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Forma, forme e metamorfosi

Autore


Maddalena Mazzocut-Mis

Università di Milano

Professoressa Ordinaria di Estetica presso l’Università di Milano

Indice


1. Premessa
2. L’autonomia delle forme e il loro destino
3. Le forme e la loro storia
4. La tecnica 
5. I risvegli formali 
6. Conclusione

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S&F_n. 30_2023

Abstract


Shape, forms and metamorphosis

The essay delves into French aesthetics, examining the perspectives of key figures such as Étinne Souriau, Raymond Bayer, Henri Focillon, and Jurgis Baltrušaitis on the role of form in art. Focillon and Baltrušaitis underscore the autonomy and morphological nature of form, recognizing its identity and function independently. The conceptual distinction between the process of transforming forms into signs and the life of forms allows for the continuous attribution of new meanings, infinite variations, and the creation of a unique narrative. The essay contends that the suspension of the artist in favor of perceiving art as a product of impersonal energies materializing into evolving forms is an enduring tendency. Art, in this view, emerges not solely from the artist’s will but also from the imposition and life of forms.

Le sang, c’est de la chair coulante.

Victor Hugo

 

1. Premessa

«La forma è spesso deplorata, perlomeno minimizzata: il fondo ha la meglio; non sarebbe servita che a rinchiuderlo, come in un involucro, a proteggerlo e a volte anche a nasconderlo. Inoltre, ciò che attesta la sua povertà è che cambia per un nonnulla; il pezzo di cera, commentato da Cartesio, evidenzia il concetto; al minimo calore fonde e il solido diventa liquido. Solo la sostanza rimane e resiste»[1]. Le parole di François Dagognet, scritte nel 2001, suonano da monito. Dagognet, che nel 1975 aveva scritto Pour une théorie générale des formes[2], affermava che sarebbe stato vano cercare una definizione della parola “forma”. Eppure, da Étinne Souriau a Raymond Bayer[3], da Henri Focillon a Jurgis Baltrušaitis[4], l’estetica francese della prima metà del Novecento era stata l’estetica dei formalismi, individuando la funzione caratteristica dell’arte nella sua natura morfologica.

Un affondo in questo mondo, che oggi torna a essere nuovamente frequentato dopo una pausa di anni, può ridare linfa allo studio delle forme e aprire nuove prospettive, al di là di una archeologia della teoria morfologica.

Il pensiero di quegli anni fecondi andava alla ricerca di una fondazione della morfologia come scienza autonoma. La forma doveva svincolarsi dalla sua funzione di involucro e incarnare, nel vero senso della parola, il ruolo di protagonista. Per rendere autonoma la forma non tanto dal fondo – il rapporto fondo-forma rimane problematico e non risolto – la prima operazione che ai tempi venne ritenuta indispensabile fu quella di limitare e perfino emarginare la sfera di una imperante soggettività. La supremazia del genio e della sua “ispirazione” venivano espugnati e non rappresentavano più l’unico orizzonte di riferimento della storia dell’arte. Questo passo non era scontato in una Francia dominata da retaggi romantici e dal pensiero di Henri-Louis Bergson. L’estetica doveva cambiare volto: non più una sorta di appello all’illuminazione ma il manifestarsi delle forme obiettive, che non comportava nulla d’indeciso o di misterioso.

 

2. L’autonomia delle forme e il loro destino

Dal punto di vista teorico, è Souriau il fautore di questo profondo cambiamento[5]. La sua concezione di una esperienza estetica realistica e razionalistica, si fonda sull’idea che lo spirito non è concepito come l’antagonista della materia, ma come l’atto la cui potenza è quella di entrare in contatto con l’oggettività. Lo spirito è imprescindibilmente legato alla materia e la forma è materia in quanto immediatamente spirito.

L’arte allora viene vista come attività “instaurativa”, intesa come insieme di momenti e di procedimenti che conducono un essere «dal caos iniziale fino all’esistenza completa, singolare, concreta»[6], dal nulla a una presenza indubitabile. Quello dell’arte è uno sforzo cosmologico-architettonico, una costruzione dello spirituale nel cosmo, che tuttavia non cancella la distinzione tra artista e opera, tra agente e prodotto. L’instaurazione mette in chiaro i processi di concretizzazione delle forme in tutti i domini ontologici (il mondo fisico, l’arte, la filosofia, la cultura, ecc.) in cui troviamo categorie che vengono utilizzate per definire i caratteri estetici, come ad esempio la bellezza.

Per antonomasia, allora, l’arte ha una funzione morfologica di instaurazione. Le azioni dell’artista instaurano nuove entità nel processo di fragile consolidamento della forma, sempre suscettibile di cambiamento. Tali tematiche potentemente espresse incontrano il divenire delle forme, la loro metamorfosi e necessariamente i temi della tecnica e del fare artistico nella loro concretezza fattiva e tattile.

Se la prospettiva di Souriau mira dunque «alla costruzione di un’esistenza formale cosmicamente realizzata», quella di Bergson teorizza invece «il suo impressionistico frantumarsi nel tempo-durata»[7]. È Souriau stesso ad affermare che «per Bergson (Evolution créatrice) è proprio dell’essenza della forma l’essere “un’istantanea presa su una transizione”. Perciò egli le nega ogni realtà. [...] “Ciò che è reale, aggiunge Bergson, è il cambiamento continuo di forma”». Al contrario Souriau non vuole indagare se la forma istantanea sia o no reale, ma dimostrare che essa «possiede almeno il coefficiente di positività, di resistenza allo spirito che ogni scienza deve esigere dal proprio oggetto»[8]. È in questa affermazione che risiede l’elemento fondativo della nascita di una scienza delle forme. Si parla di forme proprio «là dove vi è cosa», mentre dove «il carattere “cosale” fa difetto», ci si chiede se si possa ancora avere il diritto di usare il termine forma[9].

Se queste sono le linee teoretiche che in quegli anni vengono indagate, sul versante della storia dell’arte, Focillon lavora per fondare una morfologia capace di scolpire il senso della cosa, assicurandone l’identità. La distinzione tra forma e materia, forma e contenuto diventa per Focillon artificiale e priva di significato: non si ha a che fare con un epifenomeno, con una sovrastruttura. La forma appare come momento costitutivo che si oggettiva attraverso una molteplicità di fattori. È quindi autonoma nel suo farsi ed è sempre il risultato di un’azione poietica e di una tecnica.

Lo spazio in cui al soggetto è concesso di riapparire si rivela proprio quello del “fare”. Il tocco dell’artista è il segno essenziale della sua presenza nella vita delle forme. L’oggettività del materiale, che è già forma, non si sottopone a una libera ed estemporanea soggettività creativa. Per Focillon il costituirsi dell’opera è un creare nel senso che l’artista è strumento fabbrile della forma. Il creatore fissa in una forma ciò che la storia stessa delle forme gli impone.

L’opera è dunque in primo luogo un “oggetto”, caratterizzato da una particolare forma e materia e inserito in uno spazio specifico. Non può vivere come per Bergson in un flusso mistico e coscienziale, ma nel divenire concreto delle cose. Ogni materia è già forma e ogni forma è sempre materia, è “cosa plasmata”. La vita di un’opera si stabilizza solo quando diventa una forma esteriore e proprio tale acquietarsi la distingue dalle immagini del sogno, dalle immagini fantastiche e mobili dell’immaginazione.

Focillon sa benissimo che la storia delle forme non può prescindere dalla vita delle altre manifestazioni della cultura, sebbene la veda come costitutiva di un “quarto regno”, autonomo nel suo principio e separato dalle altre sfere della vita sociale. Egli vede bene che il problema è duplice. Da una parte “interno”, nel senso che è necessario individuare lo svilupparsi di una forma o, più nello specifico, di un’opera, a partire da uno sviluppo formale generale. Dall’altra “esterno”, riferibile al rapporto tra tale sviluppo e gli altri aspetti dell’attività culturale e sociale dell’uomo. A un livello diacronico se ne sovrappone uno sincronico, che consente a Focillon di evitare il determinismo riduzionistico e l’assoggettamento a un sistema del tutto estraneo a quello formale. Ciò significa che per Focillon «la cultura è un campo di forze dove le forme sono sottomesse a tensioni multiple che orientano le loro trasformazioni»[10], orientano, ma non determinano.

Ovviamente, Focillon riconosce che ogni epoca dell’arte ha una sua impronta fortemente caratteristica, che rimane impressa nella memoria[11]. Eppure, è anche pronto a ribadire che l’arte e l’artista si allontanano dalla loro missione sociale in nome di un compito più alto che risiede e si evidenzia nella stessa autonomia morfologica. Se si libera l’arte da qualsiasi significato estrinseco, da qualsiasi scopo, ponendola come fine a se stessa, «come sua ragione d’essere, legittima e sufficiente», non la si colloca forse su un piano più alto, «sul piano veramente divino?»[12]. Ma il dio-artista di Focillon non è un genio sregolato. È piuttosto vittima di una legge più alta di lui, una legge suprema per l’arte: la legge delle forme.

L’autonomia morfologica è sia un elemento acquisito a priori (e qui risiede il suo fondamento) sia un risultato, una conquista. L’autonomia è la realizzazione di una necessità e mai un arbitrio. L’arte non è portatrice di un mistero da decifrare. Essa non evoca nulla che non sia già inscritto nella sua forma e nelle sue leggi. Non vi è quindi nemmeno l’esigenza di scindere un momento storico-genetico da uno più propriamente formale, poiché l’unica genesi che l’opera d’arte riconosce è quella delle forme.

Ma attenzione: a forme determinate non corrispondono mai significati determinati. «La forma rimane», ciò che la «riempie» si «perde»[13]. Una forma non ha dunque un solo senso poiché ne ha sempre più di uno (in sintesi non ha nessun senso concettuale attribuito in modo necessario).

Il segno significa, mentre la forma si significa. [...] La forma ha un senso, ma che è tutto suo; un valore personale e particolare che non bisogna confondere con gli attributi che a questo vengono imposti. Essa ha un significato e riceve delle accezioni. Una massa architettonica, un rapporto di toni, una macchia di pittura, un tratto inciso esistono e valgono in primo luogo per se stessi: hanno una qualità fisionomica. [...] Il contenuto fondamentale della forma è un contenuto formale[14].

 

Separare forma e materia significa svuotare la forma, abbandonando la materia a un destino ingrato, cioè al caos e all’indeterminatezza.

Il destino è dunque formale[15]: l’artista obbedisce alle forme, non solo per il fatto che il tratto di ciascun artista si manifesta in predisposizioni che si esprimono sempre e comunque in forme e colori, ma perché il mondo delle forme che lo abita gli impone delle scelte formali tanto imperative da legarlo per sempre a una determinata famiglia di artisti, a una famiglia spirituale e formale. La vita delle forme, più forte e pervasiva della vita degli uomini, determina nel suo farsi l’emergere di tipologie ben definite che si susseguono nella storia dell’arte, anche in epoche differenti, seguendo orientamenti di ricerca affini. Perciò i membri di una stessa famiglia spirituale si cercano e si ritrovano «attraverso i secoli. Come i diversi periodi di un ciclo storico risuonano in qualche modo nel periodo corrispondente di un altro ciclo, così la storia dello spirito è fatta di queste corrispondenze». Corrispondenze formali che 

obbediscono a una misteriosa logica di cui coloro i quali ne sono l’oggetto non ne hanno sempre coscienza. Tutto viene dall’interno. Così si annoda e si snoda attraverso le generazioni umane una rete che sovrappone alla pura sequenza cronologica un ordine molto più complesso, che ammette fino alla reversibilità un ordine dei contemporanei eterni[16].

 

Gli artisti devono, «qualunque sia l’autorità delle forme che sono in loro e che li incalzano», dare a esse una «consistenza, in una certa materia, con certi arnesi, secondo certe esigenze di cui essi sono i depositari o gli artigiani»[17]. Le forme si servono degli uomini per realizzare il loro destino e allo stesso tempo trascinano nel vortice delle loro metamorfosi anche il destino degli artisti, utensili di carne. Se «la forma va perpetuamente dalla sua necessità alla sua libertà»[18], è perché l’artista, che è geometra, meccanico, fisico, chimico, psicologo e storico, non può far altro che mettere se stesso al servizio della metamorfosi delle forme, al servizio della loro realizzazione.

Portando alle estreme conseguenze il pensiero focilloniano, è lecito aggiungere che non solo le forme determinano e segnano il destino dell’arte e con essa il destino dell’uomo, ma che non esiste comunque destino senza forma. O meglio, è la forma a manifestarsi come destino e perciò come vita.

 

3. Le forme e la loro storia

L’Estetica trova nella Francia della prima metà del Novecento e nei suoi esponenti principali i presupposti essenziali dell’oggettività del mondo delle forme. In quegli anni, Raymond Bayer presentava l’estetica come una sistematica delle strutture, per cui le opere d’arte sono analizzate in base alle loro proprie peculiarità qualitative, regolate da leggi e sistemi. Al di sotto della varietà delle forme e delle materie, esistono per Bayer condizioni costanti, vincolate da una sorta di accordo interno[19].

Tanto per Focillon quanto per Bayer, sebbene con sfumature diverse a volte anche molto evidenti, l’indagine estetica non può fare a meno di rivolgersi agli oggetti artistici come se fossero portatori di significati autonomi, come se fossero, secondo una definizione di Dufrenne, dei «quasi soggetti»[20].

Le forme hanno dunque ritmi, tempi, modalità che sono a loro peculiari. Vivono secondo un movimento perpetuo e disomogeneo che non contempla né la nascita né la morte, ma, se si vuole, una continua metamorfosi. Pur mantenendo la loro peculiare identità, sono in continuo mutamento, sono «vita mobile in un mondo che cambia». Possono diventare canone, possono fissarsi in un tipo esemplare, possono stabilizzarsi in uno stile, ma il loro processo è inarrestabile e presto la metamorfosi ricomincia[21].

Siamo di fronte a una dialettica delle forme, la cui storia non può essere rappresentata attraverso una linea unica e ascendente o un fluire verso un perfezionamento senza fine. Si tratta piuttosto di un continuo ricominciamento, un sistema fibroso, stratificato, dove le sovrapposizioni non coincidono con lo strato preesistente e creano spazi vuoti o coincidenze inedite. Il vecchio e l’antico o, meglio ancora, ciò che delle forme rimane quale struttura invariabile, danno origine a uno strato sottile del tessuto storico, uno strato che, sovrapponendosi agli altri o venendo da essi ricoperto, prende nuovi colori e nuovi significati[22]. Ogni momento della vita delle forme «è insieme garante e promotore della diversità»[23].

Le forme manifestano un loro tempo e un loro spazio irriducibili, che non necessariamente coincidono con quelli storici, perché la storia delle forme «non è simile a un fiume che porterebbe via con la stessa velocità e nella stessa direzione gli avvenimenti e i frammenti degli avvenimenti»[24]. Sono proprio la diversità e l’ineguaglianza delle correnti, il loro fluire più o meno impetuoso a tracciarne il percorso.

Come nella vita delle forme così nella storia dell’uomo, in ogni epoca tutti gli strati rivivono attraverso una serie di scambi e di accomodamenti tra i differenti livelli. I fenomeni di rottura, quando si presentano, non sono altro che l’occasione per scorgere in profondità gli antichi retaggi dai quali derivano le forme presenti. Non è dunque possibile nessuna definizione della storia come unitaria e ascendente. Piuttosto deve essere pensata come

una sovrapposizione di strati geologici, diversamente inclinati, a volte interrotti repentinamente da faglie brusche e che, in uno stesso luogo, in uno stesso momento ci permettono di cogliere parecchie età della terra, anche se ogni frazione del tempo trascorso è contemporaneamente passato, presente e futuro[25].

 

Non si può fare a meno di chiedersi che valore abbia il presente o quale ruolo si debba attribuire nel corso della storia a un giorno, a un mese o a un anno. Se “astronomicamente” essi hanno un valore assoluto, “storicamente” gli avvenimenti non possono vantare la stessa regolarità. Il respiro della storia è a volte lento a volte ansimante. Alle onde corte seguono quelle lunghe, proprio perché il tempo storico non è mai tagliato uniformemente nella “materia del tempo”. Un anno storico «è una pura cornice, ma in questa cornice prende posto un contenuto la cui potenza e intensità sono variabili. In questo senso si può dire che esistono degli anni critici, veri nodi di avvenimenti»[26].

La tendenza a cristallizzare, a fissare il tempo attorno a date salienti deve quindi rispondere non a una finzione cronologica bensì a dati positivi e concreti. Un anno, un solo anno può infatti fornire una quantità di dati, di informazioni tanto ampia e dettagliata da illuminare un percorso dell’umanità durato diversi anni. Ad esempio, il 1793, il 1830, il 1848 sono «grandi date politiche, nettamente definite da alcune rivoluzioni, cioè dall’avvenimento-tipo». Tuttavia, non vi è nulla di più dannoso, che «considerare la storia come una collezione discontinua di date o di anni sensazionali» o, d’altra parte, come «una sequenza monotona di fatti. Non è una curva, non è un piano tutto unito, essa comporta una sorta di rilievo molto ineguale»[27]. Da qui la diffidenza di Focillon per il termine ‘evoluzione’ che evoca l’idea di un tempo uniforme, continuo, che avanza sempre nella stessa direzione. C’è al contrario una certa velocità variabile che coinvolge differenti gruppi di fenomeni tra loro simultanei. Ci appaiono a volte in anticipo a volte in ritardo. Altre volte ancora scorgiamo in essi qualcosa in più della semplice traccia del passato.

Tradizioni passive, metamorfosi, risvegli, con le loro interferenze secondo le età e secondo i luoghi, ci aiutano a capire come il passato più lontano, con una vitalità diradata, a volte intensa e continua, a volte esplosiva, oscilli attraverso l’evoluzione[28].

 

Le forme sopravvivono agli eventi storici seguendo un loro percorso: le migrazioni di popoli o le invasioni non sono sufficienti a spiegare la sopravvivenza di certe tipologie formali.

Esse seguono vie molto diverse, disegnano percorsi più o meno celati, più o meno diretti, più o meno lenti. Ubbidiscono a una organizzazione e quasi a una tecnica, come tutto ciò che avviene nella storia. L’ordine dei fatti non è puramente successivo. Essi si combinano secondo certe regole, o piuttosto ciascuna via da essi intrapresa assume caratteri costanti[29].

 

Alcune sopravvivenze formali possono dunque essere spiegate con quelle che Focillon chiama tradizioni passive o cristallizzate, «eredità di forme fisse in ambienti retrogradi o conservatori»[30]. Tuttavia, tali ‘forme fisse’, una volta entrate nel ciclo delle metamorfosi, ricevono una nuova vita che modifica i loro temi, le loro figure.

La storia delle forme sembra possedere percorsi sotterranei, che emergono di tanto in tanto, restituendo forme mai morte ma solo sopite sotto la coltre del tempo. Ciascuna tradizione è «una forza viva» che si rinnova in base ai «bisogni spirituali delle generazioni». Il tempo e le esperienze la arricchiscono e la plasmano nuovamente.

Essa può, d’altronde, presentarsi come un deposito o come un rifiuto che le età si trasmettono per inerzia. In questo senso si può veramente dire che è passiva anche quando la lussureggiante vegetazione dei miti la avvolge [...]. Queste forme, definite con vivace nitidezza e come impresse in una materia molto dura, attraversano il tempo senza esserne intaccate[31].

 

Quello che invece può e deve cambiare è il modo in cui le forme vengono lette nel corso del tempo.

Il nuovo rapporto che si instaura tra contenuto e forma consente a Focillon l’elaborazione di una doppia definizione di iconografia, considerata sia come studio delle variazioni della forma in base a uno stesso significato sia come indagine sui diversi significati della forma stessa. Una forma ha un significato formale, che si ricava dalla sua vita, dal suo rapporto con altre forme, dalle sue metamorfosi e un significato non formale, che si presenta come arbitrario poiché «la forma rimane e la materia si perde – la “materia”, ossia ciò che riempie la forma o ciò che la riveste. In altri termini, stabilità morfologica, instabilità semantica»[32].

Ogni età dell’arte ha una sua fisionomia fortemente caratterizzata sebbene il tempo, con i suoi andamenti stratificati, ne smussi e modifichi un poco i tratti, facendo in modo che ognuna di esse si succeda a un’altra senza soluzione di continuità. L’età sperimentale, la classica, quella della raffinatezza e la barocca (così come Focillon le elenca in Vita delle forme)[33] si tendono la mano e si concatenano reciprocamente attraverso una serie di transizioni e prolungamenti. Un’età non nasce e non muore definitivamente e, sebbene si ripresenti in situazioni diverse con tonalità sempre nuove, è sostanzialmente riconoscibile nei suoi tratti salienti.

La descrizione delle età – sinteticamente illustrata in Vita delle forme e applicata esaurientemente ne L’arte dell’Occidente – non ha un valore programmatico e non è nemmeno semplicemente la sintesi di un orientamento teorico e metodologico. Focillon sembra affermare che se si danno situazioni analoghe in ambienti formali affini si possono constatare linee di sviluppo simili, senza che ciò implichi alcun significato deterministico. Non bisogna però credere che egli applichi rigidamente questo schema: nessuno è più consapevole di lui «delle innumerevoli modulazioni di sensibilità, delle raffinatezze, dei purismi, delle nostalgie, contemplative o violente, dei ritorni di energia, barocca o visionaria, e di tutte le oscillazioni della vita dello spirito che riecheggiano, a volte durante secoli, fino al giorno in cui l’arte inizia un nuovo ciclo di esperienze fondamentali»[34].

Se la documentazione dello svolgersi di tali età risulta ampiamente esemplificata, Focillon tuttavia non si pronuncia mai esplicitamente sulla necessità di tale processo. Non è chiara quale sia la dignità che egli vuole attribuire al farsi delle forme e degli eventi. Tale divenire non ha nulla a che vedere con uno svolgersi dialettico e nemmeno con un processo che prende le sue origini da fenomeni sociali o psicologici. Si avvicina molto più a un sistema euristico che, proprio in quanto non è applicato ai fenomeni come una griglia interpretativa a priori, può essere visto emergere attraverso l’indagine stessa dell’evolversi formale.

  

4. La tecnica

Per Focillon la tecnica è un mezzo, forse quello privilegiato, della metamorfosi morfologica. La sua autodeterminazione è sempre e immediatamente forma e la sua liberazione è sempre e immediatamente in una forma. Non vi è in Focillon alcun intento che vada al di là della messa in evidenza dello strumento, dell’abilità nel suo utilizzo, del ruolo della mano e dell’abilità del tocco. Rivalutando la tecnica quale procedimento di conoscenza fondamentale, cancella la possibilità di vedere nella tecnica qualcosa di diverso dalla sua dialettica interna, fatta di accrescimenti e di distruzioni. La tecnica determina lo sviluppo delle forme e in tal senso ne è anche la vita.

La tecnica è un processo ed è dunque necessario risalire all’ampiezza della sua genealogia. Si muove dentro un quadro come «l’esecuzione del pianista sviluppa la sonata». Gli strumenti, i materiali e le tecniche non esprimono immediatamente quei valori espressivi che il soggetto fruitore può cogliere ma forniscono una spiegazione della vita delle forme all’interno del loro «sviluppo biologico»[35]. Focillon coglie e sa ridare nei suoi testi «il mobilissimo variare degli effetti secondo le contingenze della tecnica»[36].

Ciò è maggiormente vero per l’architettura, in cui il rapporto con la tecnica e con i materiali si fa esplicito. «Un edificio è pianta, struttura, combinazione di masse, ripartizione di effetti». Interprete della «massa pesante», l’architetto è anche «interprete della luce, in quanto ne calcola e ne combina gli effetti». Esamina i profili, studia i rapporti volumetrici e dà all’insieme un tutto organico. Come lo scultore, analizza il suo lavoro da ogni lato, soppesandone gli effetti e i risultati. L’architettura non è infatti «disegno o fotografia: essa è realizzata nella materia e si capisce subito come l’importanza e la particolarità di tale nozione si ripercuotano in tutte le tecniche». La materia – che influenza la struttura in modo fondamentale, apportando leggi sue proprie e inderogabili che si impongono necessariamente alle funzioni e alle tecniche – è «superficie e colore» e, proprio in quanto tale, contribuisce prepotentemente, ma con fascino, «alla vita di un’arte che non è concepita unicamente per l’analisi tecnica e l’anatomia, ma per il piacere e la soddisfazione della vista»[37].

La tecnica ha un aspetto duplice: «è architettonica, nel senso che subordina le figure allo spazio in cui esse devono essere inserite; è ornamentale, nel senso che disegna e coordina tali figure secondo schemi ornamentali»[38]. L’intento di Focillon è quello di mostrare come considerazioni puramente tecniche, riferite all’utilizzo della scultura, ai suoi materiali, alla loro manipolazione, possano determinare nell’artista un modo di concepire lo spazio e un modo di progettare che mai prescindono dal rapporto, a volte coercitivo, intrattenuto con le forme. Ciò significa che tecnica e materia dettano quelle leggi, che, in effetti, non sono altro che le leggi stesse delle forme, il loro logos.

La mano diventa quindi quella parte dell’uomo che incarna la tecnica. Utensile di carne che plasma e modella si fa tutt’uno con l’utensile vero e proprio. «Il loro accordo è fatto di scambi sottilissimi e non è definito dall’abitudine»[39]. L’utensile è vivo solo quando si accorda pienamente con la mano, quando tra l’utensile e le dita che lo impugnano si stabilisce un accordo che è un’«appropriazione progressiva» attraverso «gesti lievi e coordinati»[40]. Dunque, l’utensile non è meccanica così come la tecnica non è mero apprendimento di un fare ripetitivo. In tale contesto, non è la tecnica della pittura o della scultura o dell’architettura che interessano, ma la tecnica di un artista, mai assimilabile a quella di un altro. Il tocco è attimo e permanenza: l’attimo in cui l’utensile desta la forma e la permanenza di una forma costituita e duratura. È la vita dell’opera, è il vero «contatto tra l’inerzia e l’azione»[41], il contatto ineliminabile e decisivo tra l’oggetto e l’uomo. E tale contatto è garantito dalle mani che afferrano e creano e che sono «volti senza occhi e senza voci», ma «vedenti e parlanti»[42].

Ecco il perché di quell’Elogio della mano scritto da Focillon per sostenere le ragioni del tatto e, contemporaneamente, dell’intelligenza e della volontà del fare. Il rispetto per il lavoro, l’insistenza sui valori tattili, sul fare concreto operativo dell’artista, riscattano, nel pensiero di Focillon, la perdita del soggetto in un mondo di oggettività formali. Perché è proprio nel fare, in tutta la concretezza, e insieme sensibilità, delicatezza e intelligenza della mano, che si riscopre il soggetto che non ha volto, ma che libera tutta la sua originalità immediata e imperitura nel tocco. E il tocco non ha mai a che fare con la fugace fantasia senza confini, imprendibile dimensione tanto vicina al sogno, ma è l’aspetto più tangibile e allo stesso tempo più puro, incomparabile e inimitabile dell’artista. Il tocco è l’artista stesso. Artista che è mano, utensile e quindi sensibilità e intelligenza.

 

5. I risvegli formali

La storia delle forme si sviluppa autonomamente palesandosi attraverso la tecnica, secondo un andamento che prevede repentini risvegli e addormentamenti o lunghe permanenze e lentissime rinascite.

Il tema dei risvegli formali di Focillon viene preso a paradigma della propria ricerca da Baltrušaitis, soprattutto là dove sostiene che «il meccanismo dei risvegli comprende due movimenti convergenti: rivoluzione ciclica, alla base stessa della biologia delle forme, e ineguaglianza dei ritmi storici, in cui i ritardi particolari giungono nel momento di una ripresa generale»[43].

In Réveils et Prodiges, Baltrušaitis approfondisce, con una documentazione estremamente precisa, alcuni spunti dettati da Focillon[44], di cui è stato allievo. Indaga i vasti repertori di sopravvivenze e di risvegli, soprattutto per quanto concerne il sistema gotico. In particolare, Baltrušaitis riprende l’idea focilloniana secondo la quale l’arte gotica risveglia il fantastico romanico e l’approfondisce. L’arte gotica recupera perfino forme del passato che erano state deteriorate dall’avvento dell’ordine romanico. C’è una sorta di risveglio dei fondi antichi, e i cicli evolutivi, che avevano precedentemente promosso l’instaurarsi dello stile romanico, sono ora rimessi in moto, ma in modo tale che il loro apporto si relazioni con le nuove forme gotiche, che nel frattempo si stanno sviluppando.

Nella scultura gotica, ad esempio, le figure rispondono a una doppia esigenza: quella di liberare la struttura architettonica togliendole un effetto puramente plastico e quella di ridurla all’interno di un brulichio fantastico di mostri. Se ne L’arte dell’Occidente, Focillon dimostra che la scultura gotica si affranca dall’ordine architettonico, per liberare naturalisticamente la figura umana del fantastico ornamentale, Baltrušaitis, in Réveils et prodiges, mette in evidenza come l’arte gotica cerchi e sviluppi il fantastico anche nelle sopravvivenze morfologiche.

L’ordine romanico sembra riproporsi e aggiornarsi attraverso nuovi elementi spesso carichi di esotismo (retaggi orientali e figure mostruose), elementi che si ritrovano anche oltre i confini del Medioevo «sotto forma sia di sopravvivenza diretta sia di trasposizione, nella scultura come nella miniatura». Le sopravvivenze e le trasposizioni non hanno tuttavia «ovunque un uguale valore. Spesso le loro tracce sono deboli» o, al contrario, si rivelano maggiormente “regolari” proprio in quegli ambienti che risultano essere più lontani dall’influenza gotica[45].

Non tanto prospettive depravate quanto figure depravate sono quelle che Baltrušaitis vedeva concretizzarsi sulle facciate e nei capitelli delle cattedrali gotiche.

Un ordine scultoreo che non sia determinato dalla figura umana, considerata come stabile e tipica, comporta inevitabilmente la sua deformazione. Il bisogno di simmetria e di ritmo ornamentale generano uno squilibrio nella forma “normale”. Da qui il procedimento termina in una pura plastica, indifferente alla natura. Ma nello stesso tempo, si scopre nella violazione della norma un mezzo di espressione inedito[46].

 

Quando Focillon e poi Baltrušaitis affermano lo stretto rapporto tra il tutto e le sue parti e richiamano le leggi di sviluppo che regolano non solo le masse architettoniche ma anche il rapporto diretto della massa scolpita con la massa architettonica, essi fanno riferimento a leggi immanenti e inderogabili. Le forme sono sempre il risultato di una logica, di una dialettica che ha valore nei rapporti tra le forme e che spiega anche l’emergere di figure mostruose. I riferimenti al funzionale e all’organico, che a volte sembrano trasparire dagli scritti di Focillon e di Baltrušaitis, si devono al fatto che la coerenza interna è propria di ciascuna forma come di ciascun organismo e da tale coerenza non si può prescindere. Anche nella mostruosità, in un corpo deforme, in una figura che ha perso le sue proporzioni originarie si trovano sempre reciprocamente combinati due elementi fondamentali: «l’ordine di una plastica pura che tende a bastare a se stessa e il disordine espressivo della materia figurata»[47]. L’autonomia formale passa attraverso tali leggi.

Baltrušaitis porta alle estreme conseguenze l’opera di Focillon, dopo aver ereditato la sua concezione della storia come conflitto di precocità, attualità e ritardi e, soprattutto, il suo interesse per tutte quelle manifestazioni artistiche che, viste nel contesto di una particolare epoca, appaiono come casi anomali, come eccezioni rispetto alla cultura dominante.

Baltrušaitis prende in considerazione una forma o uno schema di forme o un tema in particolare e lo segue, elaborando un sistema del quale declina gli effetti e ricostruisce le origini. Compone una sorta di tavola, di prospetto combinatorio delle figure, delle quali ha sempre presente la genesi e le metamorfosi.

Focillon ha più volte espresso l’idea che la scultura romanica è soprattutto movimento ed è nel movimento che le regole e le leggi formali vengono messe in pratica con il massimo rigore[48]. Proprio a partire da tale affermazione, Baltrušaitis cerca di rintracciare quelle costanti formali (strutture, schemi geometrici) che, nonostante il trascorrere del tempo, restano inalterate sebbene all’interno di un processo di continua evoluzione delle forme artistiche. Egli dedica ampi passi delle sue opere alla riscoperta di precedenti stilistici, lontani nel tempo, portando alla luce esempi di continuità formale sia nell’arte greca e romana sia nelle civiltà antiche orientali.

Gli esempi di Baltrušaitis si fissano su un particolare: è questa la fine ricerca dello scopritore di forme e della loro vita autonoma. Insegue un sogno fatto di forme divenienti e metamorfiche; più metamorfosi che si svolgono su un unico tema[49]. Al di là dell’apparente caos delle forme, esistono sottesi dei modelli di riferimento comuni, che consentono al mero caos di trasformarsi in forma espressiva. La forma subisce questo doppio statuto di libertà vincolata. Libera nella sua genesi, è obbligata all’interno di un modello, all’interno di limiti temporali spaziali, materiali e soprattutto geometrici.

Ne La stylistique ornementale di Baltrušaitis l’analisi morfologica viene sviluppata in modo sistematico tale da ricavarne la ‘legge dello schema geometrico’, per cui esiste un ordine che determina l’influenza della figura geometrica sulla materia figurativa. Esiste cioè una dialettica ornamentale, che procede sempre per combinazioni di schemi astratti per cui la ricchezza delle forme viventi, animali e vegetali, risulta al servizio della plastica che a sua volta è al servizio dell’architettura. Si stabilisce uno scambio permanente tra le figure e le forme, tra il reale e l’astrazione, creando mostri di ogni sorta seppur generati da leggi geometriche ben precise. Per esemplificare, la grande ipotesi che sorregge il suo lavoro è il fatto che ogni invenzione plastica dipende fondamentalmente dall’architettura e vi si conforma. «Le stesse grandi composizioni, i programmi edificanti, grandiosi e pittoreschi dei timpani, si sono sottomessi a questo sistema. E, alla fin fine, nuovi esseri, centinaia di mostri sono nati da questa gigantesca meccanica scultorea e hanno trovato la loro propria vita fuori delle cornici»[50]. Tutta la varietà dell’invenzione plastica può giostrarsi esclusivamente all’interno di questo sistema. Nessuna fantasia, nessuna ardita invenzione dunque, ma serie di combinazioni sempre legate vicendevolmente tanto da sembrare «nascere e derivare le une dalle altre come gli elementi del ragionamento matematico»[51].

Nella concezione di Baltrušaitis trovano spazio poche forme geometriche tipiche, in base alle quali – secondo un punto di vista ornamentale – sono modellati i soggetti, tanto che viene fatto esplicito riferimento allo “schema” quale «forma astratta preesistente, indipendente dagli oggetti rappresentati e come antecedente in ogni senso al contenuto»[52]. L’artista risulta quindi sotto il diretto dominio non solo del volere delle forme, dei loro risvegli, dei loro ritorni, ma anche di una imposizione schematica. Che l’arte si esprima in strutture semplici, riducibili in poche formule o leggi elementari, oppure che segua un disegno, un modello, un piano, sono ipotesi che implicitamente sottostanno alle analisi di Focillon e Baltrušaitis.

Secondo Baltrušaitis, le lunghe figure verticali di Chartres sono fortemente condizionate dalle colonne alle quali sono attaccate o da una cornice allungata. Tale presa di posizione non lascia margini per altre motivazioni. Siamo di fronte a un rigido principio euristico la cui applicazione impedisce la spiegazione di altre figure fortemente distorte in senso inverso (in particolare le «figure su colonne con le gambe incrociate»). Tuttavia, se al contrario supponiamo che «la rigida postura verticale» sia di fattura precedente alla colonna o sia «indipendente da essa», possiamo comprendere «l’applicazione di figure con le gambe incrociate sulla stessa serie di colonne. Infatti, l’incrocio delle gambe nell’arte romanica è una positura tesa, instabile [...] e si accorda perciò con le forme forzate, sospese, delle rigide figure». L’interpretazione di Baltrušaitis sembra dunque del tutto aprioristica. «La conformità di una figura a una colonna non si spiega con la costrizione della colonna, poiché sebbene in tutte le scuole romaniche vi siano analogie tra le figure e ciò che le racchiude, la figura colonnare ricorre solo in alcune e solo in un certo periodo»[53].

Il metodo di Baltrušaitis non è oggetto di una esposizione sistematica. Piuttosto si ricostruisce attraverso il suo procedere e le sue fasi applicative. «Si rifà all’iconologia, ma si distingue dall’analisi dei simboli culturali generalmente praticata». Elabora «una definizione “strutturalista”, ante litteram, della “forma”», la quale non è mai «l’abito più o meno mutevole di un tema ugualmente “variabile”». Essenziale è invece individuare una forma, una struttura e seguirne poi lo sviluppo nel procedere delle sue manifestazioni, che sottendono a volte un «meccanismo visionario»[54].

 

6. Conclusione

La sopravvivenza di una forma non procede sempre per tradizione passiva o per metamorfosi continua. Capita che la forma scompaia o sembri scomparire per risvegliarsi un giorno, con tutte le sue caratteristiche, in tutta la sua pienezza. [...] Ci si può chiedere se, di età in età, le stesse fasi dei diversi stili non presentino caratteri identici o analoghi e se quello che abbiamo chiamato il barocco gotico non abbia necessariamente caratteristiche comuni con il barocco romanico. Senza fare dei diversi stadi dell’evoluzione degli stili una legge ferrea, è permesso pensare che ci sia qualche cosa di fondato in questa specie di risonanza storica e che in certi punti, che si corrispondono attraverso il tempo, non c’è identità o ripetizione, ma predisposizione a forme o a stati di coscienza dello stesso ordine... Questa spiegazione presenta però un carattere teorico, un carattere assoluto, che non deve dispensarci dal cercare nei fatti altre ragioni[55].

 

Quello appena citato è sia il manifesto sia l’eredità di Focillon. Le sue parole dipingono con efficacia il lavoro delle forme da un lato e di chi le studia dall’altro. I risvegli sono il marchio della vita metamorfica delle forme di cui il ricercatore deve rinvenire le tracce senza lasciarsi sopraffare dalle evidenze esplosive che potrebbero confonderlo, impedendogli di ricercare più a fondo. I risvegli formali possono presentarsi in modo subitaneo, sebbene lo storico cerchi di ridurre l’aspetto improvviso e contingente alla nozione dei risvegli progressivi. Lo sguardo vigile e onesto del ricercatore è garanzia della ricerca stessa.

Tradizioni attive e passive, interferenze di vario genere in base alle età e ai luoghi evidenziano come il passato, anche quello più lontano, «oscilli attraverso l’evoluzione» in modo dirompente o continuo, intenso o diradato[56]. La vita delle forme è quindi prettamente inserita nel tessuto della storia dell’uomo e del suo fare.

L’inseparabile relazione tra il destino dell’uomo e quello delle forme rende la prospettiva di Focillon ancora attraente, in un mondo che oggi sembra andare molto più veloce di un tempo. D’altro lato, proprio l’autonomia formale, che prescinde dai contenuti per riproporsi continuamente in contesti diversi, rende ancor più affascinante una metodologia che potrebbe riproporsi fruttuosa in più contesti, inimmaginabili sia per Focillon sia per Baltrušaitis. Non bisogna infatti dimenticare che Focillon sviluppa il suo pensiero in un periodo della storia dell’arte in cui la riproducibilità delle immagini diventava imperante. Ne aveva intuito la portata[57].

La metodologia focilloniana sta aspettando ora il suo risveglio, per obiettare al monito di Dagognet che apre questo saggio. La forza della sua visione risiede ancora oggi nel tentativo di rendere autonoma la forma dal suo significato. La sua identità e la sua funzione vengono riconosciute per sé. La forma ha un valore specifico che non deve essere confuso con gli attributi che le si impongono. Il processo attraverso il quale le forme si trasformano in segni (l’iconografia) deve essere concettualmente distinto dalla vita stessa delle forme. Alle forme possono essere attribuiti sempre nuovi significati. In sintesi, le forme possono diventare segni e i segni possono diventare forme[58]. Una stessa forma si può prestare a innumerevoli variazioni, può fondersi con altre e comporre un unicum. Può presentarsi transitoriamente o permanere per molto, molto tempo. Un avvicendarsi all’apparenza caotico, che invece serba in sé un racconto intellegibile.

La messa tra parentesi dell’artista a favore di una visione dell’arte come prodotto di energie impersonali che si concretizzano in forme sempre divenienti, potrebbe riservare ancora oggi delle sorprese, dei risvolti da indagare. Siamo di fronte a un filone formalista che non si è affatto esaurito, in cui l’arte non si costituisce soltanto a partire dalla volontà dell’artista ma dall’imporsi stesso delle forme e della loro vita.


[1] F. Dagognet, 100 mots pour commencer à philosopher, Empêcheurs de Penser en Rond, Paris 2001, p. 101.

[2] Pubblicato da Vrin.

[3] Raymond Bayer, con Étienne Souriau e Charles Lalo, ha fondato nel 1948 la Revue d’Esthétique.

[4] A Focillon (1881-1943) e al suo allievo Baltrušaitis (1903-1988) mi sono dedicata in passato fin dalla tesi di dottorato discussa nel 1997: Autonomia formale. Metamorfosi delle forme tra vita, stile, natura e tecnica a partire dal pensiero di Henri Focillon. Questi pensieri rimangono per me un punto di riferimento. Mi rifaccio quindi ai miei scritti, citandoli per interi paragrafi: I percorsi delle forme, B. Mondadori, Milano 1997; Forma come destino. Henri Focillon e il pensiero morfologico nell’estetica francese della prima metà del Novecento, Alinea, Firenze 1998; Deformazioni fantastiche. Introduzione all’estetica di Jurgis Baltrušaitis, Mimesis, Milano 1999.

[5] Su Souriau si veda il recente numero monografico della rivista «Aisthesis»: Aesthetics & Ontology in Étienne Souriau, Vol. 15, 2, 2022, a cura di L. Azzariti-Fumaroli, F. Domenicali, L. Bartalesi.

[6] E. Souriau, La corrispondenza delle arti (1969), tr. it. Alinea, Firenze 1988, p. 97. Cfr. anche R. Milani, Etienne Souriau e gli sviluppi dell’estetica comparata, in La polifonia estetica. Specificità e raccordi, a cura di M. Venturi Ferriolo, Guerini, Milano 1996.

[7] E. Franzini, L’estetica francese del ‘900, Unicopli, Milano 1984, p. 261.

[8] E. Souriau, L’avenir de l’esthétique, Félix Alcan, Paris 1929, p. 245.

[9] Ibid., p. 248 e p. 249.

[10] J. Arrouye, Dialectique Paysagière, in Henri Focillon, Collection Cahiers pour un temps, Centre G. Pompidou, Paris 1986, pp. 216-217.

[11] Cfr. H. Focillon, La peinture au XIXe siècle, 2 voll., Flammarion, Paris 1991, vol. I, p. 1.

[12] Ibid., p. 7.

[13] Cfr. H. Focillon, Préhistoire et Moyen Age, in Moyen Age. Survivances et réveils. Etudes d’art et d’histoire, Valiquette, Montréal 1945, p. 15. Cfr. J. Molino, La forme et le mouvement, in Henri Focillon, Collection Cahiers pour un temps, cit., pp. 145-146 e R. Huyghe, Formes et Forces. De l’atome à Rembrandt, Flammarion, Paris 1971, p. 28.

[14] H. Focillon, Vita delle forme seguito da Elogio della mano, tr. it. di Vita delle forme di S. Bettini, tr. it. di Elogio della mano di E. De Angeli, Einaudi, Torino 1990, p. 6 e p. 7.

[15] Cfr. A. Baratono, Introduzione a H. Focillon, Vita delle forme, tr. it. Minuziano, Milano 1945, p. 19.

[16] H. Focillon, Visionnaires-Balzac et Daumier, in Essays in Honor of Albert Feuillerat, a cura di H.M. Peyre, Yale Univerity Press, New Haven 1943, p. 197, testo di una conferenza del 1940 tenuta alla Galleria Philips di Washington, anche in De Callot à Lautrec, Bibliothèque des Arts, Paris 1957.

[17] H. Focillon, L’irréalisme à la fin du Moyen Age et à la Renaissance, in Henri Focillon, Collection Cahiers pour un temps, cit., p. 179.

[18] H. Focillon, Vita delle forme seguito da Elogio della mano, cit., p. 101.

[19] Cfr. R. Bayer, Esthétique de la grâce, 2 voll., Alcan, Paris 1934 e Id., Traité d’Esthétique, A. Colin, Paris 1956, in part. pp. 223-230.

[20] Cfr. M. Dufrenne, Phénoménologie de l’expérience esthétique (1953), 2 voll., PUF, Paris 19923, pp. 281 ss.

[21] Cfr. H. Focillon, Vita delle forme seguito da Elogio della mano, cit., p. 12.

[22] Cfr. ibid., p. 19 e M. Mazzocut-Mis, Decadenze e sopravvivenze formali. Riflessioni sullo sviluppo delle forme nel pensiero di Henri Focillon, in La vita irrimediabile, a cura di G. Scaramuzza, Alinea, Firenze 1997.

[23] Ibid., p. 26.

[24] H. Focillon, L’an mil, Armand Colin, Paris 1952, p. 7.

[25] Ibid.

[26] Ibid., p. 8.

[27] Ibid., p. 9.

[28] Ibid., p. 30. In linea con Souriau, allora, si potrebbe estendere quest’idea all’intera natura che è il regno della varietà delle forme. È in tal senso che le riflessioni di Souriau sull’instaurazione delle forme sono importanti nell’indagine filosofica sul rapporto tra varietà delle forme e “creatività biologica” sia nel mondo dell’arte sia in quello della natura. Il problema della forma degli organismi viene interpretato nel continuo del tempo e della materia, ma soprattutto rispetto al progresso degli esseri che punta alla loro infinta molteplicità. Cfr. É. Soriau, Il senso artistico degli animali (1963), tr. it. Mimesis, Milano 2002.

[29] Ibid., p. 14 e cfr. H. Focillon, L’arte dell’Occidente (1938), Introduzione e Note di J. Bony, tr. it. Einaudi, Torino 1965, p. 27.

[30] H. Focillon, Préhistoire et Moyen Age, cit., p. 14.

[31] Ibid., p. 15.

[32] Ibid.

[33] Ibid., p. 18. Mentre in Vita delle forme i periodi elencati sono quattro (quelli già elaborati da Deonna a proposito dell’arte antica), più spesso Focillon fa riferimento a soli tre periodi: lo sperimentale, il classico e il barocco.

[34] J. Bony, Henri Focillon ou la généalogie de l’unique, in Henri Focillon, Collection Cahiers pour un temps, cit., p. 30.

[35] H. Focillon, Vita delle forme seguito da Elogio della mano, cit., p. 60.

[36] A. Baratono, Introduzione a H. Focillon, Vita delle forme, cit., p. 20.

[37] H. Focillon, L’Arte dell’Occidente, cit., p. 57 e p. 58.

[38] Ibid., p. 59, p. 67 e p. 89.

[39] H. Focillon, Vita delle forme seguito da Elogio della mano, cit., p. 63.

[40] H. Focillon, Elogio della mano, cit., p. 113.

[41] H. Focillon, Vita delle forme seguito da Elogio della mano, cit., p. 64.

[42] H. Focillon, Elogio della mano, cit., p. 105 e cfr. p. 106.

[43] J. Baltrušaitis, Réveils et Prodiges. Les métamorphoses du gothique, Collection Idées et Recherches, Flammarion, Paris 1988, p. 333.

[44] Réveils et prodiges è comunque il risultato delle ricerche che, almeno inizialmente, sono state intraprese insieme dai due storici dell’arte.

[45] Cfr. ibid., p. 55 e p. 80.

[46] J. Baltrušaitis, Etudes sur l’art médiéval en Arménie et en Géorgie, Leroux, Paris 1929, p. 66.

[47] Ibid.

[48] Cfr. H. Focillon, L’arte degli scultori romanici, in Id., Scultura e pittura romanica in Francia seguito da Vita delle forme, Prefazione di E. Castelnuovo, tr. it. Einaudi, Torino 1972, pp. 115-125.

[49] Cfr. J. Baltrušaitis, Il Medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell’arte gotica (1992), tr. it. Adelphi, Milano 19932, p. 52.

[50] J.F. Chevrier, Portrait de Jurgis Baltrušaitis, seguito da J. Baltrušaitis, Art sumérien, Art roman, Flammarion, Paris 1989, p. 24.

[51] J. Baltrušaitis, La stylistique ornementale dans la sculpture romane, Leroux, Paris 1931, p. X e cfr. p. XI.

[52] M. Schapiro, Arte romanica (1950), tr. it. Einaudi, Torino 1982, p. 309. Un’altra critica alla metodologia di Baltrušaitis, soprattutto per quanto concerne i risvegli storici di forme artistiche e le sopravvivenze formali, viene da E.H. Gombrich, Il senso dell’ordine (1979), tr. it. Einaudi, Torino 1984, p. 429.

[53] M. Schapiro, op. cit., p. 302.

[54] J.F. Chevrier, Portrait de Jurgis Baltrušaitis, cit., p. 47. Nelle Prospettive depravate – titolo che idealmente comprende i tre saggi più famosi di Baltrušaitis (La ricerca di Iside, Aberrazioni e Anamorfosi) – la logica che accomuna i diversi studi sta nel significato della parola leggenda: può trattarsi di una “leggenda scientifica”, come nei casi di Anamorfosi o de Lo specchio; può essere di carattere iconografico e cioè una ‘leggenda della forma’, come nelle Aberrazioni; infine può rivelarsi anche nel mondo delle favole, diventando così la “leggenda di un mito”, come nella Ricerca di Iside. Ciascuna leggenda che nasce dal risveglio di un mito, ne è, allo stesso tempo, una nuova stesura dal punto di vista letterario, così come in ambito figurativo la costante ripresa di determinate forme ha assegnato a queste figure sempre nuovi significati.

[55] H. Focillon, Sopravvivenze e risvegli formali, in I percorsi delle forme, cit., p. 138.

[56] Ibid., p. 142.

[57] Cfr. C. Lemoine, Photographie et cinéma chez Henri Focillon : illustrer, sérier, diffuser et enseigner. Le renouvellement d’une discipline, in «RACAR», 31, 1-2, 2006, pp. 55-63.

[58] Cfr. S.P. Brilmyer e F. Trentin, Toward an Inessential Theory of Form: Ruskin, Warburg, Focillon, «Criticism (Detroit)», 61.4, 2019, p. 495.

Seuil, Paris 1980.

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