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All’origine dell’eredità dei caratteri acquisiti: Rileggere Erasmus Darwin e Jean-Baptiste de Lamarck per ricordarne la vera identità

Autore


Mauro Mandrioli

Università di Modena e Reggio Emilia

docente di Genetica presso l’Università di Modena e Reggio Emilia

Indice


1. Verso un neo-lamarckismo molecolare?
2. L’eredità dei caratteri acquisiti tra Erasmus Darwin e Lamarck
3. Lamarck dopo Lamarck: la nascita del neo-lamarckismo

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S&F_n. 28_2022

Abstract


At the origin of the inheritance of acquired characters: from Erasmus Darwin to Jean Baptiste de lamarck to remember their true legacy

The terms "Lamarckism" and "Lamarckian inheritance" are today widely present in the scientific literature, as a consequence of the recent discoveries in the field of epigenetic inheritance. This article analyzes the different forms of inheritance of acquired traits present in the work of Erasmus Darwin and in other naturalists that anticipated the Lamarck’s proposal in order to show that the current reference to alleged Lamarckian legacies is incorrect both from a historical and epistemological point of view.

  1. Verso un neo-lamarckismo molecolare?

Nel corso dell’ultimo decennio i termini “lamarckismo” ed “eredità lamarckiana” sono tornati diffusamente presenti nella letteratura scientifica, grazie alle recenti scoperte nell’ambito dell’epigenetica[1]. In particolare, è stato osservato che sia il DNA che gli istoni (le proteine associate al DNA) possono subire, anche su stimolo ambientale, modificazioni chimiche, che possono essere ereditate da cellula a cellula durante i processi di duplicazione cellulare e, talvolta, da individuo a individuo. Il fatto che una attività o un comportamento possano indurre cambiamenti chimici sul DNA ha portato molti genetisti e biologi dell’evoluzione a identificare queste modificazioni chimiche con l’eredità dei caratteri acquisiti proposta all’inizio dell’Ottocento da Jean-Baptiste de Lamarck (1744-1829) nella sua opera Philosophie zoologique.

Al di là delle considerazioni sui meccanismi (ancora poco chiari) con cui le modificazioni epigenetiche possono essere effettivamente ereditate e sulla reale diffusione di tale forma di eredità, la scelta di denominare come lamarckiana questa forma di “memoria” appare non corretta né da un punto di vista storico né a livello epistemologico. Condurre una analisi in merito a questa scelta non ha quindi solo un valore lessicale, ma è interessante anche per capire quale spazio possa avere la proposta formulata da Lamarck nella biologia evoluzionistica moderna. Serve realmente, come suggerisce il biologo statunitense Michael Kirtland Skinner, proporre una nuova teoria unificata tra Darwin e Lamarck? In particolare, secondo Skinner

Lamarck propose nel 1802 l’idea che l'ambiente può alterare direttamente il fenotipo in modo ereditabile. L'epigenetica ambientale e l'eredità epigenetica transgenerazionale forniscono meccanismi molecolari per questo processo. Pertanto, l'ambiente può influenzare direttamente la variazione fenotipica a livello molecolare. La capacità dell'epigenetica ambientale di alterare direttamente la variazione fenotipica e genotipica può avere un impatto significativo sulla selezione naturale (…). Serve proporre una teoria unificata dell'evoluzione per descrivere l'integrazione degli aspetti epigenetici ambientali e genetici dell'evoluzione[2].

Al di là del comprensibile tentativo di riabilitare l’opera di un naturalista, la cui importanza è stata oggettivamente sottostimata, si ha la sensazione che i contenuti della teoria dell’evoluzione proposta da Lamarck siano stati più avvicinati per interposta persona che non per una loro reale conoscenza. Il presente articolo vuole pertanto cercare di analizzare il contesto in cui è stata formulata l’idea di eredità dei caratteri acquisiti, al fine di mostrare che l’originalità di Lamarck non risiede nell’aver formulato tale proposta quanto nell’averla inclusa nella prima teoria dell’evoluzione.

 

  1. L’eredità dei caratteri acquisiti tra Erasmus Darwin e Lamarck

Sul finire del Settecento, Erasmus Darwin (1731-1801), noto medico inglese nonché nonno di Charles Darwin, diede alle stampe la Zoonomia, or the Laws of Organic Life. L’opera, pubblicata dopo una lunga fase di scrittura, ebbe un ampio successo internazionale, tanto da essere tradotta negli anni successivi in tedesco, francese e italiano, quest’ultima versione venne stampata in sei volumi, curati da Giovanni Rasori (1766-1837), pubblicati tra il 1803 e il 1805.

La Zoonomia presenta, accanto alla trattazione di numerosi argomenti di ambito medico, una sezione dedicata all’evoluzione dei viventi e al variare delle forme animali durante lo sviluppo:

Dal primo loro embrione o rudimento sino al terminar della vita [scrive E. Darwin], tutti gli animali vanno subendo perpetue trasformazioni, le quali sono in parte tradotte dai loro propri esercizi, in conseguenza dei loro desideri e delle loro avversioni, piaceri e dolori, irritazioni e associazioni e molte di tali forme e inclinazioni così acquisite sono trasmesse alla prole[3].

Secondo Erasmus Darwin quindi le leggi di natura hanno dotato gli animali della

capacità d’acquistar nuove parti, accompagnate da nuove propensioni o appetiti, diretti da irritazioni, sensazioni, associazioni, volizioni; e in tal modo aventi la facoltà di continuare a perfezionarsi per attività loro propria e inerente e tramandare il loro perfezionamento di generazione in generazione[4].

Questa prima citazione è di grande interesse perché mostra non solo che secondo il medico inglese le specie animali cambiano nel corso del tempo, ma che tali cambiamenti sono guidati dalla volontà di migliorare una data struttura e che tali innovazioni sono ereditate dalla prole.

In un altro passaggio, E. Darwin scrive che

un gran bisogno di tutti gli animali consiste nei mezzi di procurarsi alimento; e questo bisogno ha diversificate le forme di tutte le specie degli animali. Per esso il naso del porco si indurì onde poter volgere sottosopra il terreno in cerca di insetti e radici. La tromba dell’elefante è un allungamento del naso allo scopo di poter tirar giù i rami degli alberi di cui si ciba senz’aver da piegar le ginocchia. (…) Tutte le forme sembrano essere state gradatamente prodotte dai perpetui sforzi degli animali stessi per provvedere al bisogno d’alimento e tramandate alla rispettiva progenie con quel costante perfezionamento che andarono acquisendo nel servire a quegli usi determinati[5].

«D’altra parte il falcone e la rondine – aggiunge Erasmus Darwin – hanno acquistata gran velocità di volo per tenere dietro alla loro preda (…). E tutte queste parti sembrano essere state formate dal filamento originale stimolato ad agire dai vari bisogni di questi esseri che li hanno, e sui quali è basata la loro esistenza»[6].

In un ulteriore passaggio molto interessante, E. Darwin suggerisce che quello che accade nell’evoluzione, si può vedere riassunto nella metamorfosi del girino, che «acquista gambe e polmoni quando ne abbisogna e perde la cosa quando non è più utile per servirgli ad alcun uso»[7]. Per altro, suggeriva il medico inglese, «coll’acquisto di parti nuove, si acquistano nuove sensazioni, nuovi desideri, nuove potenze»[8] e saranno questi a guidare la genesi di ulteriori nuove strutture[9].

Nella sua ultima opera[10], E. Darwin ritenne che dinamiche evolutive analoghe a quelle proposte negli animali, avessero guidato anche l’evoluzione dell’uomo, tanto che scrisse:

È stato supposto da alcuni che la razza umana è stata in precedenza tanto quadrupede quanto ermafrodita e che alcune parti del nostro corpo non sono effettivamente così convenienti per uno stato eretto. Questi filosofi [...] sembrano immaginare che la razza umana sia apparsa da una sola famiglia di scimmie. Queste scimmie devono poi aver accidentalmente imparato a usare gli adduttori del pollice, o quel forte muscolo che costituisce la sua sfera, tendendo la punta del dito fino a toccare la punta di tutte le altre dita, una cosa che le scimmie comuni non fanno. In questo modo, nelle successive generazioni, il muscolo deve aver gradualmente incrementato la sua taglia, la sua forza e attività; ed è da un simile perfezionamento nell'uso del senso del tatto che le scimmie hanno acquisito idee chiare diventando, gradualmente, uomini[11].

Troviamo quindi chiaramente enunciate nell’opera di E. Darwin non solo l’eredità dei caratteri acquisiti, ma anche i concetti di uso e disuso, per cui ciò che serve viene migliorato, mentre quello che ha perso la propria utilità è perso, elementi solitamente considerati “lamarckiani”.

Lo stesso Charles intravide nella Zoonomia una chiara anticipazione della proposta di Lamarck. Nella copia della Zoonomia che Darwin ereditò dal padre compare, infatti, più volte l’annotazione “Lamarck!” a fianco di questi passaggi, aspetto che Darwin riprese anche in una lettera a Thomas H. Huxley del 9 gennaio 1860 in cui scrisse: «è curioso osservare quanto mio nonno (in Zoonomia vol. I, p. 504) abbia dato, in maniera accurata ed esatta, alla teoria di Lamarck […] Lamarck ha pubblicato la Philosophie zoologique nel 1809. La Zoonomia è stata tradotta in molte lingue»[12].

In modo analogo, Darwin cita la Zoonomia in una nota presente nella parte introduttiva de L’Origine delle specie, intitolata “Compendio storico del progresso delle idee sull’origine delle specie”, in cui scrive: «mio nonno Erasmus Darwin, nella sua Zoonomia (vol I, pp. 500-510) ha anticipato le opinioni di Lamarck con gli stessi errori di impostazione. Quest’opera vide la luce nel 1794».

Contrariamente però a quanto si potrebbe pensare (e lo stesso C. Darwin scrisse), sarebbe errato pensare che E. Darwin sia stato un ispiratore di Lamarck, in quanto la Zoonomia venne tradotta in francese solamente nel 1810, ovvero dieci anni dopo la pubblicazione della “Prolusione” (Discours d’ouverture) al corso di Zoologia del 1800, in cui Lamarck anticipava la propria proposta.

Inoltre, vi sono in realtà numerose differenze tra l’opera del medico inglese e quella del naturalista francese, perché per il primo i caratteri acquisiti lo sono per effetto della volontà, mentre per Lamarck l’elemento chiave è l’adattamento al cambiamento dell’ambiente. Nell’idea di Lamarck, infatti, le funzioni proprie degli organismi rispondono sempre alle caratteristiche degli ambienti in cui essi vivono, ma nella sua idea la forma segue la funzione: nuove necessità portano a nuove abitudini da cui deriva la trasformazione delle strutture. Le nuove abitudini, se mantenute a lungo, possono avere un effetto sull’organismo determinando una alterazione della sua morfologia e struttura. Successivamente i cambiamenti apportati dalle nuove abitudini possono essere trasmessi direttamente ai discendenti grazie all’eredità diretta dei caratteri acquisiti. Nella Philosophie Zoologique, Lamarck scrive infatti che

non sono gli organi, o meglio la natura e la forma delle parti del corpo di un animale, che hanno dato origine alle sue particolari abitudini e capacità; ma al contrario sono le abitudini, le modalità di vita e l’ambiente che hanno, con il passare del tempo, regolato la forma del corpo, il numero e lo stato degli organi e, alla fine, le facoltà che l’animale possiede[13]”. In parallelo, Lamarck suggerisce che “se le nuove abitudini diventano permanenti, gli animali adottano le nuove abitudini che si mantengono tanto quanto le necessità che le hanno determinate[14].

In Lamarck non si trova quindi nella realtà l’effetto di una ineffabile volontà dell’animale, quanto un cambiamento indotto dall’ambiente: «le variazioni dell’ambiente inducono cambiamenti nei bisogni, nelle abitudini e nel modo in cui vivono gli esseri viventi (…) e queste trasformazioni danno origine a modificazioni o a cambiamenti nello sviluppo degli organi e nella forma delle loro parti»[15].

Non solo quindi l’eredità dei caratteri acquisiti non è “lamarckiana”, ma non lo è neppure il richiamo alla volontà del cambiamento, che solitamente è associata alla proposta del naturalista francese. Andando a leggere con attenzione le opere di Lamarck e E. Darwin emerge chiaramente che molte affermazioni “lamarckiane”, sono in realtà più tipiche del secondo.

I due Autori sono accomunati dal fatto che le loro opere non presentano alcuna spiegazione del modo in cui l’eredità dei caratteri acquisiti potrebbe funzionare. A loro avviso questa proposta non necessita di essere spiegata, tanto è evidentemente parte di una visione diffusa del modo in cui i caratteri sono ereditati. Tanto per E. Darwin quanto per Lamarck, l’eredità dei caratteri acquisiti è parte di una tradizione più antica che loro inseriscono in un contesto di evoluzione delle specie.

Definire quindi lamarckiana l’eredità dei caratteri acquisiti è errato da un punto di vista storico, perché essa venne simultaneamente usata da più Autori come forma di ereditarietà che affondava le proprie radici nel pensiero dell’antichità classica, tanto che la sua origine può essere ricondotta a Ippocrate, Galeno e Aristotele. Ben prima di Lamarck e E. Darwin questa idea era stata accolta come pienamente accettabile anche da numerosi naturalisti del Seicento e del Settecento. Come ben suggerisce Giulio Barsanti[16], tra i sostenitori dell’eredità dei caratteri acquisiti troviamo i teorici seicenteschi Giovan Battista Della Porta, René Descartes, Francis Bacon e William Harvey, mentre nel Settecento anche Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon fece riferimento a tale idea in più occasioni nella sua Histoire Naturelle.

Come suggerì il botanico e storico della scienza Conway Zirkle in una ricca analisi storica pubblicata nel 1946[17], la vera sfida non è trovare sostenitori di questa proposta, quanto identificare quei pochi intellettuali e naturalisti (tra cui il filosofo Immanuel Kant e il naturalista Charles Bonnet) che a inizio Ottocento non credettero nell'eredità dei caratteri acquisiti.

L’uso dell’aggettivo “lamarckiano” a caratterizzare l’eredità epigenetica è quindi scorretto e attesta la scarsa rilevanza che talvolta oggi ha la storia della scienza per gli scienziati. Come ben scriveva Antonello La Vergata,

l’indagine sul passato della scienza è spesso considerata un’attività di un gradino (o due) inferiore a quella dello scienziato militante. Eppure, se è vero che lo scienziato impegnato nella ricerca può benissimo fare a meno di un patrimonio di conoscenze storiche, anche lui, come uomo di cultura non può che trarre vantaggio dalla conoscenza di come si è evoluta la sua scienza nel tempo, cioè del grande travaglio intellettuale che sta dietro le conquiste, le teorie, i concetti, i dati sperimentali con cui egli lavora. Questa conoscenza comporta la consapevolezza critica dei legami, storicamente determinati, che collegano l’attività e il patrimonio concettuale dello scienziato al patrimonio intellettuale dei non scienziati e alle forme sociali e culturali che caratterizzano il mondo in cui viviamo[18].

Estrarre una sola parte di una teoria di un Autore, tanto più se essa non è originale, è errato da un punto di vista metodologico e per altro, nel caso specifico, svilisce l’opera di Lamarck anziché renderle i dovuti meriti. La proposta di Lamarck merita di essere apprezzata nel suo complesso e non come fosse una sorta di tentativo sbandato e immaturo, fatto di alcune (poche) buone intuizioni perse tra tanti elementi imperfetti. Per altro non è neppure storicamente corretto contrapporre a un Charles Darwin sostenitore della selezione naturale un Lamarck sostenitore dell’suo e del disuso di organi e dell’eredità dei caratteri acquisiti come cause di modificazione, poiché anche il naturalista inglese credette per molto tempo nell’eredità dei caratteri acquisiti[19]. La visione “lamarckiana” perse indubbiamente di importanza per C. Darwin nel corso del tempo, ma spazio per meccanismi “lamarckiani” di evoluzione sono presenti anche nelle ultime edizioni de L’origine delle specie, in cui semplicemente divengono vie ulteriori di evoluzione rispetto alla selezione naturale, che per il naturalista inglese è la causa più importante[20].

 

  1. Lamarck dopo Lamarck: la nascita del neo-lamarckismo

Durante quella fase che venne definita da Peter Bowler[21] come eclissi del darwinismo (compresa tra il 1870 e il 1930), molti biologi e paleontologi proposero una concezione neo-lamarckiana del processo evolutivo. In particolare, queste proposte ebbero grande successo sia negli Stati Uniti che in Francia. In entrambi i casi, il ritorno al lamarckismo era in realtà primariamente basato sulla volontà di riprendere l’eredità dei caratteri acquisiti più che su un vero e proprio ritorno alla teoria proposta dal naturalista francese. Edward Drinker Cope[22] (1840-1897) e Alpheus Hyatt (1838-1902), ad esempio, erano interessati a spiegare le tendenze macroevolutive da loro individuate nei fossili di invertebrati e vertebrati come il frutto di una forza vitale che avrebbe guidato l'evoluzione dall'interno. Questa forza interna avrebbe dovuto creare novità evolutive che nascevano sempre in una stessa direzione definita. In questo caso, l’eredità dei caratteri acquisiti garantiva una direzionalità all’evoluzione che la proposta darwiniana invece non assicurava. In questo contesto, per altro, Cope e Hyatt recuperavano un elemento che accomunava anche Lamarck e E. Darwin, per cui la capacità di ereditare caratteri acquisiti era un attributo intrinseco della vita che rendeva i processi evolutivi autosufficienti.

Più o meno nello stesso periodo, alcuni naturalisti francesi sostenevano che il primum movens dell'evoluzione non fosse un aumento filetico della complessità, ma un adattamento agli ambienti locali. Tra questi, Félix Le Dantec[23] (1869-1917) sviluppò una teoria dell'evoluzione neo-lamarckiana, in cui il protoplasma (inteso come la sostanza fondamentale che costituisce le cellule di tutti gli organismi e in cui si esplicano le funzioni vitali) era in grado di reagire ai cambiamenti ambientali e di garantire nuove conformazioni a livello chimico della cellula. Nella sua proposta l’eredità dei caratteri acquisiti altro non era che una derivazione delle proprietà fisico-chimiche classicamente all'opera nella materia organizzata che costituisce gli esseri viventi.

Sostegno a proposte neo-lamarckiane venne anche dallo zoologo tedesco Theodor Eimer[24] (1843-1898), che adottò l’eredità dei caratteri acquisiti come base per l’ereditarietà in una proposta ortogenetica dell’evoluzione, così come contribuirono alla diffusione di teorie di stampo neo-lamarckiano, tanti naturalisti, tra cui Paul Kammerer (1880-1926), Yves Delage (1854-1920) e Henry Fairfield Osborn (1857-1935). In tutte queste proposte il ricorso all’eredità dei caratteri acquisiti mirava a risolvere il problema dell'apparente improbabilità di originare adattamenti altamente sviluppati ricorrendo a mutazioni casuali. Poiché le variazioni sarebbero state prodotte come risposta diretta alle reali condizioni ambientali alle quali l'organismo si sarebbe dovuto adattare, nella visione neo-lamarckiana tali processi non avrebbero dovuto attendere variazioni casuali per aver luogo.

Rileggendo oggi queste proposte appare quindi evidente che il richiamo “lamarckiano” è stato usato con una assoluta noncuranza e probabilmente con una scarsa conoscenza della reale proposta del naturalista francese.

Che cosa si deve intendere per eredità dei caratteri acquisiti?[25] si chiedeva Giacomo Cattaneo (1857-1925) all’inizio del 1900. Questo è ancora oggi un ottimo quesito, poiché dando una risposta possiamo includere estensioni all’espressione “eredità epigenetica” ben più utili di quanto fatto con l’aggettivo “lamarckiano”. In particolare, è oggi necessario distinguere due forme di eredità epigenetica, che hanno cause e basi molecolari ben differenti. Con il termine eredità epigenetica inter-generazionale ci si riferisce esclusivamente all'effetto diretto di un agente sull’epigenetica della madre esposta a una data sostanza e agli effetti di questa stessa sostanza su feti in via di sviluppo. Si usa espressamente il termine intergenerazionale per indicare il fatto che una sostanza ha effetti epigenetici simultaneamente su madre e feto senza però che ci sia un passaggio reale di “informazione” tra generazioni. Si parla, invece, di ereditarietà epigenetica transgenerazionale quando una sostanza o uno stimolo ambientale induce una modificazione epigenetica nella madre (o nel padre) e tale variazione epigenetica è trasmessa alla prole senza che essa abbia però direttamente preso contatto con l'agente modificante.

La prima forma di eredità è facilmente spiegabile con un’azione diretta di un dato stimolo chimico o fisico. La seconda è stata per molto tempo giudicata semplicemente impossibile perché a livello gametico esistono meccanismi ben noti che portano letteralmente a rimuovere tutte le modificazioni epigenetiche presenti. In realtà, l’epigenetica si basa sia su modificazioni chimiche dirette sul DNA che su cambiamenti guidati da piccole molecole di RNA. Gli RNA sono molecole molto studiate, perché prodotte sullo stampo del DNA al fine di sintetizzare le proteine, oltre che coinvolte in diversi modi nel regolare la sintesi proteica. Da poco più di un decennio è noto che esistono alcuni piccoli RNA che sono implicati non nella sintesi di proteine, ma nella regolazione di questo processo andando direttamente ad agire sul DNA, cui si possono legare. Sia i gameti femminili che quelli maschili contengono moltissimi di questi RNA. La cosa non è più di tanto sorprendente per gli ovuli (che già sapevano contenere molti altri RNA), quanto per gli spermatozoi. Questo può voler dire che una modificazione epigenetica non passa come tale dai genitori ai figli, ma che i genitori, con i loro gameti, trasmettono ai figli molecole di RNA in grado di modificare l’epigenetica dello zigote/embrione.

La questione non è di capire se e come i caratteri possano diventare ereditari, ma di accettare se, in uno o parecchi casi, siano stati effettivamente ereditati. Se si avessero dei fatti indubbi di eredità di caratteri dovuti alle abitudini […] il capirne o no, per ora, la ragione non dovrebbe inquietarci affatto[26].

La proposta di Cattaneo è ancora oggi decisamente attuale perché mostra come la biologia evoluzionistica moderna abbia per molto tempo rifiutato la possibilità di una eredità epigenetica per un vero e proprio pregiudizio, ignorando, ad esempio, osservazioni fatte nelle piante negli anni ’70 del Novecento che fornivano l’esempio che Cattaneo chiedeva. Darwin stesso, pur vedendo nella selezione naturale il pilastro della propria teoria, non escludeva che l’evoluzione potesse talvolta seguire altre vie. Rileggendo oggi Erasmus Darwin e Jean-Baptiste de Lamarck possiamo avere modo non solo di ricordarne la vera eredità, ma anche di tenere ben impresso nella nostra mente che pensare che l’evoluzione si sia svolta esclusivamente secondo vie regie e ben definite è solo una illusione retrospettiva, che ci allontana dalla reale comprensione del modo in cui si sono evolute le infinite forme bellissime che ci circondano.

 

Ringraziamenti

La presente pubblicazione è il risultato di attività di ricerca svolte nell’ambito del progetto «La biblioteca della vita», supportato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Modena nell’ambito del bando FAR Interdisciplinare Mission Oriented dell’Università di Modena e Reggio Emilia.


[1] L. Loison, Lamarckism and epigenetic inheritance: a clarification, in «Biology & Philosophy», 33, 2018.

[2] M.K. Skinner, Environmental epigenetics and a unified theory of the molecular aspects of evolution: a neo-Lamarckian concept that facilitates neo-Darwinian evolution, in «Genome Biology and Evolution», 7, 2015, p. 1296. Traduzione dell’originale realizzata dall’Autore del presente articolo.

[3] E. Darwin, Zoonomia (1794), sez. XXXIX, tr. it. Stamperia di Angelo Trani, Napoli 1805, p. 152.

[4] Ibid., p. 151.

[5] Ibid., p. 153.

[6] Ibid., p. 153.

[7] Ibid., p. 152.

[8] Ibid.

[9] Ibid., p. 144.

[10] E. Darwin, The Temple of Nature or The Origin of Society: A Poem, with philosophical notes. Printed for J. Johnson, Londra 1803. Traduzione dell’originale realizzata dall’Autore del presente articolo.

[11] Ibid., pp. 68-69.

[12] Darwin Correspondence Project, Letter no. 2646. Traduzione dell’originale realizzata dall’Autore del presente articolo.

[13] J.P. Lamarck, Philosophie Zoologique, cit., p. 107.

[14] Ibid., p. 126

[15] Ibid., p. 45

[16] G. Barsanti, Dalla storia naturale alla storia della natura, Feltrinelli, Milano 1979, p. 139.

[17] C. Zirkle, The Early History of the Idea of the Inheritance of Acquired Characters and of Pangenesis, in «Transactions of the American Philosophical Society», 35, 1946, pp. 91-151.

[18] A. La Vergata, L’evoluzione biologica: da Linneo a Darwin, Loescher Editore, Torino 1979, pp. 12-13.

[19] M. Portera, M. Mandrioli, Who's afraid of epigenetics? Habits, instincts, and Charles Darwin's evolutionary theory in «Hist Philos Life Sci», 43, 2021.

[20] M. Portera, M. Mandrioli, Are habits inherited? A possible epigenetic route from Charles Darwin to the contemporary debate, in J. Dunham, K. Romdenh-Romluc, Habits and the History of Philosophy, Routledge, London 2022.

[21] P. Bowler, The eclipse of Darwinism. The Johns Hopkins University Press, Baltimore 1922.

[22] E.D. Cope, The primary factors of organic evolution, The Open Court Publishing Company, Chicago 1896.

[23] F. Le Dantec, Eléments de Philosophie biologique, Alcan, Paris 1907.

[24] T. Eimer, Orthogenesis der Schmetterlinge Ein Beweis bestimmt gerichteter Entwickelung und Ohnmacht der naturlichen Zuchwahl bei der Artbilding, Verlag von Wilhelm Engelmann, Leipzig 1897.

[25] G. Cattaneo, Che cosa si deve intendere per eredità dei caratteri acquisiti in «Rivista di Scienze Biologiche», 4-5, 1-11, 1900.

[26] Ibid., p. 9.

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