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Il consenso tra filosofia e scienze della mente. Una questione epistemologica e politica

Autore


Luca Mori

Università di Pisa

svolge attività di ricerca presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pisa e per il Laboratorio filosofico sulla complessità Ichnos (Rosignano M.mo/Pisa)

Indice


  1. Scienze della mente e pensiero politico
  2. Psicologia politica
  3. Letture selettive della storia della filosofia
  4. Tra indagine empirica e idealizzazione

 

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S&F_n. 04_2010


  1. Scienze della mente e pensiero politico

L’edizione italiana del saggio The Political Mind di George Lakoff, fin dalla scelta di traduzione del titolo, Pensiero politico e scienza della mente[1], segnala un intreccio disciplinare sempre più frequentato, tanto interessante quanto delicato da affrontare. Lo si ritrova nelle ultime ricerche del sociologo Manuel Castells, nel suo tentativo di svolgere un discorso sul potere appoggiandosi a teorie e ricerche sperimentali condotte nei campi delle neuroscienze, delle scienze della cognizione e della psicologia politica[2]. Il terzo capitolo del saggio Communication Power di Castells, a proposito di reti della mente e potere, ha come principali punti di riferimento Antonio Damasio (da L’errore di Cartesio fino Alla ricerca di Spinoza), Hanna Damasio, George Lakoff e Drew Westen[3]. Assumendo che «la forma più fondamentale di potere consiste nell’abilità di plasmare la mente umana» (p. XX), Castells si rivolge alle scienze sopra menzionate per avere lumi sui processi che presiedono alla creazione e alla manipolazione delle «immagini mentali (visive o meno) nel cervello» (p. 169).

Poiché i processi associati alla creazione e alla manipolazione delle immagini mentali sono radicati nel corpo – così come lo sono le metafore per Lakoff – le immagini mentali rimandano a configurazioni di attività delle reti neurali e il power building riferito a “menti incorporate” cognitive ed emotive non è possibile se non come image building, costruzione d’immagini.

Drew Westen, docente di psicologia alla Emory University di Atlanta, oltre a essersi guadagnato buona fama come saggista, ha una sua agenzia di consulenza politica, la Westen Strategies, il cui motto recita «Persuasion is about networks and narratives». Nella home page si trova la seguente precisazione: «Persuasion is about activating the right networks». Le reti giuste da attivare sono anzitutto quelle neurali, come chiarisce un’altra frase in primo piano, secondo cui «per mobilitare le persone, devi comprendere le reti neurali (neural networks) che connettono le idee, le immagini e le emozioni delle loro menti».

A proposito della connessione tra emozioni e giudizio, Castells e Lakoff richiamano gli studi che mostrano la connessione tra circuito della dopamina, che presiede alle emozioni positive, circuito della norepinefrina, che presiede alle emozioni negative, e prosencefalo, dove si svolgerebbe gran parte dei processi decisionali.

Sottolineare il ruolo delle emozioni non significa sostenere che quello che generalmente chiamiamo “giudizio” non eserciti un ruolo nel prendere le decisioni, comprese quelle di voto: ciò su cui si invita a riflettere è piuttosto l’esigenza di definire diversamente la facoltà di giudizio, riconoscendo che nel suo esercizio giocano un ruolo cruciale le emozioni, fin dal momento della selezione delle informazioni. Secondo il punto di vista abbracciato da Castells, il giudizio non si esprime infatti nello spazio trasparente di una razionalità disincarnata, ma in uno spazio per così dire “curvo”, esposto al peso delle “forze” emotive associate a circuiti di configurazioni neurali, attivati o rinforzati da frames, strutture narrative, metafore e associazioni d’immagini.

Sono indicative dell’approccio di Castells, ad esempio, le considerazioni dedicate alla paura, con il richiamo a studi, come quello di Ted Brader[4], che dimostrerebbero come entusiasmo e paura siano due fattori motivazionali particolarmente sollecitati durante le campagne ed effettivamente influenti sul comportamento di voto.

George Lakoff, dal canto suo, studia in particolare i rapporti tra linguaggio e politica, concentrandosi sui meccanismi attraverso cui le parole veicolano frames, “cornici”, schemi di interpretazione del mondo, generando associazioni e comportamenti, fissando credenze e preferenze[5].

Decisivo, secondo Lakoff, è il peso dell’inconscio cognitivo:

la scienza della mente ha illuminato un vasto panorama di pensiero inconscio: il 98 per cento dell’attività mentale ha luogo senza che ne siamo consapevoli[6].

 

Qui Lakoff si riferisce ai lavori del neuroscienziato Michael Gazzaniga, notando che una percentuale così espressa

a rigore, ha poco senso poiché non è possibile contare realmente i pensieri. Tuttavia, la percentuale sembra più o meno corretta.

 

Non si tratta qui di un inconscio freudiano, ma del fatto che interpretiamo il mondo attraverso frames, associazioni e schemi narrativi di cui non siamo consapevoli. Le strutture drammatiche attraverso cui leggiamo il mondo, secondo l’ipotesi fatta propria da Lakoff, sarebbero incorporate in una rete di percorsi che coinvolgono il sistema limbico, in cui si trovano due «percorsi emozionali con due differenti neurotrasmettitori», il circuito della dopamina e quello della norepinefrina. Vediamo in termini di narrazioni come attraverso dispositivi prospettici frapposti tra noi e gli eventi. Riprendendo l’ipotesi del marcatore somatico di Damasio, è come se un contrassegno radicato nel corpo determinasse in modo quasi automatico reazioni caratteristiche a certi tipi di immagini e storie, forzando la nostra attenzione e facendoci propendere più facilmente ad alcune opzioni anziché ad altre.

 

  1. Psicologia politica

Fin dal 1957 Vance Packard annunciava, nel saggio intitolato I persuasori occulti, la nascita di una nuova scienza e

un aspetto nuovissimo, ancora misterioso e si potrebbe dire esotico della vita americana. Molti di noi […] vengono oggi influenzati assai più di quanto non sospettino, e la nostra esistenza quotidiana è sottoposta a continue manipolazioni di cui non ci rendiamo conto[7].

 

Packard richiamava l’attenzione sull’adozione delle tecniche pubblicitarie nella comunicazione politica e sull’uso strategico di sondaggi e «simboli, convenientemente manipolati e reiterati».

E a mezzo secolo di distanza sono ancora molte le discipline che si occupano di studiare il comportamento politico con approccio scientifico. La comparsa e lo sviluppo di nuovi approcci di ricerca induce a interrogarsi sulle relazioni possibili tra discorso filosofico e scientifico, tenendo presente che l’interdisciplinarietà costituisce una sfida anche all’interno del campo delle scienze. La psicologia politica, ad esempio, si concepisce espressamente come scienza interdisciplinare[8]. I fenomeni che essa pretende di studiare a varia scala, dalle dinamiche locali a quelle globali, riguardano i multiformi intrecci tra scelte politiche, caratteristiche di personalità degli attori coinvolti, processi di pensiero, motivazioni, emozioni e dinamiche di gruppo: si apre così un confronto, oltre che con la scienza politica, con la psicologia sociale, la sociologia e i più recenti sviluppi delle neuroscienze.

Ci si richiama al metodo scientifico come possibile fattore coesivo e come garanzia di senso nella traduzione tra i linguaggi: tale metodo comporta l’osservazione dei comportamenti, il riconoscimento di variabili influenti, la formulazione di ipotesi sui nessi tra variabili e comportamenti osservati e tra variabili e variabili, la progettazione di osservazioni ed esperimenti che consentano la selezione tra ipotesi alternative, la proposta di spiegazioni e l’esecuzione di procedure di messa a prova.

Le stesse teorie del marketing politico e i modelli sul comportamento dell’elettore e sugli effetti dei mass media fanno riferimento alle ricerche empiriche e al metodo scientifico: ma non si è arrivati, né è prevedibile che si arrivi a una concezione capace di imporsi in modo netto, anche perché il panorama delle piattaforme mediali e la composizione dell’elettorato sono in costante mutamento. A essere interessante è peraltro il confronto tra i differenti modelli e i punti di vista che essi veicolano su questioni come le seguenti: effetti della ripetizione e della frequenza dei messaggi nei mass media, modalità ed effetti del framing, dinamica della formazione delle credenze e della ricerca di conferme nell’elettore, importanza relativa di issues, parole e “immagini” (simboli, slogan, immagine del leader e così via), effetti dell’agenda building e del silenzio nell’influenzare la percezione delle priorità, caratteristiche dei messaggi ad alto potenziale di diffusione “virale” (secondo l’accezione della memetica o del viral marketing).

Il proliferare di modelli del comportamento politico elaborati con la metodologia della ricerca empirica, quando non passa inosservato, suscita reazioni differenti tra i filosofi, dalla curiosità alla diffidenza più o meno argomentata. Non mancano motivi di perplessità anche tra coloro che ritengono di studiare il fenomeno con metodo scientifico, giacché a livello mediatico e sul piano della consulenza le ricerche rigorosamente impostate incontrano la concorrenza di teorie disegnate in modo affrettato, ma alla moda.

Per chi studia filosofia della politica, che si condividano o meno impostazioni e pretese di generalizzazione delle varie indagini empiriche, sembra diventare sempre più importante confrontare linguaggi e modelli, anche perché i progetti di ricerca condotti con metodologia empirica hanno un impatto massiccio sulle democrazie contemporanee, in quanto ne segnalano le trasformazioni e contemporaneamente – ispirando ad esempio il lavoro dei consulenti di marketing politico e degli spin doctors – stanno contribuendo a trasformarle.

 

  1. Letture selettive della storia della filosofia

Secondo George Lakoff c’è una

vecchia idea di ragione, risalente all’Illuminismo, secondo la quale la ragione è conscia, letterale, logica, universale, sottratta alle emozioni, incorporea e funzionale agli interessi di chi la esercita[9].

 

Tale concezione non ci permetterebbe di capire nulla riguardo a processi e fattori alla base del consenso politico, che non è l’esito di calcoli consapevoli, di un soppesare e di un pattuire espliciti su condizioni e contenuti razionalmente definiti.

L’analisi di Lakoff, su questo punto, deve essere contestata e studiata come un esempio delle letture selettive della storia della filosofia politica[10]. Lakoff liquida la tradizione del pensiero politico occidentale con queste poche righe:

Le nostre menti funzionano in modo molto diverso da quello che pensavano Cartesio e Kant. Noi siamo creature di gran lunga più affascinanti di quello che credevano i nostri grandi filosofi della politica, da Platone e Aristotele a Rousseau, Hobbes, Locke, Marx, J.S. Mill e John Rawls[11].

 

In due brevi proposizioni troviamo appiattiti su uno sfondo omogeneizzante pensatori molto diversi tra loro, che in realtà hanno dato contributi non sottovalutabili proprio per il discorso che Lakoff vuole proporre. Basterebbe pensare al Platone della Repubblica e delle Leggi o all’Aristotele della Poetica e della Retorica: il primo ci parla di un’anima (psyché) tripartita e polimorfa, in cui la parte razionale è continuamente assediata da quella “animosa” e da quella “appetitiva” o concupiscibile, opaca e irrazionale; ne consegue che il consenso può dipendere dai miti raccontati da chi detiene il potere, più che dalle argomentazioni di cui è capace; Aristotele affrontava invece, con analisi raffinate e tuttora stimolanti, il rapporto tra vero, verosimile e credenze, interrogandosi sui motivi alla base del paradosso che i padri siciliani della retorica avevano scoperto e sfruttato fin dal V secolo a.C.: una narrazione verosimile ben costruita può essere più credibile di una narrazione vera, cosicché per ottenere il consenso e convincere conviene puntare al miglior verosimile più che al vero.

Gli esempi si potrebbero moltiplicare, soprattutto considerando gli studi che, già nel passaggio tra XIX e XX secolo e poi per tutto il Novecento, trattarono di consenso in relazione alle tecniche di propaganda, alla psicologia delle folle o delle masse, agli effetti dei mezzi di comunicazione di massa e così via. Questa storia è il “punto cieco” del saggio di Lakoff, che a tratti sembra voler proporre una fenomenologia del consenso politico soltanto in relazione alle acquisizioni più recenti della scienza della mente. Il che comporterebbe una riduzione di complessità, anziché quell’incremento di complessità che il saggio di Lakoff effettivamente può consentire, nell’analisi dei processi che presiedono alla comparsa e al consolidarsi delle credenze, alla presa persuasiva delle narrazioni, alla propagazione di frames e, attraverso tutti questi passaggi, alla formazione del consenso nelle democrazie contemporanee.

 

  1. Tra indagine empirica e idealizzazione

Drew Westen e George Lakoff, pensando soprattutto al Partito Democratico e allo scenario politico degli Stati Uniti, intendono proporre un modello data-driven per lo studio del linguaggio politico democratico  e per la sua gestione in modo tale da renderlo accettabile anche al centro. I capisaldi della loro impostazione sono l’indagine empirica, lo studio di casi e la formulazione delle teorie con approccio scientifico.

Come abbiamo visto, Lakoff liquida sbrigativamente la storia della filosofia. Sbrigativamente perché non tiene conto del fatto che i filosofi, a partire da Platone, non hanno trascurato l’indagine empirica, tenendo conto di volta in volta dei saperi e dei modelli di ricerca accessibili. Oltre ai citati Platone e Aristotele, potremmo ricordare che Cartesio non è soltanto il filosofo del Cogito interessato alla res cogitans, ma uno studioso appassionato della res extensa, delle passioni e dei nessi tra sostanza pensante e sostanza corporea (essendo, quello di Cartesio, un dualismo interazionista, che per quanto paradossale lo si voglia ritenere indirizzava la ricerca in una direzione diversa da quella che Lakoff gli attribuisce); quanto a Thomas Hobbes, la prima parte del Leviatano è dedicata all’uomo e, più precisamente, a fattori come il senso, l’immaginazione, la successione delle immaginazioni e le passioni, che intervengono nel discorso e nel calcolo di una ragione tutt’altro che disincarnata.

Simili precisazioni sono importanti non soltanto per una doverosa correzione di tipo filologico e storiografico, ma anche per segnalare che filosofia e scienza possono incontrarsi tra gli estremi delle ipotesi basate sull’indagine empirica e le idealizzazioni. Mettere a confronto i linguaggi e le prospettive eterogenee della filosofia e della scienza è dunque importante per moltiplicare i punti di vista e per rielaborare costantemente le metafore di cui la filosofia e la stessa scienza continuano a servirsi. Non si può semplicemente pensare che le importanti scoperte e i programmi di ricerca impostati con una metodologia scientifica, in questo campo, arrivino a liquidare o sostituire in toto ciò che la filosofia della politica o la scienza politica hanno da dire. Le idealizzazioni della filosofia sono state per lo più concepite per attivare una tensione tra il piano descrittivo (il “così è”) e quello normativo (il “così dovrebbe essere”): in tale tensione, i filosofi hanno talvolta proposto progetti e concezioni politiche differenti dall’esistente.

Immaginare una società più o diversamente giusta e il consenso a partire dall’autonomia, ad esempio, sollecita a interrogarsi sui vincoli e sulle possibilità di cui gli uomini dispongono per “cambiare” l’esistente, le proprie abitudini e le proprie relazioni, con l’educazione e le istituzioni. Sono domande che riguardano il “come potrebbe altrimenti essere”, che la scienza non può ignorare, così come la filosofia non può ignorare il richiamo dell’indagine empirica a “ciò che appare di fatto essere”.

 


[1] G. Lakoff, Pensiero politico e scienza della mente (2008), tr. it. Bruno Mondadori, Milano 2009.

[2] M. Castells, Comunicazione e potere (2009), tr. it. EGEA, Milano 2009.

[3] A. R. Damasio, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano (1994), tr. it. Adelphi, Milano 1995; Id., Alla ricerca di Spinoza: emozioni, sentimenti e cervello (2003), tr. it. Adelphi, Milano 2003; G. Lakoff, op. cit.; D. Westen, La mente politica. Il ruolo delle emozioni nel destino di una nazione (2007), tr. it. Il Saggiatore, Milano 2008.

[4] T. Brader, Campaigning for Hearts and Minds, Chicago University Press, Chicago 2006.

[5] Per dire che le azioni hanno una struttura a frame: V. Gallese, G. Lakoff, The Brain’s concepts: The role of the Sensory-Motor System in Conceptual Structure, in «Cognitive neuropsychology», 22, 2005, pp. 455-479.

[6] G. Lakoff, op. cit., p. 3. Cfr. A. Rock, The Mind at Night, Basic Books, New York 2005.

[7] V. Packard, I persuasori occulti (1957), tr. it. Einaudi, Torino 1989, p. 5.

[8] Cfr. M. Cottam, B. Bietz-Uhler, E. M. Mastors and T. Preston, Introduction to Political Psychology, Lawrence Erlbaum Associates, Mahwah-London 2004.

[9] G. Lakoff, op. cit., p. 2.

[10] Tema messo in evidenza, in altro contesto, da K. A. Appiah, Experiments in Ethics, Harvard University Press, Cambridge-London 2008.

[11] G. Lakoff, op. cit., pp. 321-322.

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