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Vilayanur S. Ramachandran, Sandra Blakeslee – La donna che morì dal ridere e altre storie incredibili sui misteri della mente umana – Prefazione di Oliver Sacks, tr. it. a cura di L. Serra [Mondadori, Milano 2003, pp. 362, € 10.50]


Se cercate la prova che la realtà si burla di cinema e poesia, scavalcandola di gran lunga, questo libro è quanto di più adatto a dimostrare la vostra tesi. Qui si parla infatti di una bibliotecaria che letteralmente morì a forza di ridere a crepapelle – come suggerisce lo stesso titolo del libro –, di una infermiera che vedeva sulle proprie ginocchia personaggi dei cartoni animati e di molti altri casi che potrebbero uscir fuori dalla penna di un assai dotato romanziere. Si narra finanche di una donna, alla quale era stato reciso il corpo calloso – quella parte del nostro cervello che mette in connessione l’emisfero destro e quello sinistro; la signora in questione di tanto in tanto inscenava, suo malgrado, una lotta impietosa tra la mano destra e la mano sinistra: la prima provava a strangolare la povera signora, agguantandone violentemente il collo, mentre la secondo si sforzava di bloccare disperatamente questo tentato omicidio/suicidio. Così vien quasi da pensare che il geniale Peter Sellers si fosse ispirato a qualche tizio affetto dalla medesima patologia per interpretare il suo Dottor Stranamore.

Vilayanur S. Ramachandran – professore di neuroscienza e psicologia all’Università della California di San Diego, nonché direttore del Center for Brain and Cognition e professore aggiunto di biologia al Salk Institute –, con l’aiuto della sua collaboratrice Sandra Blakeslee, ci inizia in questo libro impreziosito dalla prefazione di Oliver Sacks agli strani casi indagati dalle neuroscienze contemporanee, costruendo percorsi talvolta indiziari, mosaici avvincenti che richiamano alla mente le indagini del buon Sherlock Holmes ­– di cui peraltro il neurologo indiano si dichiara appassionato lettore.

Tra le tante storie, non poco curiosa è quella di un paziente che, a seguito di un incidente automobilistico, iniziò a credere che i genitori fossero degli impostori, e più precisamente, dei mutanti: egli, in definitiva, riconosceva forme, ma svuotate del contenuto affettivo. È un tipico caso di “prosopagnosia”– nota anche come “sindrome di Capgras” e in Italia come “sindrome di Fregoli” in onore di quel Leopoldo che incantò tanti animi per le sue doti di trasformista –, il cui sintomo più evidente è l’incapacità di riconoscere i volti. Si ipotizza che, essendo l’amigdala a permettere di valutare il significato emotivo di ciò che percepiamo, il filo che va dai centri visivi all’amigdala, in casi di questo genere, è stato spezzato.

Ma di certo le narrazioni più bislacche riguardano quei pazienti che devono fare i conti col problema dell’“arto fantasma”; gente che ha subito amputazioni si ritrova a provare gli stessi dolori, gli stessi pruriti, le stesse sensazioni che avvertiva in presenza dell’arto ora mancante.

Ramachandran obietta a certa medicina l’idea che alcune connessioni neurali siano strutturate una volta per tutte e dunque immodificabili, dimostrando che la plasticità cerebrale permane in età adulta. In via sperimentale, il neurologo ha infatti introdotto un innovativo metodo finalizzato allo sprouting, ossia alla rimappatura o riconversione corticale, dell’arto fantasma: pare che il semplice utilizzo di un mirror box, e cioè di una scatola al cui interno sia inserito uno specchio che fornisca al paziente l’impressione di vedere l’arto fantasma nell’immagine riflessa dell’arto sano, produca determinanti effetti positivi.

Egli sostiene che la mossa obbligata per comprendere la visione sia quella di abbandonare l’idea delle “immagini nel cervello” e pensare diversamente in termini di “trasformati”, o rappresentazioni simboliche di oggetti ed eventi del mondo esterno. È dunque necessario dismettere la concezione del cervello come archivio di immagini parcellizzate e giustapposte che verrebbero stimolate da eccitazioni esterne. Così come i caratteri a inchiostro chiamati scrittura simboleggiano o rappresentano un oggetto a cui non somigliano, allo stesso modo l’attività dei neuroni cerebrali, i moduli di attività neurale, rappresentano oggetti ed eventi della realtà intorno a noi, operandone una traduzione e dunque una ricreazione mimetica. In un simile orizzonte l’azione cerebrale diventa analoga a quella cinematografica e artistica in generale; il nostro sistema visivo osserva la realtà – operando un’incessante ricerca delle proprietà costanti della stessa, setacciando attraverso l’attività della corteccia cerebrale gli elementi essenziali al di là della continua mutevolezza del reale – nella stessa maniera in cui l’artista evidenzia nella sua opera solo quelle caratteristiche della realtà necessarie alla rappresentazione, potenziando così l’attività del sistema visivo nella sua analisi del mondo: non è un caso infatti che da non molto si inizi a parlare con Samir Zeki di “neuroestetica”.

Pare sia arrivato il turno di una nuova rivoluzione che investe i saperi neurologici: questi giovani saperi partono dall’assunto che indagando sindromi neurologiche poco conosciute o relegate allo statuto di semplici anomalie, si possa apprendere qualcosa di nuovo sul funzionamento cervello “normale”. Per quanto una simile impostazione sia difficile da assumere e per molti versi contestabile, l’idea che a partire dall’anomalia sia possibile desumere la norma appare affascinante. Ramachandran ci aiuta a comprenderla a forza di esempi, senza mai dare nulla per scontato.

Con una dose infinta di ironia, con una abilità aneddotica rara, Ramachandran ci restituisce una ricca panoramica dei progressi, delle teorie e dei panorami epistemologici che il sapere neuroscientifico attuale ha da proporci. Lo fa seguendo quello stesso tracciato divulgativo già battuto da nomi che vanno da Charles Darwin a T. H. Huxley, da Stephen Jay Gould a Oliver Sacks, convinto com’è del fatto che i racconti della scienza, come ogni racconto che si rispetti, debbano essere avvincenti.

Sara De Carlo

S&F_n. 5_2011

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