle, pietrifica il corpo. Pur di non esprimere l’informe, l’esistenza si contrae nel ghigno del folle ed esprime la propria pietrificazione.

 

4. L’essere toccati dal mondo

4.1 Il sentire è ciò che dà forma alla mia esperienza e alla mia esistenza

Come sarebbe una esperienza senza il sentire? Se vengo privato del sentire non posso interagire con il piano espressivo della vita, non posso posizionarmi nel mondo, non sono più un corpo-vivo, di conseguenza perdo il senso della realtà. Senza il sentire mi troverei immerso in un mondo neutrale. Tutto ciò che mi circonda perderebbe senso e valore.

Il sentire è la matita che colora e dà una forma alla mia esperienza. Colorare il mondo equivale a renderlo non neutrale. L’esperienza è la lettura non-neutrale del mondo da parte del mio sentire, la forma che assume il mio sentire interagendo con il piano espressivo e partecipando al mondo. Senza il sentire, la realtà si ridurrebbe a un mondo geometrico o minerale, come in un paesaggio lunare. Un mondo in bianco e nero, privo di profondità.

Il sentire determina la mia esperienza, ma contemporaneamente tutto quello che esperisco forgia retroattivamente la fisionomia della mia singolarità, cioè dell’ordine del mio sentire. Infatti, il sentire non solo determina la mia esperienza, ma esprime e dà forma alla mia singolarità nel fare esperienza.

 

4.2 Il patico

Con “patico” intendo l’esperienza del sentirsi toccati dal mondo. Faccio esperienza del patico quando inciampo sullo scoglio dell’esperienza e sono costretto a mettere in discussione la mappa mentale entro cui avevo navigato fino a quel momento[29]. Il patico è ciò che è “toccante”, e che essendo “toccante”, lascia un segno indelebile. Vivo nella misura in cui la mia esistenza prende forma attraverso il patico.

Hemingway osserva che il «mondo spezza tutti e poi molti sono forti nei punti spezzati. Mentre chi non viene spezzato, viene ucciso»[30]. In realtà il mondo non spezza tutti, ma solo chi si apre a esso. Tuttavia, in alcuni casi, la rottura causata dal contatto con la vita ha l’effetto di forgiare e trasformare. Ed è proprio in tal caso che alcuni poi diventano forti proprio nel punto in cui erano stati spezzati. Invece il mondo uccide inesorabilmente chi non si apre a esso, chi rimane chiuso in sé stesso e si isola.

Il mondo spezza tutti quelli che si espongono al rischio patico di essere toccati; ma, in questo toccare, il mondo frantuma il sistema immunitario autopoietico e permette di fare esperienza. Spezza tutti quelli che si emozionano; ma questo emozionarsi permette di rinascere, di sentire la pienezza della propria vita, di respirare tutto l’amore di cui necessita il desiderio per poter germinare. Ritrovandosi così con qualcosa che prima non aveva.

 

4.3 Gli “scalpelli” dell’emozione personale e l’esperienza esemplare

Che cosa succede in quel sentirsi toccati in profondità dal mondo? Perché ha un effetto così dirompente? Il sentire e l’esperienza non sono processi epistemologici che mi attraversano in modo neutrale e indolore. Non mi trovo di fronte al nudo dato conoscitivo in sé. Quel sentirsi toccati in profondità segnala che quel toccare sta agendo su di un piano diverso da quello epistemologico: sta agendo in un senso formatore, antropogenetico, cioè malleando la mia singolarità.

Appena, nel sentirmi toccato, scintilla una nuova connessione con il mondo, ecco che allora gli “scalpelli” dell’emozione si mettono subito in azione per dare una forma alla parte della mia esistenza che ancora non aveva finito di nascere. Questa azione modellante dell’emozione personale riguarda il nucleo più profondo della libertà della singolarità personale.

Metabolizzando l’esperienza, gli scalpelli dell’emozione personale scolpiscono la fisionomia dell’ordine del cuore. Ogni esperienza significativa che mi tocca viene metabolizzata in un ulteriore tassello del processo espressivo della mia fisionomia o nella cicatrice, nello sfregio di una deturpazione. A ogni esperienza significativa corrisponde pertanto una riconfigurazione e un arricchimento della fisionomia della singolarità. L’esperienza esemplare viene innalzata così a schema di ogni possibile ulteriore esperienza dello stesso tipo. Le esperienze esemplari diventano abiti che orientano il modo futuro di fare quell’esperienza. Ma sono abiti che sono cuciti dall’ordine del cuore. Nel cucirli, l’ordine del cuore imprime su di essi il suo stile. Il che rende la singolarità responsabile del livello di profondità con cui metabolizza le proprie esperienze. Lo schema ricavato da un’esperienza esemplare non solo condiziona dinamicamente ulteriore esperienza, ma riflette la fisionomia della persona che lo esercita: agisce così sia sul piano percettivo e conoscitivo sia su quello antropogenetico.

Esperire a questo livello non significa rappresentare o oggettivare qualcosa, ma trasformarsi e singolarizzarsi. I morsi della fame del bisogno spingono a prevedere gli eventi e a cercare di dominare il mondo. Invece i morsi della fame di nascere non sono finalizzati a oggettivare e manipolare il mondo esterno, ma spingono a trovare lo spazio per proseguire la propria nascita.

Conferire allo sviluppo affettivo della persona un significato antropogenetico comporta un radicale ripensamento dello stesso concetto di sentire e di emozione che, da dinamiche umorali della sfera interiore, assurgono a forze reali che danno forma allo sfondamento emozionale nel mondo che caratterizza la persona. Il sentire e le emozioni non sono un attributo secondario o una coloritura evanescente della mia soggettività, ma ciò che dà forma alla mia esistenza.

 

5. Conclusioni. Mestiere di vivere e intelligenza artificiale

L’umano ha davanti a sé due modi completamente diversi di superarsi: c’è un superamento tecnologico, tanto che si può ipotizzare che l’umano alla fine sostituirà completamente il suo corpo per trasferirsi in un cyborg; e ce n’è uno molto più antico, che consiste nel “mestiere di vivere”, ed è rappresentato dai tentativi compiuti da ogni umano, fin dagli albori della propria origine, di dare una forma alla propria esistenza. Affidare le sorti dell’umanità solo alla prima via, dimenticando che l’umano, da sempre, ha sperimentato una forma di trasformazione ben più radicale e decisiva – nel senso del rinnovamento individuale e sociale – sarebbe catastrofico. Accanto al superamento meramente biotecnico o bionico, va dunque mantenuta memoria anche di una trasformazione antropogenetica.

Non c’è solo il “superamento” dell’umano ipotizzato dalle diverse forme di postumanesimo. C’è anche il “superamento” basato sulla plasticità del sentire e delle emozioni. Oggi questa “seconda via” è oscurata dai prodigi e dalle aspettative sempre più allettanti offerte dalla AI[31]. In questa direzione si muovono le versioni più radicali del postumanesimo.

Secondo Ray Kurzweil, la singolarità è dietro l’angolo[32]. Essa apparirà nel momento in cui l’intelligenza artificiale supererà quella umana, dando origine a una nuova forma di vita superiore. Concepire questo passaggio dall’umano al postumano nei termini di una evoluzione cosmica verso una “forma di vita superiore” denota una pericolosa sottovalutazione dei rischi.

Quello che caratterizza queste discussioni sulla AI è il tentativo di misurare il superamento dell’umano esclusivamente in termini di “intelligenza”: nel bene e nel male tale superamento avverrà nei termini di una intelligenza superiore, o appunto di una superintelligenza[33]. Lo stesso concetto di “AI” si riferisce espressamente solo all’intelligenza. Quello che rimarrebbe indietro, in tale “superamento cosmico”, è il sentire. La domanda che non ci si pone è se una superintelligenza priva di “sentire” rappresenti veramente una evoluzione e non possa invece rivelarsi una “involuzione cosmica”.

Il concetto di “singolarità personale” indica qualcosa di molto diverso dalla “singolarità postumana”. La coltivazione del desiderio rappresenta una via di trasformazione dell’umano che si basa principalmente sulla plasticità del sentire. Ciò non significa sottovalutare l’intelligenza artificiale, ma casomai porre il problema della relazione fra intelligenza e sentire. Altrimenti si aprono le porte a una trasformazione che avverrà attraverso una intelligenza artificiale che esclude la plasticità del sentire. Questo però comporterebbe una vera e propria soppressione della forma umana. Il termine post-umano, da questo punto di vista, risulterebbe solo un imbarazzante eufemismo. Non si tratterebbe infatti di una “evoluzione cosmica” dall’umano al post-umano, ma piuttosto di una vera e propria eliminazione dell’umano da parte di una nuova entità, sicuramente più evoluta dal punto di vista tecnologico ma estremamente primitiva dal punto di vista del sentire. Il pericolo è reale per un dato di fatto molto semplice: l’umano è un essere che viene al mondo privo di una forma esistenziale prestabilita; privo di un ordine del sentire. L’instabilità della forma esistenziale lo espone a un rischio di estinzione completamente nuovo. In altri termini l’estinzione dell’umano non necessariamente ripeterà lo schema delle estinzioni delle specie biologiche finora avvenute su questo pianeta. Non necessariamente avverrà a causa di una catastrofe naturale, una epidemia o una guerra. L’estinzione umana potrebbe derivare da una estinzione del suo sentire, del desiderio che modella la sua forma. Questo si verificherà se il processo di formazione (Bildung) basato sulla plasticità del sentire verrà completamente dimenticato a favore di una trasformazione puramente tecnologica. A quel punto il post-umano sarà rappresentato da un cyborg con una struttura affettiva ed emotiva molto limitata e del tutto finalizzata al dominio. In pratica non sarà più un ens amans.


[1] Per un approfondimento delle tematiche trattate in questo contributo mi permetto di rinviare a G. Cusinato, Periagoge. Theory of Singularity and Philosophy as an Exercise of Transformation, Brill, Leiden 2023.

[2] L. Carroll, Alice’s Adventures in Wonderland, Candlewick, Somerville (MA) 2003.

[3] J. Locke, Saggio sull’intelletto umano (1689), tr. it. Bompiani, Milano 2004, cap. 29, § 16.

[4] Sul concetto di identità personale cfr. B. Williams, Problems of the self, Cambridge University Press, Cambridge 1973; H.W. Noonan, Personal identity, Routledge, New York 1989; M. Di Francesco, L’io e i suoi sé. Identità personale e scienza della mente, Raffaello Cortina, Milano 1998.

[5] D. Parfit, Reasons and persons, OUP, Oxford 1984.

[6] Sulla distinzione fra “singolarità personale” e “sé sociale” rinvio a G. Cusinato, op. cit.

[7] M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1993.

[8] J. Hillman, Il codice dell’anima (1996), tr. it. Adelphi, Milano 1997, p. 27.

[9] J. Hillman, op. cit., p. 23.

[10] P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita (2009), tr. it. Raffaello Cortina, Milano, 2010.

[11] G. Cusinato, Per un’antropologia filosofica dell’emotional sharing, in Trasformazioni del concetto di umanità, a cura di C. Di Martino, R. Redaelli, M. Russo, Inschibboleth, Roma 2020, pp. 87-116.

[12] J.W. Goethe, Schriften zur Morphologie, Hofenberg, Berlin 2016.

[13] D. Stern, Le interazioni madre-bambino nello sviluppo e nella clinica, Raffaello Cortina, Milano 1998.

[14] K. Lorenz, L’anello di re Salomone (1949), tr. it. Adelphi, Milano 1967.

[15] E. Jablonka, M.J. Lamb, Evolution in Four Dimensions: Genetic, Epigenetic, Behavioral, and Symbolic Variation in the History of Life, MIT Press, Cambridge (MA) 2005; E. Jablonka, Cultural Epigenetics, in «The Sociological Review», 64, 2016, pp. 42-60.

[16] D. Noble, Dance to the Tune of Life: Biological Relativity, Cambridge University Press, Cambridge 2016.

[17] L. Bolk, Das Problem der Menschwerdung, Fischer, Jena 1926.

[18] Tale tesi compare nell’opera di Nietzsche Zur Genealogie der Moral, e successivamente viene sviluppata nell’antropologia di Arnold Gehlen.

[19] Cfr. G. Cusinato, La Totalità incompiuta. Ontologia della persona e antropologia filosofica, FrancoAngeli, Milano 2008.

[20] R. Spitz, Il primo anno di vita del bambino (1958), tr. it. Giunti, Milano 2009.

[21] Ho qui presente E. Lasch, La cultura del narcisismo (1979), tr. it. Neri Pozza, Milano 2020.

[22] Cfr. ad es. M. Mayeroff, On Caring, Harper Perennial, New York 1990.

[23] Foucault sottolinea più volte che la epimeleia heautou «oltrepassa ampiamente l’ambito delimitato dalla sola attività di carattere conoscitivo», M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto (1982), tr. it. Feltrinelli, Milano 2003, p. 75. Essa non designa un semplice atteggiamento dello spirito, ma piuttosto un esercizio, una attività che porta alla trasformazione del sé, M. Foucault, op. cit., pp. 74-75. Questa trasformazione richiede un lavoro interiore, che implica la conoscenza di sé e la padronanza di sé.

[24] Va sottolineato che Foucault non intende la cura di sé come un ripiegamento nella dimensione pre-politica, ma al contrario, come una forma di resistenza all’ordine politico e sociale, un modo di dare forma all’esistenza in modo alternativo alle tecniche del potere. Il vero limite di Foucault, ma anche di Sloterdijk e di tanti altri, è piuttosto quello di rimaner ancorati a una concezione “individualistica” del sentire stesso, senza accorgersi che gli esercizi di trasformazione dell’individuo non si fondano sul sentire, ma piuttosto sulla condivisione del sentire: non fanno riferimento al sentire del soggetto, ma passano invece attraverso pratiche di emotional sharing. Per un approfondimento di questo aspetto rinvio a G. Cusinato, Periagoge, cit.

[25] Sugli effetti devastanti della deprivazione affettiva nei bambini istituzionalizzati, cfr. ad es. R. Spitz, op. cit.

[26] Mi riferisco in particolare a N. Noddings, Caring, A femminine approach to ethics and moral education, University of California Press, Berkeley and Los Angeles 1984; J. Tronto, Moral Boundaries: A Political Argument for an Ethic of Care, Routledge, New York 1993.

[27] Sul disturbo ossessivo cfr. V.E. von Gebsattel, Die Welt des Zwangskranken, in «Monatsschrift für Psychiatrie und Neurologie», 99, 1938, pp. 10-74; Sul disgusto cfr. A. Kolnai, Il disgusto (1929), tr. it. Marinotti, Milano 2017.

[28] Su questo punto rinvio a G. Cusinato, Biosemiotica e psicopatologia dell’ordo amoris, FrancoAngeli, Milano 2018.

[29] Sul concetto di patico cfr. V. von Weizäcker, Patosophie, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 2005.

[30] E. Hemingway, Addio alle armi (1929), tr. it. Mondadori, Milano 2016.

[31] Cfr. ad es. P. Domingos, The Master Algorithm: How the Quest for the Ultimate Learning Machine Will Remake Our World, Allen Lane, Bristoll 2015; S. Russel, P. Norving, Artificial Intelligence: A Modern Approach, Pearson, London 2016.

[32] R. Kurzweil, La singolarità è vicina (2005), tr. it. Apogeo, Milano 2008.

[33] Cfr. ad es. Nick Bostrom, Superintelligence: Paths, Dangers, Strategies, OUP, Oxford 2014.

 

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