“Quid est homo”. Questa la domanda fondamentale che costituisce il cuore profondo della trattazione di Paolo Sommaggio nel libro La consulenza (Gen)etica. Nuovi miti. Nuovi oracoli. Libertà della persona. Un interrogativo che rimanda a problemi eterni, dalle soluzioni sfuggenti, che da sempre spingono l’umanità alla ricerca di se stessa e che oggi ritornano in una nuova veste, sollecitati dalle scoperte conseguite dalla genetica e dai nuovi scenari che queste dischiudono. E infatti, se è vero che nel corso dei secoli abbiamo assistito a un incremento esponenziale delle nostre conoscenze, specie in ambito scientifico e tecnologico, è pur vero che questo non implica ipso facto che disponiamo degli strumenti concettuali ed emotivi necessari per gestire tali acquisizioni. Questa situazione emerge con maggiore chiarezza, se ci soffermiamo a riflettere sulla condizione dell’individuo concreto messo di fronte alla necessità di dover scegliere se affrontare o meno un test genetico.
Pertanto lo scopo manifestato dall’autore in questa opera non è tanto la disamina delle varie prospettive che animano il dibattito bioetico odierno, quanto la ricerca degli strumenti più utili a guidare l’individuo in un processo di scelta consapevole, autonomo e libero.
Non le questioni generali, dunque, ma quelle particolari. Tuttavia, prima di poter affrontare questo tema e proporre una possibile soluzione, Sommaggio tratteggia il quadro della situazione attuale, evidenziando il percorso che ci ha portati fin qui, i rischi e le “tentazioni” che in esso si annidano e il modo in cui, a livello nazionale e internazionale, si è deciso di affrontarli.
Il punto nodale è che dietro la “genetica” si celano le trappole della seduzione “eugenetica”, un “peccato originale”, questo, reso ancor più insidioso dal fatto che, dopo gli orrori verificatisi durante il secolo scorso, le coscienze hanno rimosso il problema liquidandolo come una delle perversioni del regime nazista. Un modo di vedere le cose, questo, semplicistico e fuorviante. «Semplicistico in quanto porta a credere che le ricerche dirette al miglioramento genetico siano un “cattivo patrimonio di cattivi soggetti” […] fuorviante in quanto non mette a fuoco che (al di là dell’equiparazione concettuale tra miglioramento e affermazione di una razza sulle altre) l’eugenica non ha mai smesso di proporre il proprio ideale di trasformazione della specie umana» (p. 28).
Del resto, il fatto che le nuove tecnologie genetiche ci espongano a tentazioni di vario genere è testimoniato dai diversi interventi per tutelare l’integrità del patrimonio genetico che la comunità internazionale, da un canto, come i singoli stati, dall’altro, hanno promosso, sia con dichiarazioni di principio che con interventi legislativi. Un circostanziato excursus, quello condotto attraverso le varie normative, che attraversa l’intero libro ed è rivelatore della formazione giuridica dell’autore, secondo il quale il correlato dei progressi fatti dalla scienza, per quanto attiene alla struttura più intima dell’identità biologica dell’uomo, sembra consistere in un duplice rischio di natura ideologica. Il primo di questi consiste nella “ideologia determinista” che appiattisce riduzionisticamente l’uomo al suo patrimonio genetico fino a istituire «una relazione causale diretta tra geni e comportamento» (p. 54). Del resto, come viene appropriatamente sottolineato, lo stesso legislatore sembra accogliere, più o meno consapevolmente, l’ipotesi determinista assumendo «una sorta di atteggiamento bioconservatore rispetto alla tuteladel genoma umano, quasi a sottintendere che ciò che caratterizza l’umano possa essere contenuto in quel particolare oggetto che si chiama DNA» (p. 54). In questa direzione sembrano andare anche i provvedimenti volti a tutelare la riservatezza del dato genetico, in quanto appare evidente che anche il semplice fatto di entrare in possesso di alcune informazioni inerenti al patrimonio genetico di un certo individuo espone quest’ultimo a rischi eminentemente di natura discriminatoria: si pensi all’uso che potrebbero fare di queste informazioni compagnie assicurative o datori di lavoro.
Se pertanto anche la semplice conoscenza delle informazioni contenute nel proprio codice genetico espone a conseguenze non indifferenti sia sul piano sociale sia su quello personale, si immagini quali possano essere le gravi implicazioni di cui è portatrice la seconda tentazione che consiste «nell’approfittare dell’intervento sul genoma umano per introdurre finalità modificative, non necessariamente terapeutiche» (p. 24).
Qui si apre uno scenario che apparentemente può sembrare improbabile o, quantomeno, lontano. E, tuttavia, già da tempo si è sviluppata una corrente di pensiero che è possibile indicare, con un termine abbastanza ampio e che accorpa anche posizioni piuttosto diverse, la filosofia del post-umano (anche se è bene specificare che nella sua versione colta il post-umano è una teoria dell’umano, là dove i transumanisti sembrano percorrere vie futuristico-ideologiche dal sapore mitico-religioso): «La base comune dei transumanisti […] è costituita dall’idea che la natura umana (e dunque anche il genoma umano) non è un elemento stabile ed immutabile poiché non è possibile, in questo stadio evolutivo, reperire un criterio discretivo tra natura e artificio» (p. 71). Inoltre, questo tipo di visione vorrebbe differenziarsi dall’eugenetica come fu intesa tra XIX e XX secolo in quanto, a differenza di quella, sarebbe animata dal nobile scopo di migliorare le potenzialità dell’uomo e le sue condizioni di vita.
Si giunge così a quella che per l’autore è la questione più importante: la salvaguardia della libertà dell’individuo. L’eventuale mutazione della natura del genere umano infatti sembra passare attraverso una serie di processi latenti che pongono in essere certe condizioni che finiscono per dirigere le azioni del singolo, lasciandogli però, insidiosamente, la sensazione di avere effettuato le sue scelte in piena libertà.
Insomma, ancor prima di prendere parte al dibattito etico circa l’opportunità o meno d’intraprendere interventi volti a modificare il patrimonio genetico dell’umanità, sarebbe opportuno chiedersi se, e fino a che punto, siamo liberi di scegliere e se, dunque, una decisione in senso modificativo sia o meno indotta dall’esterno.
Effettivamente questo rischio appare concreto. Come nota l’autore, sono state effettuate già da tempo delle scelte a un livello che esula dalla competenza decisionale dei singoli individui; scelte che, unitamente a una serie di fattori sociali, imprimono una spinta nel senso della modifica. In particolare si fa riferimento alla determinazione, presa a monte, d’investire ingenti capitali nella ricerca in campo genetico piuttosto che in campo medico. Lo sforzo economico sostenuto per la decodifica del genoma (mappatura e sequenziamento) potrebbe avere distratto fondi per la ricerca di cure efficaci per le malattie: con il risultato finale che oggi disponiamo di una certa quantità di test in grado di fornirci una serie di importanti informazioni sul nostro profilo genetico, sulla nostra predisposizione a essere vulnerabili a certe malattie e sulla probabilità di trasmetterne altre alla nostra progenie, ma non disponiamo ancora di cure.
È così che questi processi possono condurre verso quella che si prospetta come la nuova frontiera delle pratiche eugenetiche: l’aborto terapeutico. Si tratterebbe quindi di «forme di miglioramento della specie umana già all’opera a nostra insaputa, dato il loro carattere soft. A ben considerare, infatti, appare molto strano che le possibilità di terapie genetiche promesse dal Progetto Genoma, il quale proprio per questo ha ottenuto sostanziosi finanziamenti da parte degli investitori istituzionali, stentino così tanto a decollare. Infatti a fronte di una quantità e varietà di sempre nuovi test genetici, sono ancora molto scarse le possibilità terapeutiche» (p. 64). Vien da pensare che se, come ricorda Paolo Sommaggio, il termine “transumano” fu coniato da Julian Huxley nel 1957, il di lui fratello Aldous nel 1932, con il suo inquietante e profetico romanzo Brave New World, ci dà ancor oggi, in chiave letteraria, molte suggestioni su cui riflettere, come quando, ad esempio, fa dire al suo Selvaggio: «Ve ne siete sbarazzati, già è il vostro sistema. Sbarazzarsi di tutto ciò che non è gradito, invece di imparare a sopportarlo. Resta a sapere se è spiritualmente più nobile subire i colpi e le frecce dell’avversa fortuna, o prendere le armi contro un oceano di mali ed opporsi ad essi fino alla fine… Ma voi non fate né l’una né l’altra cosa. Voi né sopportate né affrontate. Abolite semplicemente i colpi e le frecce. È troppo facile».
Certo, per il singolo, l’aborto non è mai una scelta propriamente “facile”, come facile non è apprendere informazioni sul proprio profilo genetico, in quanto queste finiscono per coinvolgere oltre al soggetto interessato anche i suoi familiari che condividono con lui parte di quel patrimonio; per non parlare poi del fatto che si tratta spesso di una mole di dati difficile da considerare in tutti i suoi aspetti e che, per giunta, fornisce indicazioni vaghe, come ad esempio quelle relative alla “suscettibilità genetica” di un individuo rispetto all’insorgenza di una determinata patologia.
Vi è dunque il rischio che colui che si trovi a confrontarsi con questa situazione, specialmente se non in possesso degli strumenti necessari a gestire tali elementi consapevolmente, finisca per restare schiacciato da un meccanismo che non può dominare e quindi si lasci guidare nelle proprie scelte da fattori esterni, abdicando in ultima istanza alla propria libertà.
Paolo Sommaggio, per meglio illustrare questa situazione d’incertezza in cui si trova l’individuo di fronte alla “verità” offerta dalla genetica, propone una suggestiva metafora che fa da fil rouge all’intera trattazione e che ci ricorda come, ancor oggi, perfino quando ci confrontiamo con le ultime frontiere della scienza, possiamo trovare preziose indicazioni nel nostro passato e nella sapienza degli antichi.
Il dato che ci viene fornito attraverso i test genetici presenta delle analogie con gli oracoli delfici: la Pizia può anche dirci la verità, ma sta a noi interpretarla; e per farlo dobbiamo prima prepararci adeguatamente, tenendo bene a mente l’ammonizione incisa a chiare lettere sul frontone del tempio di Apollo a conoscere, prima di tutto, noi stessi: «l’oracolo genetico senza gli adeguati strumenti concettuali comporta come conseguenza l’effettuazione di scelte non sufficientemente consapevoli e, dunque, non libere, ma che partecipano di una operazione di trasformazione della natura umana di grande rilevanza che il singolo, se debitamente informato ed assistito sul punto, potrebbe non accettare» (p. 80).
Uno spirito, questo, che ci riporta alle nostre radici culturali e che, del resto, riflette la filosofia del piano editoriale in cui si inserisce La Consulenza (Gen)etica: una collanadiretta da Francesco Cavalla e denominata, non a caso, Diritto moderno ed interpretazione classica, in quanto le opere inserite in questo progetto si pongono come in una linea di ideale continuità con la sapienza classica, ritenendo che, specie in campo giuridico, dal mondo antico possano giungere suggerimenti ancora attuali e in grado anzi di illuminare con una nuova luce le sfide che l’oggi ci propone.
Ed è proprio dal mondo antico che in qualche modo ci viene suggerita anche una possibile soluzione per “sciogliere l’enigma”.Se è vero che atti legislativi nazionali e internazionali riconoscono la necessità di fornire adeguate informazioni a chi si appresta a sottoporsi a un test genetico, è anche vero che non è sempre ben chiaro in cosa consista questa consulenza e quale sia la figura professionale più indicata per assolvere a tale compito. Sembra infatti che l’approccio medico tradizionale si riveli insufficiente per due motivi. Innanzi tutto perché una consulenza efficace non può esaurirsi nel fornire informazioni, per quanto accurate, di tipo tecnico-scientifico, ma deve occuparsi anche degli aspetti importanti relativi alle ricadute in campo psicologico ed etico che investono colui che accetta la somministrazione di un test (o anche chi decide alla fine di non sottoporsi a esso). In secondo luogo, i medici sono indotti per la loro stessa formazione ad assumere rapporti asimmetrici con quelli che considerano i loro pazienti; e quindi c’è da chiedersi se siano in grado di «superare la propria impostazione scientifica, basata, come è noto, sulla necessaria mancanza di neutralità circa la decisione di somministrare cure […] ed intrattenere con il soggetto un tipo di rapporto differente, strutturalmente paritario» (p. 98), tale da fugare il rischio di una scelta eterodiretta in una materia così delicata.
La possibile soluzione potrebbe essere quella di affidare la consulenza genetica ad altri profili professionali, primi fra tutti quelli dello psicologo e del filosofo. La scelta dell’autore tuttavia propende per quest’ultima figura, in quanto, per la stessa tradizione della disciplina che la ispira, «la consulenza di tipo filosofico» più di ogni altra «è immune dalla tentazione di somministrare soluzioni già preconfezionate ed appare maggiormente idonea ad aiutare il consultante ad orientarsi tra i dilemmi di natura etica che tutte le questioni bioetiche inevitabilmente sollevano» (p. 118).
In particolare, il modello a cui l’autore si ispira per trarre la sua personale soluzione è quello del dialogo di matrice socratica. Il “consulente”, infatti, non deve imporre al “consultante” la sua visione del mondo, ma deve aiutare quest’ultimo a fare emergere la sua. Questo obiettivo maieutico può essere ottenuto se il consulente assume nell’interazione dialogica il ruolo dell’oppositore: in questo modo egli manterrà una sufficiente neutralità e contemporaneamente costringerà il consultante ad argomentare le sue tesi, le metterà alla prova fino a far emergere le ragioni profonde che muovono il soggetto. Questi potrà così riappropriarsi del suo discorso, dei suoi principi, del suo logos e stabilire una connessione non banale con il suo bios,ovvero, con la sua esperienza di vita. L’individuo, inoltre, percepisce l’inesauribilità del proprio sé anche rispetto ai propri ragionamenti; e la scoperta di questa inafferrabilità dell’io lo mette al sicuro dal rischio di reificare il suo stesso sé, per cui l’autore parla di questo processo come di un percorso di “auto poiesi”, ma anche di “auto trascendenza”.
Interessanti sono anche le notazioni conclusive relative al concetto di “persona” per come è giunto fino a noi e per la sua interpretazione in rapporto alla consulenza: una riflessione che si svolge passando attraverso le suggestioni offerte da tre percorsi etimologici che procedono dal greco pròsopon al latino personare, fino all’etrusco Phersu.
In conclusione, si può dire che l’autore rimane fedele allo scopo che si era prefissato sin dall’inizio: ovvero quello di fornire attraverso la sua proposta degli strumenti utili a tutelare la persona e la sua libertà di scelta di fronte alle possibilità dischiusesi per l’umanità con i progressi scientifici in campo genetico. Questo non è un libro che vuole schierarsi a favore o contro l’ipotesi di modifica del genoma umano; si tratta invece di un testo che ci ricorda di non dimenticare noi stessi, quale che sia la strada che decideremo d’intraprendere.
Danila D’Antiochia
09_2011