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Il peso dell’arte. Rappresentazione e catarsi

Autore


Rossella Bonito Oliva

Università degli Studi di Napoli - L'Orientale

Indice


  1. Il tratto effimero
  2. Dal disordine alla figura
  3. L’escamotage metafisico
  4. Parti mobili e parti fisse

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S&F_n. 04_2010


  1. Il tratto effimero

Esiste una antica tecnica di disegno in India chiamata Mandala eseguita con la sabbia che ha il suo fulcro nella figura del cerchio per svilupparsi armonicamente in variazioni e figurazioni cromatiche plurali. La compiutezza del circolo rende possibile tracciare una linea di confine al cui interno possono svilupparsi le forme più diverse e articolate, proprio in quanto trattenute e incastonate nella misura della circonferenza.

Jung ritrova la presenza di questi mandala nella vita psichica non tanto all’interno di una creazione artistica cosciente, ma come concrezione figurativa dello psichico, per esempio nei sogni[1]. Essi possono dar luogo a un riequilibrio attraverso la misura smarrita a causa di un qualsiasi evento turbativo. Come nel sogno, anche nei riti buddistici, il mandala è destinato a breve vita, giacché è il fatto stesso del dileguarsi di questa rappresentazione di armonia e di equilibrio a produrre la spinta alla ricerca di una rinascita. Non è solo il gusto per l’Oriente a suggerire a Jung questa associazione, ma l’idea stessa che lo psichico si raccolga o comunichi per immagini, come accade nei miti antichi. La bellezza e la complessità di significato di questa figura sono strettamente legate al suo essere effimera, priva di un potere educativo o morale: suggerisce più che indicare strade, accenna più che proporre.

Anche Bateson in tutt’altro contesto sottolinea l’utilità dell’uso di immagini per la comprensione della coppia mente/natura, rimarcando la possibilità di uscire da distinzioni e polarizzazioni artificiose, più ispirate dalla divisione disciplinare che dai contesti operativi, attraverso strutture che possano spiegare la tessitura del mondo nella vita della materia, come della mente attraverso configurazioni più che attraverso formule. In un contesto diverso e con altra funzione Bateson, infatti, si serve di un’immagine già evocata da Valery per interpretare il rinvio complesso tra ciò che chiamiamo natura – assumendola soltanto come dato a noi esteriore – e la nostra mente: il disegno a spirale di una conchiglia[2]. Se Valery si dice incuriosito e insieme sollecitato a riflettere nel guardare la perfetta forma della conchiglia, stupito dalla perfezione della forma nell’assenza di una mano e di una mente artefici,  Bateson riconosce nella spirale della conchiglia la struttura della vita conservata come sua traccia anche dopo il distacco del mollusco. Ogni semplice osservazione come ogni puntuale spiegazione non basta a render ragione della perfezione e la bellezza di questa figura, è necessario invece un cortocircuito tra fantasia e intelligenza che legga questa geometria come traccia di un movimento né rettilineo, né continuo[3]. Un complesso gioco di spostamenti all’interno di un figura perfetta dal punto di vista della forma si rende comprensibile secondo Bateson solo in virtù di un che di invisibile: la struttura della vita stessa là dove venga considerata nella complessità delle sue connessioni nella dipendenza tra stabilizzazione e trasformazione.

Ancora in questa prospettiva Adolf Portmann afferma che

la funzione globale dello scienziato naturalista, della quale abbiamo parlato, può essere riconosciuta soltanto da chi sia capace di intuire il vasto e misterioso mondo interiore, la grandezza del profondo creativo inconscio, da chi sa che, soltanto attraverso questa attività nascosta, la realtà esterna è in grado di trovare la sua collocazione e il suo significato[4].

 

Invisibile rimane per Portmann l’intera rete dei legami del vivente che metaforicamente traduce la spirale nell’immagine della curva aperta tra organismo e ambiente. Ogni vivente, infatti, si costruisce una modalità di relazione, una percezione di sé, attraverso il sistema sensoriale da cui riceve input non sempre puntuali e diretti, in quanto è esso stesso parte, a sua volta, di una totalità più ampia di connessioni. Né l’organismo, né l’ambiente hanno uno status di fissità o di assolutezza, ma si intrecciano nella duplice istanza del principio di conservazione delle strutture consolidate e della necessità di trasformazione, nella misura in cui l’esterno provoca, sollecita fino a portare al punto di crisi queste strutture, che sono perciò identificative e difensive allo stesso tempo. Vi è un continuo passaggio dal disordine all’ordine coerente al movimento del vivente più vicino alla curva sinuosa della spirale che alla fissità di proposizioni scientifiche. L’immagine della spirale restituisce intuitivamente questa complessa catena di relazioni, offrendo alla scienza una griglia non certo esplicativa o dimostrativa, sicuramente però d’ausilio all’intelligenza dei fenomeni, come già Kant aveva suggerito.

 

  1. Dal disordine alla figura

Quando Bateson spiega l’entropia come «grado di mescolanza, disordine, indifferenziazione, imprevedibilità e casualità delle relazioni tra le componenti di un qualunque aggregato», non solo fisico[5], introduce l’entropia negativa come ristabilimento di condizioni di equilibrio risultante dalle due forze: quella conservativa dell’organismo e quella destabilizzante proveniente dall’ambiente esterno. Dal disordine perciò procede l’ordine nell’intreccio tra tendenza alla conservazione e sollecitazione al cambiamento, che inquieta, ma non produce una sintesi, né un’aggregazione, né tanto meno una stasi. Quanto più l’organismo è in grado di attivare relazioni tanto più è stimolato alla tensione tra conservazione e trasformazione, dal momento che le informazioni che riceve sono date precisamente dall’emergenza delle differenze e la capacità di attivare un’entropia negativa si gioca nel potere di annullare gli effetti di imprevedibilità, di disordine che potrebbero determinarne la morte. Un complesso reticolo si distende lungo una spirale in cui ogni trasformazione proviene e incide sui tratti già consolidati, là dove la capacità di conservazione decide della possibilità di sopravvivenza dell’organismo allo choc ambientale.

Nell’allargarsi del raggio e nel moltiplicarsi delle sinuosità scorre il mistero che richiede di spostarsi dall’astrazione quantitativa e polarizzante all’intuizione della continuità del ritmo del divenire: ogni processo è difesa del consolidato e adattamento ai mutamenti continui e imprevedibili, il risultato, nella sua configurazione e nella sua durata, è sempre derivante delle due componenti e dalla lenta verifica del successo delle mutazioni, prima provvisorie, poi consolidate, ai fini della sopravvivenza. Solo un’immagine che non pretenda  alla spiegazione definitiva e assoluta potrà dar forma a questo insieme comunque provvisorio e mobile, che obbedisce a condizioni radicate nella profondità invisibile.

Questo il motivo per cui Edgar Morin[6] suggerisce un pensiero dialogico multidimensionale, che si muova tra piano estetico e piano sperimentale, in cui far recedere l’illusione di una certificazione assoluta nell’assunzione della complessità come dato e sfida della ricerca scientifica.

Isabelle Stengers, poi, richiama la funzione della memoria culturale, quando «reintroduce il mondo tra noi e noi», dà «un senso e una misura alla pertinenza e favorisce all’occorrenza l’innovazione teorica»[7], in cui si produce quel cortocircuito tra mente e natura, che connette epistemologia, logica, antropologia, psicologia. Non si tratta di errori da correggere, di primati da far valere, quanto di assumere la relazione e il movimento attraverso strutture che sottendono fenomeni di specie e momenti diversi, registrando da un lato l’istanza conservativa – comune all’organismo come alla mente umana considerate all’interno di un contesto ambientale – dall’altro l’occorrenza dell’innovazione evolutiva o teorica.

Il dato culturale stesso diviene specchio degli spostamenti di ciò che chiamiamo natura, in quanto la cultura è essa stessa prodotto della curva tra tensione conservativa e stimolo innovativo.

La complessità non è data dall’assommarsi di dati, la complessità si costituisce piuttosto nell’infinita serie di circuiti che legano l’elemento più piccolo a quello più articolato all’interno della rete delle relazioni tra organismi, menti, vita. Si apre perciò un rinvio continuo tra esterno, di cui entra a far parte evidentemente anche il dato culturale acquisito come patrimonio scientifico, e interno, che si configura anche nella risposta nella forbice tra acquisito e stimolo originale, che fa della mente un organismo vivente e dell’organismo vivente una mente.

 

  1. L’escamotage metafisico

Bergson prima[8] e Merleau-Ponty poi[9] hanno richiamato la necessità di una via metafisica, in grado di trovare connessioni tra punti di fissazione e scarti differenziali prodotti tanto nei contesti delle interazioni tra organismo e mondo, quanto nell’intreccio tra individuo e specie tra natura e cultura, in quanto fuori dalle polarizzazioni scientiste che finiscono per determinare una forma mentis incapace di leggere l’estetica della natura.

Si esce in definitiva dalla difficoltà soltanto sospendendo la distinzione tra esterno e interno, spaziale e temporale, utili in una prima fase di orientamento e sperimentazione, ma troppo artificiosi rispetto al piano concreto dell’esperienza. L’interrelazione tra processi di strutturazione della mente e processi di strutturazione della natura può essere raffigurato come un’onda che talvolta si ingrossa, talvolta si infrange, altre ancora si allunga, portando con sé, in un’unica massa, soggettivo e oggettivo.

Più che la contrapposizione potrebbe funzionare l’espediente dello specchio, attraverso cui K. Lorenz pensa di gettare uno sguardo all’«altra faccia dello specchio»[10]. Anche immaginando come fa Leonardo di poter offrire le linee di sviluppo come in uno specchio, permane l’assoluta complementarietà di osservatore e osservato, senza la quale si danno solo tratteggi incompiuti. Bateson ritrova nell’altra parte dello specchio più che il momento nobile dell’uomo, «le radici della simmetria umana, la sua bellezza e la sua bruttezza […] Dopotutto la parola stessa “animale” significa “dotato di mente e di spirito”»[11].

In questo orizzonte ogni teoria antropologica, in qualche modo, mette in luce l’istanza pragmatica di determinazione individuando nella struttura universale della configurazione dell’umano la risposta riequilibrante di un difetto o di un eccesso nella duplice direzione della difesa e del disciplinamento.

In ogni caso la domanda come la risposta testimoniano della difficoltà di giungere al profilo unitario di un genere in divenire, presentando nella teoria il livello di autoconsapevolezza e di autorappresentazione degli uomini egemonica in una data epoca[12]. L’uomo in forme diversificate finisce perciò per vedere sempre se stesso, perché è l’oggettività stessa in senso assoluto che gli risulta impraticabile, svelando il valore creativo più che relativo dell’essere prospettico di questo animale dotato di mente e di spirito. L’“altra faccia dello specchio”, perciò, come nel caso del racconto di Carroll, offre spazio a favole, immagini che delineano figure provvisorie per costellazioni in movimento, offrendo materiale per l’artificio umano per eccellenza che è l’arte.

 

  1. Parti mobili e parti fisse

Se siamo stati abituati a immaginare le strutture, salvo quelle della musica, come cose fisse[13], l’ostinata ricerca di fissità presente nelle scienze produce obsolescenza più che stabilità. Nell’obsolescenza in quanto sintomo di senescenza si rivela una resistenza, una distonia relazionale, che sbilancia l’equilibrio tra conservazione e innovamento adattivo, ritardando in qualche modo la sintesi tra conservazione e trasformazione, producendo una patologia dell’individuale come del sociale. È come se l’organismo e la mente che vuole rappresentarselo si aggrappasse alle invarianti resistendo dall’interno al rischio dell’esposizione e della perdita. L’alienazione risulta una perdita, la minaccia più grande all’equilibrio vitale, che può essere compensata solo attraverso la persistenza della relazione elastica con il mondo esterno.

In qualche modo perciò l’ondeggiamento e l’irregolarità del movimento sono prodotti proprio da questa sorta di conflitto tra un’istanza conservativa dotata di un potere di resistenza passiva e un’istanza adattiva o creativa capace di indurre un movimento in avanti, attraverso il gioco tra la sollecitazione e l’alleggerimento della massa accumulata. In ogni caso a prodursi è uno slittamento e un nuovo equilibrio che allarga inevitabilmente il raggio di apertura e di esposizione. Se da un lato la memoria conserva le strutture acquisite del comportamento, dall’altro seleziona il modo di interazione con il mondo esterno e il tipo di risposta a una condizione di sbilanciamento, che richiede un’azione. Alla memoria meccanica più resistente si accompagna una memoria plastica decisiva delle strategie non solo di sopravvivenza, ma innovative relativamente ad un contesto mutato.

Conoscendo e pensando l’uomo costruisce immagini e realtà in cui, rispecchiandosi, si rende familiare a se stesso. Come nella metafora della pittura allo specchio di Leonardo, in ogni teoria della mente prende corpo l’identificazione umana dalla fase simbiotica alla fase del riconoscimento di sé e dell’altro, in cui il comportamento si articola tra realtà e finzione.

Lo specchio e la lente, il vetro che riflette e quello che fa vedere sono protesi, ma anche parti del corpo della mente. Ogni immagine, a sua volta, da risoluzione visiva si trasforma in oggetto di percezione in un rinvio che richiama in causa sempre un terzo, che richiede un appoggio o un sussidio, che produce un’ulteriore torsione e infine un passo in avanti. L’arte in cui il “terzo” è per così dire sempre incluso, interno, quasi indispensabile nell’incrocio tra autore, spettatore e opera, può offrire una dimensione che prendendo a piene mani nell’empirico si spinge al metafisico dell’uomo. La funzione dell’arte non si lega tanto alla sua capacità rappresentativa che permette di tracciare un quadro d’insieme, quanto alla funzione di pharmacon che può assumere in un momento di squilibrio, di blocco relativamente a un problema, a una crisi. Le immagini dell’arte avviano un processo di traduzione per il quale non disponiamo ancora di tutte le parole, i significati, i tracciati, in cui comincia a dipanarsi quell’opacità che caratterizza l’uomo. Dando forma a ciò che è ancora solo latente l’arte libera, canalizzando nell’immagine la tensione irrisolta senza lasciare andare il legame stretto nell’esperienza tra vivente – mente o corpo, uomo o animale – e mondo – naturale o artificiale.

Lo stesso presunto declino dell’arte nell’epoca della “riproducibilità tecnica dell’opera d’arte” condivide il destino della tecnica: nessuna delle due declina o muore se non all’interno della percezione che l’uomo costruendo ha di sé. Entrambe costruiscono per comprendere e per conoscere, con i prodotti di entrambe l’uomo disegna la sua posizione nel mondo. Certo se la scienza lavora per descrizione e spiegazione, l’arte costruisce immagini d’insieme, lascia raggrumare un senso disponibile solo per una comunicazione indiretta, affidandosi alla scienza là dove voglia penetrare nella verità teoretica. Ciò che è segreto per l’arte non lo è per la scienza, ciò che l’arte disvela offre il sottofondo del discorso scientifico.

Da una prospettiva rovesciata l’arte cerca di portare agli occhi smascherando ciò che rimane segreto, liberando creativamente il meccanismo, il gioco. L’arte apre perciò una nuova dimensione, una quarta dimensione rovesciando l’approccio della scienza, la inquadra esaltandone la pretesa di oggettività, chiama in causa l’osservatore e l’intrinseco limite prospettico, il macchinico che anela a una sequenza: l’invisibile che mette in scacco la pretesa rappresentativa. L’arte in definitiva può aiutare la scienza a capire, a tracciare una linea continua dove il puro processo di concettualizzazione lascerebbe molte zone d’ombra.

Labirinto è il nome che si può dare alla perfetta combinazione tra figura geometrica e figura dinamica, come quell’uomo di Vitruvio disegnato da Leonardo all’interno di un cerchio e visto come in radiografia. Quanto si guadagna in profondità nell’arte si ripercuote nella tensione verso l’esterno degli oggetti e degli spettatori. Il vetro permette a Duchamp di attraversare la sua opera, di provocarne l’istanza riflessiva e autoreferenziale per dilatare lo spazio, per guadagnare una nuova dimensione. La quarta dimensione si apre nella combinazione di geometria e vita dell’uomo di Vitruvio, nell’emergenza dell’occhio dell’immaginazione che dà forma agli incubi e decoro ai fantasmi, invertendo il meccanismo della produzione e disinvestendo la consumazione ripetitiva del guardare.

L’arte è liberazione, dismette oggetti offrendoli allo sguardo dello spettatore/consumatore, sottrae al pieno l’accumularsi indistinto di oggetti e restituisce al vuoto la funzione di intervallo. 

L’arte, come i mandala, nasconde e rivela la fragilità dell’umano, senza disattivare il suo inter-esse al mondo con risposte definitive o frettolose, soffermandosi tra la meraviglia della figura perfetta che è pharmacon del disordine e il mistero dell’effimero intorno al quale essa sempre si affaccenda.

 


[1] C. G. Jung, Psicologia e Alchimia, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 46 e sgg.

[2] P. Valéry, L’uomo e la conchiglia, in All’inizio era la favola. Scritti sul mito, ed. it. a cura di E. Franzini, Guerini e Associati, Milano 1988.

[3] Cfr. G. Bateson, Mente e natura, tr. it. Adelphi, Milano 1984, p. 26.

[4] A. Portmann, Lo  studioso della natura, in H. Rahner, E. Neumann, A. Portmann, L’uomo ricercatore e giocatore, l’esperienza mistica e creativa nella vita umana, Quaderni di Eranos, Edizioni Como 1993, pp. 148-149.

[5] G. Bateson, op. cit., p. 300.

[6] CFr. E. Morin, Le vie della complessità,in La sfida della complessità, a cura di G. Bocchi e M. Ceruti, Bruno Mondadori, Milano 2007, pp. 25-36.

[7] I. Stengers, Perché non può esserci un paradigma della complessità, ibid., p. 58.

[8] Cfr. H. Bergson, Materia e Memoria, Prefazione alla VII ed., in Opere 1889-1896, tr. it. Mondadori, Milano 1986, pp. 143-149.

[9] Cfr. M. Merleau-Ponty, Senso e non senso, tr. it. Il Saggiatore, Milano 1968, pp. 107-121.

[10] K. Lorenz, L’altra faccia dello specchio, tr. it. Adelphi, Milano 1974.

[11] G. Bateson, op. cit., pp. 17-18.

[12] H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2006.

[13] Cfr. G. Bateson, op. cit., pp. 27.

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