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«Sé» e manifestazione. Sul rapporto tra prospettiva metafisica e cosmologia in René Guénon

Autore


Roberto Corso

Università di Napoli Federico II

Indice


  1. L’interesse di Guénon per l’opera di Arthur Avalon «The serpent power»
  2. La teoria dei cicli cosmici e la «metafisica»
  3. I presupposti «metafisici» della teoria dei cicli, l’illusione della manifestazione e l’analogia macro-microcosmica nel layayoga
  4. Alcune considerazioni sul ruolo del simbolismo nell’opera di René Guénon

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S&F_n. 28_2022

Abstract


«Self» and manifestation. On the relationship between Metaphysical and cosmological perspective in René Guénon

Starting from a René Guénon’s study about a particular kind of yoga called «layayoga» (i.e. yoga of dissolution), this essay aims to point out Guenon’s interpretation of the relationship that cosmology and cyclic Hindu’s cosmological theory has with «metaphysical» perspective, that is, the relationship between manifested universe and infinity or non-duality of «ultimate reality», which is called in some cases «Self» (ātmā) or «Supreme Self» (Paramātmā). In addition to being a sign of the arising western interest in the hitherto almost unknown tantric traditions, Guenon’s study, represents for its author an opportunity to point out more than just the «theorical» character of what he means by «metaphysical» traditions.

D’une façon générale, une doctrine spirituelle est, en tant que telle, une anthropologie, c’est-à-dire qu’elle est d’ordre cosmologique. Elle est une doctrine de la dualité, puisqu’elle enseigne une voie, une direction, définie à la fois par son point de départ et son point d’arrivée : elle est médiatrice entre jivātmā et Paramātmā. La métaphysique est pour elle une implication, non son corps même ; et les difficultés intellectuelles qu’elle offrira proviendront souvent de la nécessité d’accorder les formules, souvent contradictoires, de la métaphysique et de la cosmologie

A. Préau, René Guénon et l’idée métaphysique

 

 

  1.  L’interesse di Guénon per l’opera di Arthur Avalon «The serpent power»

Sebbene uno dei principali contributi di René Guénon (1886-1951) dedicati alla tradizione induista, L’Homme et son devenir selon le Vêdânta (1925), prenda le mosse dall’esposizione del punto di vista dottrinale riconducibile all’advaitavedānta śaṅkariano, in alcune occasioni, Guénon ha anche manifestato un certo interesse per il cosiddetto «tantrismo». Questo «fenomeno», a suo dire, «uno dei fenomeni più mal conosciuti delle dottrine indù»[1], è l’oggetto di tre contributi pubblicati nel corso degli anni ’30, vale a dire, Kundalinī-Yoga (1933), Tantrisme et magie (1937) e Le cinquième Vêda (1937).

Tuttavia, prima ancora di quelli di Guénon, tra gli studi sulle tradizioni tantriche, erano apparsi in Europa i lavori di John Woodroffe (1865-1936), la cui opera The Serpent power (1919) costituisce, per l’appunto, l’occasione del primo dei suddetti contributi guénoniani. Conosciuto anche con lo pseudonimo di Arthur Avalon, John Woodroffe, può essere considerato uno dei principali pionieri degli studi tantrici contemporanei. Fondatore della collana dei Tantric Texts e traduttore di numerose opere della tradizione tantrica induista, i suoi lavori suscitarono in Occidente un considerevole interesse[2].

Infatti, il testo di Avalon: The serpent power. Two works on laya-yoga, translated from the sanskrit, with introduction and commentary, edito per la prima volta nel 1919 e più volte ristampato, costituisce l’oggetto e lo spunto di uno dei numerosi studi di Guénon dedicati all’esposizione, di dottrine, pratiche e simboli, tanto di tradizioni orientali quanto delle tradizioni dell’Occidente premoderno. I due testi tradotti da Avalon, il Ṣaṭcakranirūpaṇa, ossia «la descrizione dei sei centri» e il Pādukāpañcaka, «il quintuplice sgabello», «trattano una forma particolare di Yoga tantrico detto kundalinī-yoga, o, come è chiamato in alcune opere, bhūta-śuddhi [i.e. la purificazione degli elementi]»[3].

Verosimilmente, quest’opera doveva aver suscitato un particolare interesse in un autore come René Guénon, soprattutto in virtù della tematica centrale a cui fa riferimento il lavoro di Avalon, vale a dire la questione del rapporto di analogia tra la teoria induista dei cicli cosmici e una particolare pratica yogica.

Nel 1933, il metafisico francese, senza entrare nel merito dei testi tradotti e limitandosi a un commento della sola introduzione, pubblicava infatti sulla rivista Le Voile d’Isis uno studio intitolato, per l’appunto, Kundalinī-Yoga, in cui affrontava, a partire dal lavoro di Avalon, alcune tematiche collegate all’esposizione del tema del layayoga.

Questo studio costituisce, tra l’altro, uno dei non molto frequenti riferimenti guénoniani a specifiche pratiche yogiche:

Il genere di Yoga di cui qui si tratta si riconduce a quello che è chiamato layayoga, e consiste essenzialmente in un processo di «dissoluzione» (laya), vale a dire di riassorbimento, nel non-manifestato, dei diversi elementi costituitivi della manifestazione individuale, riassorbimento che si effettua gradualmente secondo un ordine che è rigorosamente l’inverso di quello della produzione (sṛṣṭi), o sviluppo (prapañca) della manifestazione[4].

 

La tematica in questione ha come suo sfondo un tema variamente ricorrente negli scritti di Guénon, ossia il punto di vista cosmologico espresso dal sāṃkhya[5] e, soprattutto, la complessa teoria panindiana dei cicli cosmici. In generale, fa da sfondo alla pratica in questione l’idea del doppio movimento dell’emergere (sṛṣṭi) dell’universo manifesto e del suo riassorbimento (saṃhāra) o dissoluzione (pralaya) nel non-manifestato.[6] Semplificando al massimo, l’intervallo tra questi due momenti di espansione e contrazione dell’universo è rappresentato, in una delle sue fasi, dal susseguirsi delle quattro età, ossia dei vari yuga, denominati in base al lessico del gioco dei dadi, vale a dire Il kṛtayuga, il tretāyuga, il dvāparayuga e il kaliyuga[7].

Contrapponendolo a una certa «mentalità “evoluzionistica”», Guénon descriveva il susseguirsi dei vari cicli attraverso una logica di progressiva e sempre più rapida materializzazione e di progressivo «oscuramento», che «necessariamente accompagna ogni processo ciclico di manifestazione»[8].

Questa tematica, particolarmente presente nell’universo culturale indiano, costituisce, come accennato, un riferimento privilegiato e variamente diffuso in tutta l’opera di Guénon, sebbene venga affrontata direttamente in poche occasioni[9].

Con toni ben distanti dai toni critici riservati altre volte agli studi occidentali su temi simili, Guénon doveva vedere nel lavoro di Avalon un’esposizione degna di nota di questa tematica, nonostante l’approccio nettamente più vicino, rispetto a quello guénoniano, all’orientalismo accademico e filologico.[10] Inoltre, si trattava dell’esposizione di una tematica legata alle tradizioni tantriche, rispetto alle quali, in altre occasioni, Guénon aveva dichiarato esserci una troppo scarsa conoscenza in Occidente, così come per il buddhismo in generale e per il buddhismo tibetano in particolare[11].

Il lavoro di Avalon rimandava, inoltre, proprio al punto di vista cosmologico e alla teoria dei cicli cosmici, che, come detto, riemerge spesso in importanti contributi guénoniani dedicati all’esposizione, non solo delle dottrine induiste, ma, in generale, del punto di vista di quella che egli chiama «metafisica» e delle sue varie «applicazioni» e implicazioni[12].

 

  1. La teoria dei cicli cosmici e la «metafisica»

La «teoria» dei cicli cosmici, ricostruibile nel solco dell’induismo ad esempio, ma non esclusivamente, dalla letteratura purāṇica, viene presa in considerazione da Guénon in primo luogo in quanto rappresentazione cosmologica direttamente dipendente dal principio metafisico universale, che nelle tradizioni induiste è chiamato il «Sé» (ātmā) in quanto identico alla realtà ultima chiamata brahman[13]. Secondo la prospettiva cosmologica, il principio infinito, immanifesto e non-duale, è considerato, per così dire, nel suo parziale autoapparire nella manifestazione[14].

Tutto ciò va letto, inoltre, alla luce dell’esposizione guénoniana relativa al ruolo di quelle che chiama le «scienze tradizionali», di cui, evidentemente, anche la cosmologia fa parte. Le «scienze tradizionali», in generale, vengono concepite da Guénon in quanto «applicazioni» della dottrina metafisica pura, dipendenti da essa e con un doppio carattere sia teorico che operativo:

certe scienze […] possiedono un doppio significato. Nel loro aspetto esteriore, quelle scienze si riferiscono al macrocosmo e possono essere giustamente considerate da questo punto di vista. Ma allo stesso tempo esse hanno anche un significato più profondo, quello che si riferisce all’uomo stesso e alla via interiore attraverso la quale egli può realizzare la conoscenza dentro di sé, realizzazione che non è altro che quella del proprio essere[15].

 

È soprattutto in questa cornice che Guénon mostrava un interesse per la teoria cosmologica dei cicli, avendo fatto proprio e messo al centro del suo lavoro il carattere «soteriologico» eminentemente presente nella tradizione culturale indiana[16].

Così, per quelle che appaiono le sue stesse indicazioni, non si trattava tanto di esporre una teoria il cui scopo fosse esclusivamente quello di restituire una spiegazione della realtà fenomenica, quanto di fornire un supporto meditativo in vista di ciò che Guénon chiama «realizzazione metafisica».

Proprio su quest’ultima questione verteva infatti il testo di quella che pare sia stata la sua unica conferenza pubblica, almeno su questi temi, dedicata a La Métaphysique orientale (1925) e rivolta fondamentalmente a presentare la distanza tra il punto di vista «esteriore» filosofico e scientifico occidentale contemporaneo, rispetto al carattere esoterico-iniziatico e trasformativo, secondo lui, ormai rinvenibile esclusivamente nelle dottrine orientali[17].

Infatti, proprio in quell’occasione, Guénon esplicitava, tra le altre cose, il senso da dare al termine «teoria» in relazione a ciò che egli chiama «metafisica», visto che, con questa espressione, «non si tratta solo di teoria»[18]. Il termine «metafisica», peculiare alla tradizione occidentale, ma di cui questa non ne comprenderebbe la portata, viene da lui utilizzato per riferirsi a tutte quelle espressioni culturali, non assimilabili né a tradizioni religiose sic et simpliciter, né a costruzioni filosofico-razionali. Si tratta, pertanto, di quelle tradizioni in cui l’attività conoscitiva, unitamente ad altri tipi di supporti, viene riferita all’intuizione incomunicabile di un principio infinito, manifesto solo in parte e, dunque, ultraontologico e ultrateologico dell’intera manifestazione: il principio totipotente e infinito-transfinito di tutti gli stati dell’essere, manifestati e non-manifestati.

Sempre in queste tradizioni, l’attività conoscitiva è considerata come possibile mezzo per la «realizzazione» (sādhana), o, in altri termini, per l’attualizzazione delle possibilità latenti dell’individuo, fino alla sua identificazione con la «possibilità infinita» o «Universale»: «L’ottenimento di questo stato è ciò che la dottrina indù chiama la “Liberazione”» (mukti o mokṣa), «quando la considera in rapporto agli stati condizionati, oppure l’“Unione”» (yoga), «quando lo vede in relazione al Principio supremo»[19].

Nel testo della conferenza del 1925 (edito però nel 1939) appariva anche un fugace riferimento alla teoria dei cicli proprio in rapporto alla «realizzazione metafisica», rispetto alla ricapitolazione delle sue «tappe principali»[20].

Inoltre, tanto nella conferenza su La Métaphysique orientale quanto nel saggio del 1933 sul Kundalinī-Yoga, proprio rispetto alla chiarificazione relativa al senso da dare all’espressione «unione» (yoga), Guénon segnalava il possibile equivoco di considerare la natura individuale come qualcosa di semplicemente irreale. In questo senso, egli sottolineava, rispetto al significato del termine sanscrito yoga[21], che, sebbene il sé individuale

non si distingua di fatto dall’Universale se non in modo illusorio, occorre non dimenticare che è dall’individuo che parte necessariamente qualsiasi «realizzazione» […] e che, dal suo punto di vista, la realizzazione presenta l’apparenza di una «unione», anche se, a dire il vero, essa non è affatto qualcosa «che deve essere effettuato», ma soltanto una presa di coscienza di «ciò che è», vale a dire dell’«Identità suprema»[22].

 

In effetti, la questione relativa all’interpretazione dell’intera manifestazione, dunque, non solo di quella sensibile, in termini di «illusione», e quindi, in generale, del punto di vista cosmologico, è un punto dirimente riguardante una certa declinazione del senso che, relativamente al Vedānta di Śaṅkara, al quale Guénon si richiama esplicitamente, viene dato all’espressione «non-dualità» (advaita). Declinazione differente rispetto a quella che la stessa espressione può assumere in altri ambiti, in relazione al rapporto tra la realtà del «Sé» e l’illusorietà delle sue manifestazioni individuali[23].

Sebbene in alcune occasioni Guénon sembri tentare di chiarire i possibili equivoci relativi alla non-dualità[24], così come l’equivoco sul carattere immutabile e non-temporale del principio supremo interpretato come semplice negazione del movimento[25], la tensione non risolta tra le varie possibili declinazioni relative a tali questioni resta un punto piuttosto ambiguo della sua opera.

 

  1. I presupposti «metafisici» della teoria dei cicli, l’illusione della manifestazione e l’analogia macro-microcosmica nel layayoga

Questa ambiguità è, in fondo, legata all’indefinibilità dei presupposti «metafisici» a cui rimanda continuamente il discorso guénoniano[26] e si ritrova nella messa a tema dell’opposizione tra il carattere non-temporale del principio e la natura temporale della manifestazione.

Questi principi metafisici universali da cui tutto dipende, poiché nulla escludono, vengono in un primo momento esposti da Guénon in maniera articolata proprio negli scritti dedicati alla tradizione vedico-induista, considerata la maggiormente prossima a quella che chiama «tradizione primordiale»[27]. Tali principi universali rimandano, come detto, all’idea di realtà suprema espressa come l’ātman-brahman e intuita come infinita-immanifesta e non-duale. Per la sua inesauribilità, tale piano è «definibile solo apofaticamente con la celebre espressione “non così, non così” (neti neti[28].

Tuttavia, nel suo scaricarsi nella manifestazione, assumendo quindi la limitazione, dualità e, dunque, transitorietà, propria di ogni fenomeno, la realtà suprema autoappare attraverso una forma ciclica-temporale secondo una «legge» di uscita dall’immanifesto e di ritorno in esso, che si ripete indefinitamente e prismaticamente secondo gradi diversi in tutta la manifestazione[29], escludendo però, in virtù della sua infinità, la ripetizione dell’identico[30].

Nel considerare il rapporto tra metafisica e cosmologia, dunque il rapporto tra il piano del «Supremo Sé» (paramātmā) immanifesto, nel senso di non esauribile né totalizzabile nella manifestazione, e il piano della sua fenomenizzazione attraverso māyā, l’illusione divina, Guénon sviluppa, per così dire, le conseguenze logiche implicite nella nozione di realtà ultima non-duale o Sé supremo. Egli traduce in linguaggio logico-matematico, la realtà ultima senza superiore (anuttara) di cui parla la tradizione induista, riferendovisi nei termini di «possibilità infinita»[31], traslando al di là dell’essere il rapporto, di ascendenza aristotelica, tra potenza e atto e trasferendolo nella dinamica tra manifesto e immanifesto.

La realtà suprema, considerata non in sé, ma dal punto di vista della manifestazione[32], è denominata śakti, māyā. Si tratta della fantasmagoria divina o madre delle forme che viene detta corrispondere all’autoapparire-autocelarsi del Sé supremo e al suo autolimitarsi. Da questa apparente limitazione dipende l’apparire della distinzione (bheda) spaziale e temporale e il passaggio dalla prospettiva metafisica a quella cosmologica.[33]

Tuttavia, la manifestazione universale, in altri termini, tutto ciò che è caratterizzato dalla dualità e che quindi comprende la manifestazione a tutti i suoi i livelli e gradi, non va confusa, dice Guénon, con qualcosa di semplicemente irreale, un semplice nulla, nella misura in cui la potenza (śakti) viene distinta dal principio solo per poterne parlare, ma è a esso unita e identica:

quello che di fatto è illusorio è il punto di vista che porta a considerare la manifestazione come esteriore al principio; è in questo senso che l’illusione è anche «ignoranza» (avidyā), cioè precisamente il contrario o l’inverso della «Saggezza» […]; è questa, si può affermare, l’altra faccia di Māyā, ma a condizione di precisare che essa esiste unicamente come conseguenza del modo errato in cui guardiamo alle sue produzioni[34].

 

Pertanto, tornando al testo di Avalon, che nella sua opera faceva esplicitamente riferimento alla cosiddetta tradizione śākta, ossia a quelle tradizioni che per scopi soteriologici pongono l’accento proprio sulla potenza (śakti) e dunque sul carattere femminile e dinamico, piuttosto che sull’aspetto non-agente del Principio supremo[35], l’orientalista inglese esponeva da questo punto di vista dottrinale e rituale (vedi l’invocazione alla dea posta in esergo alla sua opera) l’evoluzione macro-microcosmica della manifestazione:

Kuṇḍala significa arrotolato. Questa Potenza è la Dea (devī) kuṇḍalinī, ossia «ciò che è arrotolato», perché la sua forma è quella di un serpente arrotolato e dormente nel centro corporeo più basso, finché, mercé il mezzo descritto, non è svegliata da quello Yoga che da lei prende nome; kuṇḍalinī è la Divina Energia Cosmica nei corpi[36].

 

Nel commentare e riassumere l’opera di Avalon, Guénon poteva così tornare ancora una volta, non solo sulla questione delle leggi cicliche, ma anche e soprattutto sulla questione della loro applicazione operativa.

Basato sullo studio diretto delle fonti, il testo dell’orientalista inglese, il quale faceva parte di quegli occidentali che avevano intrapreso esperienze iniziatiche in India[37], permetteva di mostrare e di attestare in che modo il principio secondo il quale la manifestazione procede dall’immanifesto (l’infinito), al manifesto (il finito) potesse fornire la base per una specifica pratica yogica. Ripercorrendo il processo cosmico che va dal più sottile al più grossolano, per ritornarvi periodicamente, il praticante si applica nel risveglio dell’energia allo stato latente, attraverso tecniche in grado di attivare la sua risalita dal centro più basso, il mūlādhāra, verso i gradini superiori, fino al riassorbimento di tutta la manifestazione e quindi anche del sé individuale nel non-manifestato[38].

Secondo la pratica del layayoga, il praticante dovrà dunque ripercorre in sé il processo dell’intera manifestazione universale, ossia visualizzare i vari gradi:

che dovrà attraversare successivamente colui che segue la via di «dissoluzione», affrancandosi in tal modo gradualmente dalle diverse condizioni limitative dell’individualità, prima di raggiungere lo stato sovraindividuale nel quale potrà essere realizzata, nella Coscienza pura (cit), totale e informale, l’unione effettiva con il Sé supremo (paramātmā), unione il cui risultato immediato è la «Liberazione» (mokṣa)[39].

 

Pertanto, la teoria dei cicli cosmici, intesa come la progressiva manifestazione dell’«invisibile che, evolvendo» e «condensandosi (che è ciò che esprime la radice mūrch, alla quale si ricollega la parola mūrti, indicante l’immagine divina)»[40] si autolimita per manifestarsi, viene messa in un rapporto di analogia con il «microcosmo» rappresentato dal corpo. Tanto quest’ultimo, quanto la materia, vengono concepiti come quel limite che deve essere raggiunto, prima di procedere nel senso inverso[41].

Si tratta della descrizione di quel movimento continuo dal limite all’illimitato, dalla dispersione all’unione e viceversa, così come nella «sistole e nella diastole dell’universo» rappresentata dai cicli cosmici, di cui il kaliyuga annuncia l’avvicinamento verso il punto di svolta precedente al movimento di ritorno allo stato immanifesto e l’inizio di un nuovo ciclo.

Come detto, nel layayoga, questa dinamica macrocosmica si riflette nel microcosmo:

È importante non perdere mai di vista la nozione dell’analogia costitutiva del «Macrocosmo» e del «Microcosmo», in virtù del quale tutto quel che esiste nell’Universo si ritrova anche in un certo modo nell’uomo, cosa che il Viśvasāra Tantra esprime in questi termini: «Ciò che è qui è là, quel che non è qui non c’è da nessuna parte» (yadihāsthi tadānyatra yannehāsthi na tat kvacit). Bisogna aggiungere che, a motivo della corrispondenza esistente tra tutti gli stati dell’esistenza, ciascuno di essi contiene in sé, in un certo modo, quasi un riflesso di tutti gli altri, ciò che permette di situare, ad esempio, nel campo della manifestazione grossolana, sia essa presa in considerazione nell’insieme cosmico o nel corpo umano, «regioni» corrispondenti a modalità diverse della manifestazione sottile, così come a tutta una gerarchia di «mondi» che rappresentano altrettanti gradi differenti nell’esistenza universale.» Per cui: «i sei centri in questione sono riferiti alle divisioni della colonna vertebrale, chiamata meru-daṇḍa in quanto costituente l’asse del corpo umano, così come dal punto di vista «macrocosmico» il Meru è l’«asse del mondo»[42].

 

In queste pagine, anche l’ignoranza limitativa, pensata come l’oblio del principio di sé stesso, va ricompresa nella non-dualità del principio infinito che, in quanto «possibilità totale», comprende in sé la possibilità del finito, ossia quell’oblio rappresentato macrocosmicamente dalla discesa ciclica nel kaliyuga.

Pertanto, il discorso sulla temporalità ciclica conduce problematicamente alla «terrifica» dinamica di creazione e distruzione dell’universo e che mostra una tensione e un continuo rimando tra intemporalità e temporalità, in altri termini, tra jīvātmā, il sé vivente e temporale, e Paramātmā, il sé supremo non-temporale nel suo inesauribile fenomenizzarsi[43].

 

  1. Alcune considerazioni sul simbolismo nell’opera di René Guénon

A conclusione di queste brevi note, che ovviamente richiederebbero ulteriori approfondimenti, si può sottolineare come l’interesse di René Guénon per una pratica come quella del layayoga, costituisca un esempio di come questi tentasse di dare a ciò che intendeva per «metafisica» un senso tutt’altro che esclusivamente e astrattamente teorico.

D’altra parte, si può anche notare come, a dispetto del tono veritativo e dell’«opzione concettuale eternalistica»[44] indubbiamente presenti nell’opera di Guénon, l’interesse in certo senso tardivo per le tradizioni tantriche, così come per il buddhismo mahāyāna, lasci intravedere tentativi di approccio a forme tradizionali che si allontanavano dall’ abituale «fedeltà» espositiva all’ortodossia vedica[45]. «Ortodossia» che, in ogni caso, per quelle che sembrano le intenzioni di Guénon, pare comunque possa essere interpretata, in maniera più felice, accostandola all’«unità per difetto» propria della vacuità buddhista[46] piuttosto che a una qualsivoglia positività dogmatica[47].

In questo senso, per quelli che sono i presupposti teorici ricavabili dall’opera di Guénon, quel piano «metafisico» non-duale, proprio perché pensato come infinito, non potendo avere qualcosa fuori di sé, poiché ciò ne comporterebbe la limitazione, non può neppure essere cristallizzato in una qualsiasi positività veritativa né in una dimensione temporale fissa. Il discorso di Guénon finisce così per presentarsi come un discorso-limite, nella misura in cui mette a tema il limite insito in ogni espressione simbolica, orientando così l’attenzione verso un piano che esula da quello teorico[48].

Tuttavia, in tutto il discorso guénoniano, nella sua vertiginosa sintesi universale di tutte le tradizioni e formazioni di senso verso quell’unico punto immanifesto analogo al punto di svolta tra fase ascendente e discendente del respiro, all’ineludibile dimensione ineffabile e perciò intimamente «esoterica» della «metafisica» si accosta l’idea di una «necessaria “materializzazione” dei “supporti”»[49] che ne renda in certo modo possibile l’espressione simbolica.

Pertanto, l’opera di Guénon finisce inevitabilmente e problematicamente per presentare se stessa come uno di quei supporti. Questo in base all’intenzione esplicitamente dichiarata dal suo autore, che ne sanciva la incomponibile distanza dagli ambienti accademici, di ricondurre il suo lavoro a scopi «iniziatici»[50], ossia di voler fornire, o meglio trasmettere, alcuni supporti «preliminari» in grado di generare le condizioni favorevoli per avanzare in un processo di realizzazione spirituale[51]. Secondo Guénon, questi mezzi possono, infatti, assumere, in linea di principio, qualsiasi aspetto per potersi meglio adattare alle esigenze di ognuno e a qualsiasi circostanza[52].

Inoltre, sebbene utile in certe circostanze, lo stesso pensiero discorsivo e simbolico è spesso rappresentato in queste tradizioni e nell’esposizione guénoniana di queste stesse come un fattore «ostruente» rispetto al percorso di realizzazione, se si cede alla tentazione di scambiare la «conoscenza» nel suo senso pieno con una qualsiasi formulazione teorica[53]. Tuttavia, un punto di appoggio, un supporto, potrà e in un certo senso dovrà essere trovato anche in ciò che a prima vista può sembrare un ostacolo. In questo senso, il pensiero discorsivo e, in generale, il simbolico possono assolvere una funzione di supporto, secondo Guénon, a patto che non si produca uno scambio o un’identificazione del simbolo con ciò che è simbolizzato[54].

Pertanto, secondo la prospettiva metafisico-realizzativa che Guénon trae dalle fonti tradizionali di volta in volta prese in considerazione e interpretate, ciò che lega, può essere utilizzato come mezzo di liberazione, se ci si libera non tanto dal suo carattere limitato, in fondo ineliminabile, quanto dal suo carattere limitante (in cui faceva rientrare anche gli aspetti sentimentalistici e consolatori religiosi e moralistici[55]). Tutto ciò, attraverso una sorta di procedimento alchemico, in grado di ricollegare gli elementi «inferiori» agli stati «superiori»[56]. Tematica, quest’ultima, su cui viene particolarmente posto l’accento proprio nel mondo tantrico, in cui i riti possono infatti assumere anche caratteri antinomici[57].

In questo senso, l’elemento, particolarmente presente e caratterizzante l’opera di Guénon, relativo al simbolismo cosmologico, matematico o rituale, assume un significato piuttosto peculiare. Come nel caso della teoria dei cicli cosmici, e l’interesse per il layayoga ne è un esempio lampante, per Guénon non è affatto in questione l’esposizione della dottrina di per sé stessa o del suo significato culturale, ma la possibilità di mostrare un esempio di una «trasfigurazione» di elementi simbolici e discorsivi in vista della realizzazione.

Tuttavia, tra i vari temi presenti nell’opera del metafisico francese, proprio il tema centrale della «metafisica» e quindi della «realizzazione metafisica» viene presentato in una tensione tra il simbolismo e il continuo rimando a ciò che questo lascia inevitabilmente fuori. La questione della funzione di supporto dei simboli resta infatti legata all’idea che, nei confronti della «possibilità infinita», di cui l’intera manifestazione non è che un’«illustrazione», ogni espressione, in quanto inevitabilmente finita, non può che assumere un senso evocativo e allusivo[58].

Così, nonostante l’attenzione dedicata da Guénon al simbolismo, la sua opera appare comunque fortemente caratterizzata dalla tensione verso quel piano immanifesto e inafferrabile, che, in quanto infinto e non-duale, resta inevitabilmente inesprimibile e, quindi, al di là di ogni parola e simbolo.

 


[1] R. Guénon, Kundalinī-Yoga (1933), in Studi sull’induismo (1967), tr. it. Luni editrice, Milano 1990, p. 27. R. Guénon, al di là della sua impostazione «metafisico-universale» e antistoricistica che lo pose spesso in contrasto o in una sorta di non dialogo con l’orientalismo filologico e accademico, resta comunque, tra le altre cose, uno dei primi studiosi contemporanei della civiltà indiana. Per quanto riguarda la sua figura e la sua opera si veda almeno J.-P. Laurant, René Guénon. Esoterismo e tradizione (2006), tr. it. Edizioni mediterranee, Roma 2008.

[2] Per una ricostruzione della biografia e dell’opera di John Woodroffe si veda K. Taylor, Sir John Woodroffe, Tantra and Bengal. ‘An Indian Soul in a European Body’?, Surrey, Curzon Press, 2001, in cui viene mostrato come l’opera di Avalon sia stata variamente recepita da figure come quella di H. Zimmer o di C. G. Jung, ma anche da J. Evola, il quale, nel 1925, contrapponeva il punto di vista tantrico a quello del Vedānta espresso da Guénon, cfr. J. Evola, L’uomo e il suo divenire secondo il Vedānta, in «L’idealismo realistico», novembre-dicembre 1925 (n. 21-24); la traduzione italiana della risposta di Guénon viene pubblicata sulla stessa rivista nel maggio 1926, cfr. R. Guénon, A proposito della metafisica indiana: una rettifica necessaria, in « L’idealismo realistico» anno III, fasc. 9-10, 1-15 maggio 1926. Altri riferimenti alla figura di J. Woodroffe si trovano anche in H. B. Hurban, Tantra. Sex, Secrecy, Politics and Power in the Study of Religion, Berkley and Los Angeles, University of California Press, 2003, pp. 134-147 e in A. Padoux, Tantra (2010), tr. it. Einaudi, Torino 2011, pp. 225-226.

[3] A. Avalon, Il potere del serpente (1919), Roma, Edizioni Mediterranee 1987, p. 11.

[4] R. Guénon, Kundalinī-Yoga, cit., pp. 28-29.

[5] Di una specifica scuola sāṃkhya che interpreta quest’ultimo nella sua conformità con l’advaitavedānta, ossia la scuola di Vijñānabhikṣu (XVI sec.); cfr. Id., L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta (1925), tr. it. Adelphi, Milano 2016, p. 18; p. 50.

[6] «Un’età del mondo (kalpa), il periodo nel quale l’universo è manifestato, è fatta corrispondere alla durata di mille mahāyuga degli dèi ossia dodici milioni di anni divini pari a ben quattro miliardi e trecentoventi milioni di anni, corrispondenti a un solo giorno del demiurgo Brahmā. L’intera vita del demiurgo, un mahākalpa, dura ben cento anni di Brahmā: 432 miliardi di anni divini, pari a 155.520.000.000.000 anni umani! Quest’immensa durata equivale a un solo batter di ciglia del Signore Supremo, variamente identificato con il Puruṣa, Viṣṇu o Śiva, tutti alter-ego del Brahman. Il Signore Supremo è “precedente” la manifestazione e Totalmente Altro rispetto ai domini di tempo e spazio. Non tocco dal saṃsāra da tutta l’eternità, Egli lo domina e controlla perfettamente. Alla fine d’ogni giorno di Brahmā, cioè di ogni emissione/sprigionamento (sṛṣṭi) succede uno dei periodici dissolvimenti/riassorbimenti (pralaya) dell’universo nell’Uno indifferenziato, creduto essere della stessa vertiginosa durata, e inizia pertanto la notte di Brahmā, cui segue un rinnovo della manifestazione e via di seguito per cicli temporali talmente smisurati da apparire infiniti e nei quali l’uomo si smarrisce.» A. Rigopoulos, Introduzione ai testi tradotti, in F. Sferra (a cura di), Hinduismo antico, Mondadori, Milano 2010, p. CCII.

[7] Cfr. ibid., p. CC.

[8] R. Guénon, Il quinto Vēda (1937), in Studi sull’induismo, cit., p. 81.

[9] Gli scritti di Guénon in cui viene dato maggiore spazio alla teoria dei cicli cosmici sono: La crise du monde moderne (1927), pp. 21-42; Quelque remarques sur la doctrine des cycles cosmiques (1937/1938), articolo apparso inizialmente in inglese sul Journal of the Indian Society of Oriental Art rivista pubblicata in India dall’indianista Stella Kramrisch, che aveva chiesto questo articolo a Guénon, poi inserito nella raccolta postuma Formes traditionnelles et cycles cosmiques (1970), pp. 13-24; Le Règne de la quantité et les signes des temps (1945), pp. 268-272. Per uno studio dedicato alla complessa e problematica questione della temporalità nel pensiero di Guénon si veda A. Giugliano, Note sulla temporalità in René Guénon, in AA. VV., L’etica come fondamento. Scritti in onore di G. Lissa, Napoli, Giannini 2010, pp. 113-122.

[10] Nel già citato lavoro di K. Taylor, viene riportato un elogio dell’opera di Avalon da parte di Sylvain Lévi, autorevole rappresentante dell’orientalismo accademico dell’epoca, v. K. Taylor, Sir John Woodroffe, Tantra and Bengal. ‘An Indian Soul in a European Body’?, cit. p. 137. Per quanto riguarda il giudizio di Guénon sull’orientalismo «ufficiale» e, in generale, sulle interpretazioni occidentali dell’Oriente, si veda soprattutto la quarta e ultima parte di R. Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù (1921), tr. it. Adelphi, Milano 1989, pp. 209-243. Si veda anche A. Giugliano, Sulla critica metafisico-panorientale di René Guénon all’orientalismo filologico-storico e filosofico-idealistico tedesco, in E. Massimilla – G. Morrone (a cura di), La Germania e l’Oriente. Filologia, filosofia, scienze storiche della cultura, Napoli, Liguori 2020, pp. 236-245. A differenza di quanto avvenuto per Avalon, lo stesso Guénon riporta il giudizio di Louis Renou, altro importante rappresentante dell’orientalismo accademico, che fa riferimento al pericolo delle «elucubrazioni di un René Guénon», distinguendo «a fianco dell’indianismo ufficiale o universitario, votato, come ci si dice, alla grammatica, un indianismo che, esso solo, va all’essenza delle cose. Un indianismo, in realtà, da viaggiatori superficiali, da giornalisti, quando non sia da semplici sfruttatori della pubblica credulità, che si fan belli di istruire un pubblico ignorante sul Vēdānta, sullo Yoga o sul Tantrismo», R. Guénon, Studi sull’induismo, cit., pp. 274-276.

[11] Cfr. Id., Introduzione generale allo studio delle dottrine indù (1921), cit., pp. 140-149. Sulla questione del rapporto di Guénon con il buddhismo e del cambio di opinione su quest’ultimo, osservabile proprio nelle modifiche apportate dall’autore alla quarta edizione della sua Introduction, si veda anche l’interessante contributo di Marco Pallis in cui si fa riferimento alla ricezione di Guénon in Tibet: M. Pallis, René Guénon et le Bouddhisme, in «Études Traditionnelles», n. 293-294-295, 1951, Numéro spécial consacré à René Guénon, pp. 308-316. A testimonianza del nascente interesse per tradizioni come quella del buddhismo tibetano proprio negli ambienti più prossimi a Guénon, si veda l’entusiastica nota di lettura di M. Clavelle (Jean Reyor), Le poète tibétain Milarepa, in «Le Voile d’Isis», 114, 1929, pp. 411-416; riguardante la traduzione francese dal tibetano della Vita di Milarepa del tibetologo Jacques Bacot.

[12] Per quanto riguarda le dottrine induiste, si veda in merito il discorso sui darśana, i «punti di vista sulla dottrina» e l’esposizione relativa al sāṃkhya, uno dei sei darśana, in R. Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, cit. pp. 165-206.

[13] Cfr. R. Panikkar, I Veda. Mantramañjarī (1977), tr. it. Bur, Milano 2018, pp. 954-955: «Ātman da solo, nelle Upaniṣad, significa corpo, soffio divino che dà la vita, coscienza, il soggetto di ogni sensazione e di ogni cosa, il soggetto attivo indipendente, il vero sé nell’uomo e dell’uomo, il sé del mondo, il soggetto di ogni azione spirituale come pure il soggetto della coscienza cosmica e, infine, Brahman. All’inizio ātman sta a significare il soggetto immediato, o sé, in modo concreto, empirico, e alla fine significa il soggetto ultimo, o Sé, di tutta la relatà.»; cfr. anche F. Sferra (a cura di), Hinduismo antico, cit., p. XIII rispetto al termine brahman, con cui ci si riferisce a quella «dimensione atemporale che trascende il mondo con le sue reltà condizionate, cioè il saṃsāra, il divenire cosmico e il ciclo delle rinascite».

[14] «Se Brahma non fosse «senza parti» (akhaṇḍa), si potrebbe dire che soltanto un quarto di Esso è nell’Essere (comprendendovi tutto ciò che ne dipende, vale a dire la manifestazione universale di cui è il principio), mentre gli altri Suoi tre quarti sono al di là dell’Essere.» R. Guénon, L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta, cit. p. 101.

[15] Id., «Conosci te stesso» (1931), in Il Demiurgo e altri saggi, tr. it. Adelphi, Milano 2007, pp. 80-81.

[16] Cfr. G. Tucci, Storia della filosofia indiana (1957), Laterza, Bari, pp. 11-13.

[17] R. Guénon, La metafisica orientale (1925), tr. it. Adelphi, Milano 2022.

[18] Ibid., p. 22.

[19] R. Guénon, La metafisica orientale, cit., p. 35. In quell’occasione Guénon porta come esempi di tradizioni metafisiche anche l’esoterismo islamico, cioè il sufismo, e il taoismo, cfr. ibid., p. 6.

[20] Ibid., pp. 30-33.

[21] Per un’analisi dei significati del termine yoga e per una contestualizzazione storica di questo fenomeno, si veda l’introduzione di F. Squarcini alla traduzione sua e di G. Pellegrini degli Yogasūtra, si veda dunque: Patañjali, Yogasūtra, tr. it. Einaudi, Torino 2015, pp. VII-CXXV.

[22] R. Guénon, Kundalinī-Yoga, cit., p. 28; cfr. A. Avalon, Il potere del serpente, cit., p. 149; Id. La metafisica orientale, cit., p. 26.

[23] Cfr. F. Sferra (a cura di), Hinduismo antico, cit., p. XXXIX: «Il pensiero filosofico-religioso indiano ha elaborato diverse concezioni sia dell’individuo sia del mondo, che, semplificando moltissimo, si possono a ricondurre a due visioni principali: quella dei sistemi dualistici (dvaita), che ammettono, con sfumature e livelli di distinzione ontologica diversi, che vi sia una differenza radicale tra il mondo della materia e quello della conoscenza o dello spirito (cit); e quella dei sistemi non-dualistici (advaita), per cui questa differenza non c’è: mondo e coscienza fanno parte della stessa realtà. In questo caso però esistono due possibilità: per alcune tradizioni, come per esempio il kevalādvaita di Śankara, l’universo è il frutto di una manifestazione illusoria (vivarta), effetto del misterioso e indescrivibile potere della māyā; per alcune tradizioni, pensiamo all’insieme dei sistemi comunemente noti come Śivaismo kāśmīro, l’universo è, al contrario, frutto di una trasformazione reale (pariṇāma) del Signore, sebbene questi non si esaurisca in esso.» Sul carattere semplicistico e sulla non assolutezza della distinzione e contrapposizione tra mondo vedico e mondo tantrico si veda A. Padoux, Tantra, cit., pp. 16-23.

[24] Cfr. R. Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, cit., pp. 107-108.

[25] Id. Oriente e Occidente (1924), tr. it. Adelphi, Milano 2016, p. 88

[26] Cfr. Id. Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, cit., p. 79.

[27] Cfr. Id. Sanātana Dharma (1949), in Id. Studi sull’induismo, cit., p. 107.

[28] F. Sferra (a cura di), Hinduismo antico, cit., p. XVI.

[29] Cfr. R. Guénon. Alcune considerazioni sulla dottrina dei cicli cosmici (1937/1938), cit., p. 14.

[30] Cfr. La recensione di Guénon a Le Mythe de l’éternel retour (1949) di M. Eliade, in Id., Forme tradizionali e cicli cosmici (1970), tr. it. Edizioni Mediterranee, Roma 2012, p. 21.

[31] Id., Osservazioni sulla produzione dei numeri (1910), in Id., Il Demiurgo e altri saggi, cit. p. 84.

[32] «Immutabile nella propria natura, esso [il Sé] sviluppa soltanto le possibilità indefinite che racchiude in Sé, con il passaggio relativo dalla potenza all’atto attraverso un’indefinità di gradi, senza che la sua permanenza essenziale ne sia compromessa, proprio perché questo passaggio non è che relativo, e perché questo sviluppo è tale, a dire il vero, solo nella misura in cui lo si considera dal lato della manifestazione, fuori della quale non può esistere alcuna successione, ma soltanto una perfetta simultaneità, per cui anche ciò che sotto un certo aspetto è virtuale si trova nondimeno realizzato nell’“eterno presente”». Id., L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta, cit., p. 28.

[33] Cfr. Id., Māyā (1947), in Id. Studi sull’induismo, cit. pp. 96-98.

[34] Ibid., pp. 97-98.

[35] Cfr. Id., Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, cit., p. 163.

[36] A. Avalon, Il potere del serpente, cit., p. 11; cfr. anche Id., Shakti e Shakta (1918), tr. it. Edizioni Mediterranee, Roma 1978.

[37] Cfr. H. B. Hurban, Tantra. Sex, Secrecy, Politics and Power in the Study of Religion, cit., p. 138.

[38] Cfr. A. Avalon, Il potere del serpente, cit., pp. 86-202.

[39] R. Guénon, Kundalinī-Yoga, cit., p. 30.

[40] A. Padoux (a cura di), L’image divine. Culte et méditation dans l’hindouisme, Paris, Centre National de la Recherche Scientifique 1990, p. 1.

[41] Inesauribile nel suo autoapparire, il Principio è perciò pensato come occupante tutti i gradi possibili della manifestazione, mostrandosi quindi tanto come divinità (deva) che come demone o spirito famelico (preta). Può essere interessante notare come anche in uno dei suoi scritti metafisico-transculturali dedicati all’opera di Dante, René Guénon sottolineava come il percorso iniziatico, di cui il poema dantesco sarebbe la rappresentazione simbolica, comporti il passaggio attraverso le possibilità inferiori rappresentate dall’inferno, che vanno esaurite prima della risalita del purgatorio, che rappresenta la ricostituzione dello «stato primordiale», per poi procedere, verso il paradiso. Nella stessa occasione, Guénon sottolinea anche l’analogia tra le fasi della teoria dei cicli e quelle della respirazione; cfr. R. Guénon, L’Esoterismo di Dante (1925), tr. it. Gruppo Editoriale Bonanno, Acireale-Roma 2018, pp. 78-81.

[42] Id., Kundalinī-Yoga, cit., pp. 30-31.

[43] Cfr. G. Tucci, Storia della filosofia indiana, cit., pp. 353-354: «Era così scoperta nel tempo una bivalenza: trapasso e morte, ma insieme rinnovo e durata. Ed è l’immagine che ritorna e si esprime simbolicamente nella figura di Śiva o della Gran Madre che alternamente creano e uccidono, suscitano i mondi e in sé li riassorbono con la vicenda eterna che l’iconografia rappresenterà nel moto della danza; Śiva agita in una mano un tamburo e il tamburo evoca l’immagine del suono e il suono quella dell’etere, che di quello è il sostrato, il primo degli elementi, quindi la creazione. Ma nell’altra mano egli porta la fiamma, il fuoco che distrugge l’universo al termine di ogni evo, la Gran Madre è bianca e nera, Durgā e Kali, vita e morte, ma nell’alterno seguirsi di queste due fasi è assicurata la continuità. Il tempo dunque non ha fine, è illimitato: come tale si identifica con l’immortalità».

[44] Cfr. A. Giugliano, Note sulla temporalità in René Guénon, cit., p. 113.

[45] Cfr. Id., Universalità vs. relatività nel pensiero metafisico-transculturale di René Guénon, in «Archivio di Storia della Cultura», XXVI, 2013, pp. 166-167: «occorre anche rilevare come Guénon privilegi tradizioni univocamente aletheiologiche, veritativistiche, e tralasci invece quelle contrassegnate dalla sottolineatura dell’impermanenza, dell’apparenza, della proteiforme multiversità e disunità relativistica, come il buddhismo, anche quello chan e zen, lo zurvanismo iranico, lo shintoismo nipponico, che non a caso vengono del tutto ignorati, a parte minimi riferimenti».

[46] Cfr. A. Préau, René Guénon et l’idée métaphysique, in «Études Traditionnelles», n. 293-294-295, 1951, Numéro spécial consacré à René Guénon, p. 278.

[47] «Ed essendo l’Infinito al tempo stesso Essere e Non-Essere, luce e tenebre, affermazione e negazione, può essere la fonte di tutte le posizioni come di tutte le esclusioni, esso avvicina e allontana, identifica e distingue, fa brillare e spegne. Perciò esso è il principio di unione e di separazione e, per i molteplici rapporti e a volte stranamente opposti che implica tra tutte le forme e tutte le idee, esso è la fonte al tempo stesso di discordia e di armonia, di lotta e di conciliazione, cioè di vita intellettuale nel senso più elevato della parola». Ibid., pp. 275-276 (trad. mia).

[48] Cfr. R. Guénon, La metafisica orientale, cit. pp. 25 sgg.

[49] Id., Tantrismo e magia (1937), in Studi sull’induismo, cit., p. 78.

[50] Cfr. Id., Forme tradizionali e cicli cosmici, cit., pp. 31-32. L’intento «soteriologico», che fa da sfondo ai lavori di Guénon, doveva renderli irricevibili per gli ambienti accademici, nella misura in cui egli, ad esempio, con un approccio evidentemente inaccettabile per la ricerca storica documentabile, si proponeva esplicitamente, non tanto di «esporre le dottrine stesse, ma solo di indicare con quale spirito si debba studiarle se si vuole giungere a comprenderle», R. Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, cit. p. 164.

[51] Cfr. Id., La metafisica orientale, cit. p. 27.

[52] Cfr. Id., Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, cit., p. 162: «In India, in particolare, un’immagine simbolica che rappresenti l’uno o l’altro degli attributi divini, e che si chiama pratīka, non è un «idolo», perché non è mai stata intesa se non per quello che realmente è, un supporto di meditazione e un mezzo ausiliario di meditazione; tanto più che ognuno può dedicarsi di preferenza ai simboli che sono più conformi alle sue disposizioni personali.»

[53] In un’opera del buddhismo mahāyāna composta probabilmente nell’VIII secolo, il Bhāvanākrama di Kamalaśīla, un’idea analoga sembra essere sviluppata al punto di prospettare, all’interno del processo meditativo, il bisogno di superare a un certo punto anche la «costruzione concettuale» relativa alla non-dualità: «[Lo yogin] dovrà permanere nella conoscenza non-duale (advayajñāna), che è senza apparenza della dualità. / E così, “passato oltre il solo-pensiero”, “passi oltre” anche questa conoscenza, quella “senza-apparenza” di dualità […] e così, quando “lo yogin” è “stabilito” nella conoscenza “senza-apparenza” della conoscenza non-duale, allora, per il fatto che è stabilito nella verità suprema, “‘vede’ il Grande veicolo”. / Questo e non altro si chiama Grande veicolo: la visione della verità suprema; e tale visione altro non è che una non-visione (adarśana) che si manifesta a chi sta esaminando tutti i dharma con l’occhio della saggezza quando appare la luce della perfetta conoscenza (samyagjñāna).» Kamalaśīla, Bhāvanākrama (La progressione della meditazione). Primo trattato (tr. F. Sferra), in R. Gnoli (a cura di), Buddhismo. Testi sanscriti del Grande Veicolo, Mondadori, Milano 2007, p. 284.

[54] Cfr. R. Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, cit., pp. 94-95. Si tratta di un’ambivalenza del discorsivo e del concettuale che emerge soprattutto dalla critica di Guénon al pensiero filosofico sistematico; cfr. Id., L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta, cit., p. 11.

[55] Cfr. ibid., pp. 88-89; ibid. p. 103.

[56] Cfr. Id., Oriente e Occidente, cit., p. 185.

[57] Cfr. Id., Il quindo Vēda, cit. p. 85; G. Orofino, Sentieri di liberazione nel buddhismo indo-tibetano, in G. Boccali, R. Torella (a cura di), Passioni d’Oriente, Einaudi, Torino 2007, pp. 196-225; D. G. White, The alchemical body. Siddha Traditions in Medieval India, The University of Chicago Press, Chicago and London 1996.

[58] Cfr. R. Guénon, L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta, cit., p. 25: «Metafisicamente, la manifestazione non può essere considerata che nella sua dipendenza rispetto al Principio Supremo, e a titolo di semplice «supporto» per elevarsi alla Conoscenza trascendente, o anche, vedendo le cose da una prospettiva opposta, come applicazione della Verità principiale; in ogni caso, in ciò che vi si riferisce non bisogna scorgere niente di più che una sorta di «illustrazione», destinata a rendere più facile la comprensione del «non-manifestato», oggetto essenziale della metafisica, e a permettere così […] di accostarsi alla conoscenza per eccellenza».

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