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Prevedere il comportamento. Atteggiamenti proposizionali e pragmatica

Autore


Leonardo Caffo

Università degli Studi di Milano

Direttore della «Rivista Italiana di Filosofia Analitica» e svolge attività di ricerca presso l'Università degli Studi di Milano

Indice


  1. Termini della questione
  2. Il problema
  3. Credenza e stati di credenza
  4. La mia proposta

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S&F_n. 04_2010


  1. Termini della questione

La psicologia del senso comune (folk psycology) inquadra gli atteggiamenti proposizionali come entità teoriche fondamentali per la costruzione di un modello volto a prevedere il comportamento di un soggetto. Un fatto banale come quello di afferrare una penna e scrivere rivela, in realtà, qualcosa di complesso riguardo il nostro comportamento. Quando afferro una penna e inizio a scrivere lo faccio, banalmente, perché credo che un certo oggetto di fronte a me sia una penna e che svolga una determinata funzione che è, appunto, quella dello scrivere. Quando credo che l’oggetto che sta di fronte a me sia una penna, mi trovo nella relazione di “credere” con il contenuto proposizionale che di fronte a me c’è una penna.

Buona parte dei teorici della proposizione, da Frege in poi, hanno dedicato i loro studi all’analisi di che tipo di entità siano gli atteggiamenti proposizionali.

Jerry Fodor[1] sostiene che, a oggi, l’adeguata predittività della psicologia del senso comune non possa essere messa in discussione e che gli atteggiamenti proposizionali rappresentino il modo più efficace per descrivere il nostro comportamento. Ciò che Fodor dice, però, è che gli atteggiamenti proposizionali funzionano, ma non come funzionano. Gran parte dei filosofi interessati alla questione si sono dedicati alla ricerca di una teoria che possa tener conto, coerentemente, sia di una semantica per gli atteggiamenti proposizionali, sia di ciò che queste entità sembrano causare nel comportamento di un individuo razionale.

Nella teoria della proposizione sono due i principali paradigmi ad aver contribuito alla riflessione sugli atteggiamenti proposizionali. Uno è quello che inizia con Gottlob Frege, l’altro con Bertrand Russell.

I difensori del paradigma fregeano affermano che oggetti e proprietà non possono essere costituenti dei contenuti proposizionali che hanno una natura puramente concettuale. In altri termini i filosofi afferenti al paradigma di Frege, anche se non tutti, escludono che si possano testare in modo rigoroso le condizioni di verità degli atteggiamenti proposizionali.

Chi difende il paradigma russelliano sostiene invece che i contenuti proposizionali siano costituiti dagli oggetti e dalle proprietà su cui gli atteggiamenti proposizionali vertono.

Lo scopo di quest’articolo non è quello di ricostruire – dettagliatamente – entrambi i paradigmi e neanche quello di ricostruirne uno ma, in un certo senso, il mio sarà un lavoro completamente parziale il cui obiettivo è quello di dimostrare come il paradigma russelliano risulti più proficuo non soltanto per rendere coerente una teoria semantica per gli atteggiamenti proposizionali[2], ma anche per predire il comportamento di un agente razionale, nonostante le continue critiche nella letteratura contemporanea[3]. Sul finire dell’articolo verrà abbozzata una proposta volta alla costruzione di un modello coerente per prevedere il comportamento di un agente razionale sulla base di una teoria referenzialista degli atteggiamenti proposizionali.

 

  1. Il problema

Immaginiamo un caso in cui una persona non sappia che Mark Twain è lo pseudonimo di Samuel Langhorne Clemens e consideriamo gli enunciati:

 

(6) Salvo crede che Twain sia morto,

 

(7) Salvo crede che Clemens sia morto;

 

L’intuizione comune è che (6) è vero ma, se se Salvo non sa che Twain è Clemens, (7) è falso. Infatti, tenere conto di ciò che il parlante sa rispetto agli individui su cui sono orientate le sue credenze, sembrerebbe importante per discriminare credenze vere, o false, del parlante in questione.

Il fregeanesimo, che dei modi di presentazione di nomi propri teneva conto, non considererebbe (6) e (7) uguali perché ciò che cerchiamo non è il riferimento ma la verità interna al sistema di credenze del parlante.

Il russellianesimo, teoria spesso vista come poco intuitiva, vede (6) e (7) veri nelle stesse situazioni (uguali) in quanto hanno lo stesso contenuto semantico e, citando Richard, «ci dicono letteralmente e rigidamente la stessa cosa»[4]. Il riferimento dei nomi propri “Twain” e “Clemens” è infatti identico.

Kripke, e nella stessa direzione si muove anche Richard, propone una strategia per andare incontro alle intuizioni comuni dei parlanti, vedendo enunciati come (6) e (7) diversi nelle loro implicazioni pragmatiche[5] e non nel valore di verità. Questa idea è una sorta di estensione di altri casi come ad esempio[6]:

 

(6’) Tonto saltò sul suo cavallo e cavalcò verso l’orizzonte,

 

(7’) Tonto cavalcò fino all’orizzonte e saltò sul suo cavallo;

 

Dal punto di vista semantico gli enunciati (6’) e (7’) ci stanno dicendo letteralmente la stessa cosa, la differenza sembrerebbe pragmatica e riguarda, a esempio, l’ordine degli eventi <saltare sul cavallo, cavalcare fino all’orizzonte>.

I teorici del russellianesimo contemporaneo[7] hanno proposto diversi modi di trattare le discrepanze pragmatiche degli enunciati che ho preso in considerazione. Quello che il russellianesimo sostiene è che (6’) e (7’) sono enunciati diversi che esprimono la stessa proposizione.

La tesi di fondo che si vuole sostenere è: si può avere una credenza riguardo una proposizione in modi differenti.

Ad esempio Leo potrebbe avere nel suo insieme di credenze che:

 

(8) Twain è morto,

 

senza però credere a,

 

(9) Clemens è morto;

 

Flavio potrebbe, al contrario di Leo, crede a (9) ma non credere a (8). In questo caso tanto Leo quanto Flavio credono alla proposizione russelliana:

 

<la proprietà di essere morto, Twain>

 

e i due mediano questa credenza in modi differenti. Ma «il russellianesimo individua le condizioni di verità di un’asserzione [riguardo agli atteggiamenti proposizionali] non nel come ma nel cosa»[8]. Questo non vuol dire sottovalutare il modo attraverso cui si esprime una credenza ma semplicemente concentrare la propria analisi semantica sull’oggetto su cui verte questa credenza[9].

Rimane il fatto che le credenze di un soggetto vengono in qualche modo ignorate a favore del contenuto semantico delle sue credenze. Proviamo a considerare un caso del genere.

Chiunque abbia letto i fumetti di Superman (o visto i film di cui è protagonista) sa che Lois Lane crede sicuramente che Superman può volare ma che Clark Kent, suo collega di lavoro, non è certamente in grado di spiccare il volo.

Sappiamo che Superman e Clark Kent sono la stessa persona anche se Lois Lane è all’oscuro di questo fatto; sulla scorta di questo breve preambolo proviamo a considerare il seguente enunciato:

 

(b) Lois Lane crede che Superman può volare;

 

In una visione russelliana, la that-clause crede che Superman può volare esprime la proposizione data dalla coppia ordinata <Superman, essere in grado di volare> costituita dal nome proprio “Superman” e dalla proprietà essere in grado di volare; considerando, sulla scia di Russell, i nomi propri come abbreviazioni di descrizioni definite, “Superman” e “Clark Kent” si riferiranno allo stesso individuo. In una visione referenzialista, nomi, dimostrativi e indicali che riferiscono alla stessa cosa, forniscono lo stesso contributo alla proposizione per cui, se (b) sarà vero, anche l’enunciato che segue,

 

(c) Lois Lane crede che Clark Kent può volare,

 

sarà vero! Questo sembra inaccettabile perché il contenuto cognitivo di Lois è in qualche modo violato.

Se il russellianesimo vuole dare un resoconto pragmatico delle differenze di enunciati come (6) Salvo crede che Twain sia morto e (7) Salvo crede che Clemens sia morto, deve identificare chiaramente i principi pragmatici che rendono questi enunciati diversi da questo punto di vista.

Paul Grice ha offerto una celebre teoria pragmatica delle implicature conversazionali[10] ma, come fanno notare McKay e Nelson[11], è quanto meno improbabile che la teoria di Grice aiuterà il russellianesimo in tal senso. Le informazioni sul modo in cui il credente crede in ciò che crede non possono, a quanto sembra, essere ottenute tramite un’implicatura conversazionale in quanto, tali informazioni, non sono deducibili dai partecipanti a una conversazione. Sempre McKay e Nelson[12] sostengono che, se è vero che un sostenitore del russellianesimo non potrà impiegare la teoria di Grice per rendere conto delle nostre intuizioni sulla differenza di enunciati come (6) e (7), questo non vuol dire, tuttavia, che non possano individuare degli ulteriori principi pragmatici a sostegno del russellianesimo. Quello di cui il russellianesimo ha bisogno è una nozione di implicatura pragmatica che non si basi, come accade in Grice, sulla calcolabilità e che non richieda il ruolo psicologico dei partecipanti alla conversazione. Inizierò, adesso, a presentare una proposta in tal senso.

 

  1. Credenza e stati di credenza

Due nozioni spesso confuse, quasi fossero un’unica nozione, sono la credenza e lo stato di credenza. Questo, secondo MckKay e Nelson[13], capita perché la gente non riesce a distinguere le due nozioni e così l’uso degli atteggiamenti proposizionali diventa, erroneamente, bivalente: esprimere una relazione col contenuto delle credenze e diffondere informazioni sugli stati di credenza del soggetto della relazione. Non distinguere le informazioni veicolate da un atteggiamento proposizionale dal modo in cui un soggetto crede queste informazioni è un grave fraintendimento.

Riconsideriamo, velocemente, il caso di Superman e la seguente relazione utilizzata in un paradigma russelliano.

 

Relazione asimmetrica: Se i nomi sono davvero coestensionali (e dunque intersostituibili) e, se (1) è vero,

 

(1) Lois Lane crede che Superman è più forte di Clark Kent,

 

allora anche (2) e (3) saranno veri,

 

(2) Lois Lane crede che Superman è più forte di Superman,

 

(3) Lois Lane crede che Clark Kent è più forte di Superman.

 

Il russellianesimo sostiene che il senso comune che vede (2) e (3) come intuitivamente diversi da (1) si basa su un’incomprensione di origine pragmatica; (2) pone, tuttavia, un problema: Lois deve anche credere che Superman è più forte di se stesso, o possiamo isolare questa credenza dalle rivendicazioni precedenti?

Alcuni detrattori del paradigma russelliano hanno argomentato rispondendo positivamente a questa domanda[14], in quanto, il secondo termine “Superman” sarebbe sostituibile, sempre per i detrattori del russellianesimo, con “se stesso”; attribuire questa credenza a Lois sulla base di alcune considerazioni pragmatiche sembrerebbe, però, inaccettabile.

Quest’ultima questione è discussa da Salmon[15] che lavora entro un paradigma russelliano e sostiene che credere che Superman sia più forte di Superman è distinto da credere che Superman sia più forte di se stesso perché la proposizione che “Superman è più forte di Superman” è diversa dalla proposizione che “Superman è più forte di se stesso”, in quanto una proposizione ha una struttura diversa rispetto all’altra; la prima è una relazione a due posti <Superman, Superman>, la seconda è una relazione a un posto. L’argomento di Salmon è una risposta ad alcuni tentativi fregeani[16] di minare il russellianesimo dalle fondamenta portando all’esasperazione alcune implicazioni anti-intuitive di questa teoria.

Sulla scia di questi problemi per il russellianesimo sorgono ulteriori questioni connesse, ad esempio, ad argomentazioni pertinenti con il comportamento razionale di un individuo. Considerando l’enunciato:

 

 (4) Lois crede che Superman è forte,

 

il russelliano sosterrà che se (4) è vero allora anche,

 

 (5) Lois crede che Clark Kent è forte,

 

è vero.

 

Sembrerebbe però che (4) predica dei comportamenti molto diversi da (5). Accettare questi due enunciati come veri – negli stessi identici casi – potrebbe rendere lecito attendersi che, quando Lois, ad esempio, è indaffarata a spostare scatoloni pesanti nel suo ufficio, se vede Clark Kent in piedi pur non sapendo che è Superman dovrebbe chiedergli aiuto. Questa, naturalmente, è una predizione scorretta. Lois, probabilmente, non farebbe nulla del genere. Certo, entro il paradigma russelliano un enunciato come (4) è vero esattamente alle stesse condizioni in cui (5) è vero. Si potrebbe pensare, è il focus di un’obiezione perspicua discussa, ad esempio, da Richard[17], che è difficile sostenere una teoria che vede identici enunciati che hanno così diverse potenzialità predittive.

Quest’obiezione è, in parte, un corollario del problema sulle implicazioni pragmatiche. Se stipuliamo che la differenza di enunciati come (4) e (5) non risieda nel valore di verità ma nei risvolti pratici sul modo che, per esempio, Lois ha di pensare certe cose, dovremmo stipulare anche dei principi tali per cui (4) e (5) possono predire delle situazioni diverse.

Richard è tuttavia convinto, credo ragionevolmente, che pretendere da una teoria semantica un criterio corretto per predire il comportamento di un soggetto sia sbagliato e che, in questo modo, stiamo mischiando ambiti diversi[18] a beneficio di un’obiezione che fonda le sue premesse su delle discrepanze di comportamento di un soggetto. Cosa che, tuttavia, sembrerebbe irrilevante per una teoria semantica. Ma se volessimo individuare un modello di predizione corretto del comportamento  sulla base di una teoria degli atteggiamenti proposizionali?

 

  1. La mia proposta

Recentemente Richard ha ridiscusso, sulla scorta di un lavoro di Soames[19], questo problema soffermandosi sulla nozione di realizzazione[20].

Possiamo, sulla scorta di quanto dice Richard, riconsiderare i casi precedenti come,

 

(4) Lois crede che Superman è forte,

 

e

 

(5) Lois crede che Clark Kent è forte,

 

aggiungendo un nuovo enunciato,

 

(6) Lois non realizza che Superman è Clark Kent.

 

Questa strategia, ovvero aggiungere (6) a un presunto modello volto a isolare dei principi predittivi del comportamento suggeriti da (4) e (5), è una strategia non definitiva e tutt’ora discussa in letteratura, ma credo potrebbe essere un ottimo punto di partenza per rendere conto delle obiezioni che ho discusso al paradigma russelliano.

Se davvero vogliamo ottenere da una teoria semantica dei principi teorici in grado di prevedere le diverse situazioni che, intuitivamente, sono implicate da enunciati come (4) e (5), tentare di inserire nel nostro modello enunciati come (6) sembrerebbe chiarire alcune situazioni come quella che ho descritto prima riguardo gli scatoloni pesanti nell’ufficio di Lois.

Credo sia normale non aspettarsi da Lois, se non ha realizzato l’identità di Superman con Clark, che chieda aiuto al collega per spostare gli scatoli.

Ma, immaginando che Lois realizzi che Superman è Clark Kent, a quel punto i fatti cambierebbero radicalmente e probabilmente la situazione che vedeva Lois chiedere aiuto a Clark sembrerebbe tutt’altro che paradossale.

La mia proposta – per rispondere alle obiezioni che vertono sull’inadeguatezza predittiva del russellianesimo – è vedere questa teoria come predittiva di come le situazioni dovrebbero essere se il soggetto dell’azione descritta avesse realizzato l’identità tra gli individui che costituiscono il contenuto delle sue credenze. Il modello, che qui voglio semplicemente abbozzare per ricerche future, risulterebbe perfettamente coerente per prevedere delle situazioni in cui agiscono degli agenti razionali ideali, in grado di esaurire tutti i diversi modi di presentazione di oggetti, individui, proprietà e relazioni su cui vertono le loro credenze.

Aggiungendo enunciati come (6) che esplicitano la non realizzazione dell’identità tra Superman è Clark possiamo aggirare predizioni scorrette rispetto agli stati di cose attuali che, tuttavia, sarebbero corrette se la realizzazione fosse avvenuta.

Un modello del genere andrebbe costruito isolando tutte le variabili di un termine aventi lo stesso riferimento, aggiungendo la nozione di realizzazione come legame tra queste variabili.

Possiamo ipotizzare, credo con ragione, che un soggetto di credenza persuaso a realizzare l’identità tra termini aventi una stessa estensione si comporterebbe, esattamente, entro i parametri imposti da un modello pragmatico di derivazione referenzialista.

 


[1] J. Fodor, Psicosemantica (1987), tr. it. Il Mulino, Bologna 1990, p. 31.

[2] Cfr. McKay, Thomas, Nelson, Michael, Propositional Attitude Reports, in E.N. Zalta (ed.), The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Fall 2008 Edition), 2008.

[3] Ibid.

[4] “Strictly and literally say”. Cfr. M. Richard, Propositional Attutudes: an Essay on Thiughts and how we Asribe them, Cambrige University Press, Cambridge 1990, p. 119.

[5] Per un’introduzione alla pragmatica si veda R. Stalnaker, Pragmatics, in «Synthese», 22: 272-289, 1970.

[6] M. Richard, op. cit., p. 120.

[7] Si vedano in particolare D. Kaplan, Demostratives, in J. Almog, Themes from Kaplan, Oxford University Press, 1989 e N. Salmon, Frege’s Puzzle, Mit Press, Cambridge (Mass), 1986.

[8] M. Richard, op. cit., p. 121.

[9] Si noti come qui risieda uno dei punti fondamentali del confronto tra russelliani e fregeani. Mentre i fregeani contemporanei, come Forbes e McGinn, preferiscono concentrare l’analisi delle condizioni di verità sui modi di pensare qualcosa i russelliani, al contrario, concentrano la valutazione semantica sull’oggetto della credenza senza però trascurare i risvolti pragmatici dei diversi modi di esprimere una stessa proposizione.

[10] H. P. Grice, Logic and conversation, in «Syntax and Semantics», 3: 41-58. [Versione originale presentata per le William James lectures presso la Harvard University nel 1967], 1971; Id., Further notes on logic and conversation, in «Syntax and Semantics», 9: 113-128, 1978; Id., Presupposition and conversational implicature, in P. Cole (ed.), Radical Pragmatics, Academic Press, New York 1981, pp. 183-198.

[11] Cfr. T. McKay e M. Nelson, Propositional Attitude Reports, in E. N. Zalta, op. cit.

[12] Ibid.

[13] Ibid.

[14] Si veda, ad esempio, Problems for the Naive Russellian theory, in McKay e Nelson, op. cit.

[15] N. Salmon, Reflections on reflexivity, in «Linguistics and Philosophy», 15: 53-63, 1992.

[16] T. McKay, Representing de rebeliefs, in «Linguistics and Philosophy», 14: 711-739, 1991.

[17] Cfr. M. Richard, Propositional Attutudes, in Bob Hale e Crispin Wright (ed.), A companion to the philosophy of language, Wiley-Blackwell, London 1999.

[18] Ibid, p. 208.

[19] S. Soames, Beyond Rigidity: The Unfinished Semantic Agenda of Naming and Necessity, Oxford University Press, Oxford 2002.

[20] M. Richard, Propositional Attitude Ascription, in Michael Devitt and Richard Hanley (ed.), The Blackwell Guide to the Philosophy of Language, Blackwell, Oxford 2006.

 

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