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L’incapacità fabbrile nell’era tecnologica

Autore


Giacomo Scarpelli

Università di Modena e Reggio Emilia

sceneggiatore cinematografico e storico della filosofia e delle idee, insegna all’Università di Modena e Reggio Emilia. È Fellow della Linnean Society of London e della Royal Geographical Society

Indice


  1. La mano «finestra della mente»
  2. Homo inhabilis
  3. Manufatti e manoscritti
  4. Tecnologia e techne

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S&F_n. 28_2022

Abstract


The Loss of Handcraftsmanship in the technological Era

From Kant to Darwin, from Wallace to Bergson, the hand has been defined as the irreplaceable tool of the human species to free itself from nature and subdue it. Yet is the situation still the same in the age of deferring to technology every task that concerns us? Is this looming danger only about the ability to survive social and energy crises, or does it also concern our disposition to produce authentic art? Art indeed requires the ability to mould matter. Faced with these questions, it will be useful to recover the lesson of Robert Graves, who surrounded himself exclusively with handmade objects in order to create and communicate poetically. Indeed, it should not be forgotten that the Greek term techne indicated precisely man's artistic ability, even before mere technique.

  1. La mano “finestra della mente”

Da Kant a Darwin, da Wallace a Bergson, la mano è stata celebrata quale insostituibile strumento per affrancarsi dalla natura e semmai governarla. Tuttavia, oggi è inevitabile domandarci se la situazione sia ancora la stessa, nell’epoca del rinvio alla tecnologia di ogni compito che riguardi la nostra specie. Siamo ancora in grado di produrre manualmente qualcosa? Siamo ancora Homines fabri? I quesiti in realtà sono retorici e la risposta implicita, ma merita svolgere una riflessione su cosa ciò comporti per il futuro della società e anche, e soprattutto, per poter continuare a parlare di creatività.

Immanuel Kant aveva individuato precisamente nella mano, «finestra della mente», il principio dell’ordinamento che impartiamo al mondo[1]. Alcuni decenni dopo, l’anatomista e teologo naturale scozzese Charles Bell (antenato del luminare Joseph Bell che ispirerà a Conan Doyle il personaggio di Sherlock Holmes[2]) aveva ripreso il concetto in questi termini: «La mano sostituisce tutti gli strumenti e, grazie al suo rapporto con l’intelletto, conferisce a esso il dominio universale»[3]. Quanto a Charles Darwin, pur possedendo una visione della storia naturale in chiave evoluzionistica e guardandosi bene dall’evocare qualsiasi provvidenziale disegno divino, aveva argomentato che le nostre mani sono sì costruite sul medesimo modello di quelle delle scimmie, ma si sono adattate ai diversi impieghi con un livello di perfezionamento molto maggiore[4].

L’uomo non potrebbe aver raggiunto la sua attuale posizione di dominio sul mondo senza l’uso delle mani, che sono così meravigliosamente adatte ad agire secondo il suo volere[5].

L’estremità superiore dell’uomo, fornita di polso snodato, palmo flessibile, dita articolate con funzioni tattili e prensili, in grado di lanciare «con precisione una pietra» o – sempre nelle parole di Darwin – di «usare con precisione il martello», comporta «la più consumata perfezione nel collegare l’azione dei muscoli»[6]. Altrettanto vale per forgiare una selce, costruire una lancia, accendere un fuoco.

Alfred R. Wallace, co-ideatore della teoria della selezione naturale con Darwin, stabiliva il primevo affermarsi della specie umana nell’esatto momento in cui era comparsa la meravigliosa risorsa della mente, la quale, mediante la manualità, si era assicurata la fabbricazione di armi per difendersi e cacciare e il procurarsi di che coprirsi, e aveva potuto dedicarsi a seminare e a cucinare il cibo. Si era verificato un ribaltamento nel rapporto con la natura, che fino ad allora era stato di dipendenza e sudditanza. Non era più quindi l’uomo ad adattarsi alla natura, ma era la natura che veniva adattata ai di lui bisogni[7]. Questo inquadramento dell’ascesa umana – avvenuta mediante l’inventiva della psiche connessa con la mano – ricevette il plauso dello stesso Darwin. In seguito, Wallace si sposterà su posizioni spiritualistiche e carezzerà l’idea che un’«Intelligenza Superiore» abbia guidato l’antropogenesi[8].

Si deve a un altro pensatore evoluzionista – di impronta spiritualistica ben più decisa – Henri Bergson, la certificazione che l’uomo è divenuto tale per merito delle sue capacità fabbrili. Nell’Évolution créatrice il filosofo francese nega l’effetto della selezione naturale, poiché ritiene che essa, col suo spietato meccanismo, tenda a sopprimere la vita anziché generarla. Nonostante tale rifiuto aprioristico Bergson, in quanto convinto della fondamentale unità della corrente spirituale, accoglie comunque, il principio di una continuità e gradualità dello sviluppo biologico, che alla fine ha condotto all’affermazione della nostra specie[9]. E a questo punto avanza la definizione di Homo faber. Più precisamente, «l’Homo sapiens nasce dalla riflessione dell’Homo faber sulla propria attitudine a fabbricare»[10], in quanto l’essenza della nostra specie risiede nel saper intervenire «materialmente e moralmente sulla materia», nel saper «fabbricare cose» e, così facendo, «fabbricare se stesso»[11]. L’indipendenza dell’uomo si è affermata per mezzo della mano, che «può eseguire qualsiasi lavoro»[12]. L’atto in sé infonde vita alla materia.

La nostra peculiarità, sempre secondo Bergson, consistette dapprima nella «facoltà di fabbricare oggetti artificiali», ma successivamente nel produrre «utensili per fare utensili, e variare indefinitamente la fabbricazione»[13]. E proprio dalla possibilità che un arnese o un attrezzo ne generi un altro, che a sua volta ne consente la produzione di un altro ancora in una catena senza fine, deve essere riconosciuta l’origine e la causa della paradossale condizione attuale dell’individuo nella civiltà moderna, il quale sembra aver perduto la disposizione a fabbricare servendosi esclusivamente delle proprie mani.

 

  1. Homo inhabilis

Sarebbe ozioso continuare a chiedersi quanti tra di noi saprebbero scheggiare la selce, forgiare la lancia, accendere il fuoco senza fiammiferi né scintilla piezoelettrica, e così mantenersi attingendo al mondo naturale[14]. Ma non si può fare a meno di constatare che anche i gesti più semplici e quotidiani ci si presentano ormai come troppo impegnativi e sfibranti, dal recidere una rosa allo spostarsi a piedi da un luogo all’altro, addirittura dal guidare l’automobile (presto essa sarà perfettamente autonoma dal proprietario) al premere gli interruttori di casa.

Il percorso da Homo habilis a Homo faber si conclude con la forma Homo inhabilis? Il pericolo di questa perdita della caratteristica ancestrale della specie non comprende solamente l’impossibilità di sopravvivere nell’eventualità dell’avverarsi delle crisi energetiche o sociali incombenti ma anche, e forse soprattutto, l’appannarsi e l’indebolirsi della disposizione a produrre il cibo culturale, ossia l’arte, poiché l’arte è in primis la facoltà di plasmare fisicamente la materia, per sottoporne il risultato alla contemplazione e al giudizio del prossimo.

In un simile desolato panorama epocale di inettitudine globalizzata, appare allora opportuna e utile la lezione dimenticata di un poeta, Robert Graves.

Nel corso della sua lunga vita, Graves vide gli orrori della Grande Guerra, cui partecipò da soldato, fu insegnante prima in Egitto e poi professore a Oxford e trovò stabile rifugio nell’isola di Maiorca, non ancora caotica meta turistica. Noto al grande pubblico per i romanzi storici Io, Claudio e Il divo Claudio (entrambi del 1934), in cui l’imperatore romano protagonista narrava la propria esistenza in un linguaggio vivido e realistico, fu autore di pregevoli versi e novelle per l’infanzia, nonché di saggi come I miti greci (1955) e, in particolare, La Dea Bianca (1948). In quest’opera, Graves attribuiva il dono della poesia a una Musa arcaica caduta nell’oblio, la dea Luna, primo principio creativo, soppiantato successivamente da quello maschile della mera logica. Testo immaginifico, La Dea Bianca si faceva beffe del rigore filologico e, per estensione, dell’idea di modernità e di civiltà delle macchine[15]. È a tale riguardo che l’intervista con Graves di Peter Buckman e William Fifield, risalente all’estate 1969, risulta illuminante sia sulla personalità di uno scrittore controcorrente sia sul rapporto tra la manualità e lo scoccare della scintilla creativa[16].

 

  1. Manufatti e manoscritti

Graves abitava nell’isola di Maiorca, in una casa colonica riattata, circondata da alberi da frutto e da un orto, calata in un’atmosfera più rurale che marina. Il suo studio era affollato di libri accumulati sugli scaffali, acquerelli dalle cornici grezze alle pareti, penne e matite infilate in boccali di coccio, pile di scartafacci, barattoli di tabacco, portacenere ricavati da conchiglie, uno scatolone colmo di ritagli di giornale, la scheggia di legno proveniente da un albero del giardino della casa che fu di Shakespeare, e figurine di terracotta (che ricordavano i reperti archeologici che Freud teneva allineati sulla propria scrivania e che gli servivano d’ispirazione). L’assolato paesaggio barbagliava dietro vetri dalla superficie irregolare, di vecchia produzione artigianale. Se un telefono c’era, non figurava in quella stanza.

Mentre gli intervistatori lo interrogavano, l’anziano artista, chioma candida e scompigliata, non stava fermo con le mani, si rollava una sigaretta, si tagliava le unghie con un enorme paio di forbici da sarto, piluccava carote e sgusciava fagioli. E quindi poneva lui una domanda: «Notate niente di strano in questa stanza?».

Alla risposta negativa degli intervistatori Graves spiegò:

«Ebbene, è tutto fatto a mano. Con un’eccezione, quella brutta cartella tripla di plastica, che mi è stata regalata. La tengo qui per educazione, per due o tre settimane, poi sparirà. Quasi tutto il resto è fatto a mano. Ah sì, i libri sono stati stampati, ma molti sono stati stampati a mano, anzi alcuni li ho stampati io stesso. A parte le lampadine elettriche, tutto il resto è fatto a mano; al giorno d’oggi sono pochissime le persone che vivono in case dove tutto è fatto a mano»[17].

Simili affermazioni sollecitarono la domanda dei giornalisti – che poi erano a loro volta dei letterati: «Tutto questa influenza direttamente il suo lavoro creativo?». La risposta fu affermativa. «Un segreto per riuscire a pensare,» rivelò Graves, «è circondarsi il meno possibile di oggetti che non sono stati fabbricati con le mani»[18].

Naturalmente ciò comportava anche lo scrivere a mano, con penna, calamaio e inchiostro[19], preferibilmente home-made. Se sarebbe stato impensabile per il vecchio poeta comporre versi con la macchina da scrivere, è facile immaginare come avrebbe potuto giudicare l’uso di un computer. Del resto, merita aggiungere che negli anni giovanili, prima della fama, Graves aveva potuto superare i momenti di ristrettezza vendendo a prezzo conveniente i manoscritti, non delle proprie opere ma di quelle dell’amico T.E. Laurence, meglio noto come «Lawrence d’Arabia», il quale glieli aveva generosamente regalati[20].

Lo studio “tutto a mano” di Graves evocava qualcosa dello spirito che aleggiava nella capanna di tronchi sul lago Walden del trascendentalista Thoreau, e anche della Hütte a picco sul fiordo di Skjolden in cui si rifugiò il filosofo del linguaggio Wittgenstein e, infine, della casupola di Tvergastein appartenuta ad Arne Naess, apostolo dell’ecologia profonda. È forse per via di una simile compagnia, augusta e anticonformista, che i segreti di cucina di Graves per dare libera espressione, anche linguistica, al proprio estro poetico, hanno oggi un valore più profondo di allora.

 

  1. Tecnologia e Techne

Rispetto alla sua struttura fisica l’uomo conduce una vita “in eccedenza”: la nostra costituzione biologica non è sufficiente a soddisfare né le esigenze pratiche né una memoria limitata[21], né tantomeno gli aneliti e le attese interiori, dal momento che – per dirla con i romantici – il senso di infinito deborda dal fisico. Per cercare di trattenere e dare corpo a queste istanze, in qualche caso persino nobili, abbiamo pensato bene di affidarci appunto agli artefatti della tecnologia. Ma questa scelta di una gestione dell’esistenza macchinale e scientifico-applicata, paradossalmente risulta atrofizzante fisiologicamente e intellettualmente, oltre che distruttiva nei confronti dell’ambiente e del regno vivente.

Nell’era in cui i programmi di elaborazione del personal computer elargiscono l’illusione di essere creatori di visioni e linguaggi inediti e di possedere l’onnipotenza virtuale, il movimento corporeo è rinviato alla fitness piuttosto che all’attività manuale. Attività manuale la quale, invece, come Graves insegna, aiuterebbe a pensare, riflettere, immaginare, inventare. Gli artigiani sono ormai una specie rara, in via di estinzione ma non protetta, e gli apparecchi domestici nemmeno si riparano, si gettano via e se ne comprano altri di generazione aggiornata, secondo i dettami del consumismo. Anche di questo siamo ormai tristemente consapevoli. E però forse abbiamo dimenticato che il termine téchne (τέχνη) in greco stava a intendere precisamente l’abilità creativa, artistica, piuttosto che il ritrovato tecnico.

Occorrerebbe forse compiere un passo indietro, proprio in quella certa direzione di provenienza. E puntare non a un’individualistica fuga dalla civiltà, ma a una qualche forma di moderata, potenziale, autosufficienza all’interno della civiltà; in una parola, recuperare con consapevolezza il significato di Homo e del suo essere faber. Tutto sommato, ciò potrebbe anche scoprirsi fonte di un divertimento, di un giocoso appagamento, vecchio per la specie ma davvero nuovo per noi.


1] I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensiero (1786), tr. it. Adelphi,

Milano 1996.

[2] A riguardo rinvio al mio Freud e Conan Doyle. Vite parallele, apparso su questa rivista, in «S&F_scienza&filosofia.it», 27, 2022, pp. 278-292.

[3] C. Bell, The Hands. Its Mechanism and Vital Endowments as Evincing Design, Pickering, London 1833, p. 38. Il testo apparve nella collana di teologia naturale «Bridgewater Treatises».

[4] C. Darwin, L’origine dell’uomo e la selezione sessuale (1871), tr. it. Newton Compton, Roma 1983, p. 78. Nella stessa pagina Darwin valutava le considerazioni di Charles Bell.

[5] Ibid., p. 76.

[6] Ibid. Vedi anche R. Sennett, L’uomo artigiano (2008), tr. it. Feltrinelli, Milano 2008, pp. 147-173.

[7] A.R. Wallace, The Origin of Human races, in «Journal of the Anthropological Society of London», II, 1864, pp. CLVIII-CLXXXVII.

[8] A riguardo mi permetto di rinviare al mio Il cranio di cristallo. Evoluzione della specie e spiritualismo, Bollati Boringhieri 1993, pp. 21-112.

    [9] H. Bergson, L’évolution créatrice, Presses Universitaires de France, Paris 1940, p. 264-266 (1a ediz. 1896).   

[10] H. Bergson, La pensée et le mouvant, Presses Universitaires de France, Paris 1941, p. 92.

[11] Ibid., pp. 91-92.

[12] H. Bergson, L’évolution créatrice, cit., p. 134.

[13] Ibid., p. 140. Vedi anche G. Scarpelli, Il cranio di cristallo, cit., pp. 105-108.

[14] Naturalmente qui non si prende in considerazione l’attività del bushcraft, passione individualistica per la vita nelle aree selvatiche servendosi delle capacità utili a soddisfare la sopravvivenza. Il nostro discorso riguarda sostanzialmente l’inettitudine sopraggiunta nel comune cittadino dell’Occidente e dell’Oriente tecnologicizzati.

[15] R. Graves, La Dea Bianca (1948), tr. it. Adelphi, Milano 2009.

[16] P. Buckman e W. Fifield, The Art of Poetry. No. 11. Robert Graves, in «Paris Review», XLVII, 1969, pp. 119-145; rist. in Conversations with Robert Graves, a cura di F.L. Kersonowski, University Press of Mississippi, Jackson-London 1989, pp. 92-108 (le citazioni successive sono riportate da questa riedizione).

[17] Ibid., p. 93.

[18] Ibid.

[19] Ibid., p. 102.

[20] Cfr. B. King, Robert Graves. A Biography, Haus Publishing, London 2008, pp. 58, 70, 120.

[21] A riguardo vedi P. Benanti, La condizione tecno-umana. Domande di senso nell’era della tecnologia, Edizioni Dehoniane, Bologna 2017.

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