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La chirurgia estetica come problema filosofico: le sue condizioni

Autore


Tommaso Ariemma

Università degli Studi di Parma

Dottore di ricerca in Filosofia, svolge attività di ricerca tra Napoli e Parma

Indice


  1. Necessità di un’indagine filosofica intorno alla chirurgia estetica
  2. La chirurgia estetica nasce all’interno di un processo di visualizzazione
  3. L’invasione degli anticorpi

 

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S&F_n. 04_2010


  1. Necessità di un’indagine filosofica intorno alla chirurgia estetica

Un vuoto esiste ormai da tempo negli studi di estetica: l’assenza di riflessioni tematiche sulla chirurgia estetica.

L’estetica, come disciplina filosofica, avrebbe già dovuto occuparsene, sia da un punto di vista esistenziale (perché esistenziali e non puramente cosmetiche sono le motivazioni che spingono all’intervento), sia dal punto di vista della sua definizione (qual è la differenza tra la chirurgia ricostruttiva e la chirurgia estetica?). Capita che la questione venga toccata qua e là, a titolo di esempio quando si tratta dell’estetica del corpo, con grande approssimazione.

Il fenomeno della chirurgia estetica è trattato maggiormente dalla sociologia e dalla psicologia, come del resto era prevedibile. Ma in questo caso tale fenomeno non mostra né le sue vere radici, che sono filosofiche (relative ai concetti di bellezza, benessere, verità, singolarità etc.), né la “produzione di pensiero” che continuamente avanza.

Gli argomenti del mio Contro la falsa bellezza. Filosofia della chirurgia estetica[1] cercano di muovere i primi passi in questo ambito. Ho cercato di mettere a fuoco le condizioni che rendono possibile l’intervento da parte di un numero sempre maggiore di persone e di decostruire le tesi che implicitamente la cultura della chirurgia estetica sostiene.

In questa sede vorrei soffermarmi ancora sulle condizioni necessarie che hanno portanto alla diffusione di tale chirurgia. Mi soffermerò su una condizione già indagata nel mio studio, ovvero il processo di visualizzazione, ma anche su qualche altra condizione che promette sviluppi successivi della ricerca.

Le condizioni di cui mi occupo sono condizioni non esibite, ovvero delle condizioni che non emergono a una prima ricognizione storica. Quando pensiamo alle condizioni che hanno reso possibile la chirurgia estetica giungiamo subito agli sviluppi delle techiche mediche e alla scoperta degli anestetici. Sono delle condizioni necessarie, senza dubbio, e sono delle condizioni esibite, cioè evidenti. Le ritroviamo materialmente come presupposti di ogni intervento.

La mia indagine vuole rintracciare, invece, delle condizioni non molto evidenti, ma al tempo stesso necessarie. Condizioni culturali di lunga durata, ma anche condizioni ambientali contemporanee.

 

  1. La chirurgia estetica nasce all’interno di un processo di visualizzazione

Per sottoporsi all’intervento bisogna avere, in primo luogo, una chiara percezione del proprio corpo. Bisogna vedersi.

Ora, la nostra epoca fornisce immagini della propria persona in una misura enormemente superiore a ogni altra epoca precedente. Arte e scienza hanno collaborato a lungo per ottenere la progressiva e sempre più definita immagine di sé.

È questo ciò che chiamo processo di visualizzazione[2], un’espressione che richiama il celebre processo di civilizzazione teorizzato da Norbert Elias – secondo cui la nostra società va verso un progressivo controllo delle espressioni corporee – e gli studi sulla visualizzazione dello storico dell’arte Martin Kemp. Secondo quest’ultimo, sulla base delle sue ricerche intorno ai rapporti tra arte e scienza, dal Rinascimento all’avvento della fotografia ci sarebbe un progressivo potenziamento della visualizzazione. Scrive:

“Visualizzazione” è per me una comoda espressione sintetica per indicare che vi è un importante insieme di strumenti concettuali che interagiscono in maniera costante e necessaria con l’esperienza concreta del mondo che facciamo attraverso i nostri occhi e le nostre mani [...]  Dal Rinascimento, con le macchine da disegno per la rappresentazioni di oggetti in prospettiva, al Seicento, con la camera oscura, vi è il desiderio di raggiungere uno stile di tipo impersonale. La fotografia è in un certo senso la suprema espressione di tutto ciò[3].

 

Tuttavia Kemp non vede un compimento di tale visualizzazione né la natura letteralmente rivoluzionaria della fotografia. Grazie a quest’ultima, infatti, il vedente si vede, produce un’immagine di sé senza precedenti. Preferisco parlare allora di processo di visualizzazione, e non di semplice visualizzazione, perché il primato della sfera visiva, e soprattutto il suo potenziamento, va in una direzione ben precisa: produce un progressivo controllo dei soggetti stessi. Coloro che riescono finalmente a vedersi si controllano, si esaminano.

In questo senso il processo di visualizzazione esplicita quello che Norbert Elias ha chiamato processo di civilizzazione, individuando una connotazione insieme artistica, scientifica, tecnologica, radicata del resto nella tradizione filosofica classica.

Il primato della visione, nell’esperienza e nella conoscenza, è stato istituito da Platone e domina ancora oggi la nostra società. Questo primato ha trovato nelle tecnologie il suo potenziamento, divenendo un vero e proprio processo, e nella chirurgia estetica una delle sue più inquietanti conseguenze.

 

  1. L’invasione degli anticorpi

Un’altra condizione per la diffusione della chirurgia estetica è ciò che potremmo chiamare “l’invasione degli anticorpi”, intendendo con anticorpi quei corpi che ci stanno costantemente davanti: ossia i corpi modellati dal design industriale, gli oggetti che costantemente aggiornano la loro forma. La loro diffusione, la loro forma, insinua in noi qualcosa.

Sappiamo da sempre che gli oggetti ci parlano, in un certo senso. Celebre è, per fare qualche esempio, l’imperativo che Rilke ricavava dalla visione dalla statua del torso di Apollo: “Devi cambiare la tua vita”. Ma se le opere d’arte avanzano da sempre questi imperativi, è anche vero che il loro messaggio resta vago. Altri oggetti, come quelli frutto del design industriale, avanzano degli imperativi più circoscritti e più inquietanti.

In apertura del suo saggio Corpi, la psiconalista Susie Orbach scrive:

Ogni giorno la mia casella di posta elettronica, come quella di molti, si riempie di inviti a ingrandirmi il pene o i seni, ad acquistare quell’amplificatore di piacere e prestazioni che è il Viagra o a provare l’ultimo intruglio farmaceutico o fitoterapico per dimagrire. Queste esortazioni aggirano il filtro antispam proprio come raggirano le riviste di divulgazione scientifica, che decantano miracolosi interventi chirurgici e pillole per migliorare corpo e mente, e nuovi metodi riproduttivi che scavalcano la biologia convenzionale. Nel frattempo, sul sito web missbimbo.com le ragazzine possono creare una bambola virtuale, mantenerla magra con pillole dietetiche e comprare per lei seni nuovi e lifting facciali. Le giovani utenti vengono addestrate a sognare nasi rifatti, seni nuovi e cosce sode, mentre compulsano riviste in cui, pagina dopo pagina, sfilano immagini di modelle scheletriche la cui somiglianza con le vittime di carestie solo una decina di anni fa avrebbe fatto inorridire i lettori. Allo stesso tempo, cupe dichiarazioni governative lanciano allarmi sull’epidemia di obesità. Il vostro corpo, sbraitano questi fenomeni, è una tela bianca: da aggiustare, ricostruire, migliorare. Avanti, fatevi sotto. Divertitevi anche voi a modificarlo. [...]  I giornalisti riempiono intere riviste di consigli su come occuparsi di sé. I programmi televisivi si concentrano sui vantaggi, sulla necessità e sulla superiorità morale del prestare attenzione a salute e bellezza. I politici esortano ognuno ad assumersi le proprie responsabilità. Al contempo, lo spazio visivo viene trasformato da un’intesificazione delle immagini di corpi e di parti di corpo, in modi che astutamente comunicano la necessità di rimodellare e “aggiornare” il proprio. Senza nemmeno rendercene conto, potremmo accettare di buon grado l’invito per timore di restare indietro[4].

 

Nonostante rilevi una vergogna diffusa per il proprio corpo e un costante desiderio di aggiornamento, Orbach non coglie come un tale malessere sia dovuto allo stretto contatto con certi oggetti.

Il già citato Rilke temeva la diffusione degli oggetti industriali. Li chiamava “cose che urgono dall’America” ed erano capaci, secondo il poeta, di alterare il nostro rapporto con le cose.

Tuttavia, una tale  previsione non è poi tanto radicale.

Il filosofo Günther Anders si è spinto molto più in là e ha centrato il problema, seppure all’interno della sua visione complessivamente catastrofista e tecnofoba della società industriale. Anche se non condivido molto della sua analisi, questa presenta dei momenti di lucidità estrema. Soprattutto quando riflette sul fatto che la modellizzazione degli oggetti ha un impatto sulla percezione del proprio corpo. L’uomo si vergogna di non essere cosa. Il suo corpo è modellato male, si deteriora facilmente. Scrive Anders:

[...] Vergognandosi cioè di non essere una cosa, l’uomo ha compiuto un passo innanzi nella storia della sua riduzione a cosa: è arrivato al punto di riconoscere la superiorità delle cose, di mettersi sul loro stesso piano, accetta la propria riduzione a cosa e rifiuta di non essere ridotto a cosa, lo considera un difetto.[...] Non solo il suo punto di vista è ormai il loro, non solo ha adeguato il suo metro di giudizio al loro, ma anche i suoi sentimenti. Egli si disprezza così come le cose, se lo potessero, disprezzerebbero lui[5].

 

Gli oggetti modellati dal design industriale non suggeriscono alle persone di cambiare semplicemente il proprio abito, ma ciò che per molto tempo è stato assai difficile da cambiare: la forma del proprio corpo, la qualità di questa forma. Gli oggetti alterano, dunque, l’atmosfera sociale e ogni nostro bisogno di aggionamento, di cambiamento del nostro corpo deve prendere in considerazione gli effetti collaterali della loro compagnia.

Interrogandosi sul futuro della chirurgia estetica, la sociologa Rossella Gighi intravede il suo sviluppo più radicale e logico: l’ingegneria genetica. Scrive nel suo documentato studio sulla chirurgia estetica:

Secondo alcuni, il vero futuro del perfezionamento estetico sarebbe l’ingegneria genetica. Il passato storico dell’eugenetica ha sempre gettato un’ombra inquietante sull’idea di perfezionare le future generazioni prima ancora della nascita. L’appello al «freno naturale» o «biologico» della corsa al miglioramento trova però una valida obiezione nella costatazione che ciò che è «naturale» è mutato nel tempo. Anche il ricorso all’argomentazione secondo cui il perfezionamento è «velleitario» o «frivolo» soccomberebbe di fronte alla relatività del sistema valoriale di ognuno. A rigor di logica, è stato sostenuto, se potessimo programmare per i nostri figli un futuro migliore,  fatto anche di un corpo già adeguato alla società che li aspetta, se fosse possibile scegliere per loro gli occhi, il naso, l’altezza, il volto che socialmente saranno pià apprezzati quando diventeranno grandi, se potessimo evitare loro di dover un giorno passare per il bisturi, perché, in fondo, non dovremmo concederglielo?[6]

 

La molteplicità delle forme e dei tratti umani è a rischio. L’immagine di noi stessi che riusciamo a vedere può divenire la parete della nostra prigione visiva e sociale. La vita umana, piuttosto che essere entrata nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, è piuttosto entrata nell’epoca del suo design.

 


[1] T. Ariemma, Contro la falsa bellezza. Filosofia della chirurgia estetica, Il melangolo, Genova 2010.

[2] Ho approfondito tale concetto in T. Ariemma, Immagini e corpi. Da Deleuze a Sloterdijk, Aracne, Roma 2010.

[3] M. Kemp, Immagine e verità, a cura di M. Wallace e L. Zucchi, Il saggiatore, Milano 2006, pp. 34-35.

[4] S. Orbach, Corpi, tr. it. Codice, Torino 2010,  p. IX, p. XIII.

[5] G. Anders, L’uomo è antiquato, vol.1, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2006, pp. 37-38.

[6] R. Ghigi, Per piacere. Storia culturale della chirurgia estetica, il Mulino, Bologna 2008, p. 216.

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