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Renaud Barbaras – Introduzione a una fenomenologia della vita – tr. it. Camilla Rocca [Mimesis, Milano-Udine 2014, pp. 392, € 28]


Non vi è fenomenologia se non come fenomenologia della vita. Detto altrimenti: non vi è fenomenologia se non come interrogazione sul senso d’essere di un soggetto che è, à la fois, parte del mondo e intenzionalità, vita empirica e trascendentalità. È questo il punto di avvio problematico della riflessione di Renaud Barbaras, esposta nella sua Introduzione a una fenomenologia della vita. Punto di avvio problematico condiviso dal fondatore stesso del metodo fenomenologico, Edmund Husserl, la cui intera filosofia può essere compresa come il tentativo di pensare e conciliare realtà e coscienza, versante oggettivo e soggettivo della fenomenalità, vita empirica e soggetto trascendentale.In che modo, dunque, la coscienza può far parte di quel mondo che fa apparire? In che modo accordare la dualità e l’unità della vita empirica e della coscienza trascendentale? In altri termini, come parlare di una vita trascendentale?L’Introduzione rappresenta una svolta decisiva nel percorso filosofico di Renaud Barbaras, rappresentando la prima tappa della sua personale interpretazione della fenomenologia, ossia di una fenomenologia dinamica incentrata sul desiderio. Nonostante tale percorso fosse presente in nuce nei primi lavori – ormai punti di riferimento nella critica allo studio della filosofia di Husserl, Merleau-Ponty, Patočka – è con l’Introduzione che Barbaras si pone in confronto diretto con la storia del pensiero fenomenologico, affrontandolo nelle sue specificità così come nei suoi limiti, mettendolo in dialogo con autori di altre tradizioni e, infine, facendosi spazio lui stesso con una proposta che sarà ampliamente approfondita anche nei lavori successivi (citiamo, pubblicati a oggi, La vie lacunaire, Dynamique de la manifestation, Métaphysique du sentiment e Le désir et le monde).L’intento dell’Introduzione è chiaro ed esposto già nelle primissime pagine: occorre pensare la vita, proprio laddove la fenomenologia non è riuscita a farlo. Se la vita è stata, infatti, uno sfondo ineludibile del pensiero fenomenologico e ha assunto in esso un ruolo centrale, più volte ribadito da tutti i suoi rappresentanti, d’altra parte essa è stata più invocata che tematizzata: «onnipresente e curiosamente assente», la vita non è mai stata, agli occhi dell’autore, oggetto di una vera e propria interrogazione fenomenologica. «Impensata» nel pensiero di Husserl, sostituita dall’esistenza nella filosofia di Heidegger, omessa da Merleau-Ponty e, infine, «svuotata» da Henry, la vita resta esclusa dal raggio di pensiero fenomenologico. «La fenomenologia – scrive Barbaras – non sembra poter distogliere lo sguardo dalla vita, senza nello stesso tempo giungere a guardarla in faccia, ad appropriarsene, come se la vita corrispondesse al suo vero impensato, come se, a tal riguardo, la fenomenologia fosse per così dire in anticipo e in ritardo rispetto a se stessa» (p. 12). È dunque qui, nell’attestazione del fallimento fenomenologico nel pensare la vita, che si situa l’originalità della proposta di Renaud Barbaras: forse l’anticipo e il ritardo del pensiero sulla vita non riguardano un limite del pensiero, ma esprimono l’essenza della vita stessa. In altre parole, forse è la vita stessa che, essendo movimento, azione e (già) conoscenza, si dà sempre diversamente da ciò che è: per questa ragione, essa non può essere compresa attraverso categorie dualiste e distinzioni metafisiche di cui la fenomenologia non riesce a liberarsi. È la vita stessa, allora, a imporre una nuova sfera d’essere, un’originarietà che si esprime con precisione nel verbo vivere: «vivere significa essere in vita (leben), ma anche provare, fare esperienza di qualche cosa (erleben)» (p. 21). È la vita stessa, allora, a comprendere una dimensione della fenomenalizzazione, a essere già conoscenza. Non c’è separazione tra la sfera empirica e quella trascendentale, non c’è dualismo tra passività e attività nel vivere: occorre sospendere le distinzioni e pensare il soggetto come portatore di fenomenalità a partire dal suo essere-in-vita.Introduzione a una fenomenologia della vita si sviluppa in modo chiaro, lucido, convincente e si compone di tre parti: 1. Le divisioni della vita; 2. Vita ed esteriorità; 3. Vita e desiderio. La prima parte è interamente dedicata alla fenomenologia, e in particolare (seguendo l’ordine dato dall’autore) a Henry, Heidegger, Merleau-Ponty, Patočka. La seconda parte della riflessione – che prende il via dall’impasse del pensiero fenomenologico, incapace di cogliere il significato vitale della coscienza – si rivolge dunque “altrove”, trovando in Bergson, Ruyer, Jonas e Rilke gli interlocutori adeguati per installarsi nel cuore stesso del movimento del vivere: esso è caratterizzato da un’unità essenziale, da una realtà originaria, da una continuità che contiene, già e sempre, la possibilità della coscienza. Sono dunque il vivere transitivo di Bergson, l’auto-sorvolo di Ruyer, o il metabolismo di Jonas a tracciare il percorso da seguire: facendo propriamente epochè della morte (a partire dalla quale si è invece pensata tradizionalmente la vita), tali approcci si avvicinano a cogliere, nella sua pienezza, il senso d’essere del vivere. Tra le pagine più intense e stimolanti del libro, segnaliamo poi il confronto che Barbaras propone con l’Ottava Elegia Duinese di Rilke e, a partire da essa, il progetto di un’antropologia privativa (che sarà ampliamente ripresa e approfondita nelle opere successive, nei termini di una biologia privativa). Se, come abbiamo detto, una fenomenologia della vita si deve confrontare con l’unità originaria del vivere, al di qua della polarità del leben e dell’erleben, è chiaro che in una tale cornice anche il proprio dell’umano, la differenza antropologica (per usare una categoria da cui in realtà Barbaras prende esplicitamente le distanze) trova un inedito riposizionamento. Si tratta dunque, scrive il nostro autore, di «fondare la coscienza sulla vita pur preservando la differenza della coscienza e dunque la specificità della vita» (p. 243). In altri termini, si tratta di rendere conto dell’uomo nella sua differenza, ossia di installare la sua propria specificità nella vita stessa. Per questa ragione, occorre che la vita sia già munita di un’essenziale transitività, che contiene e anticipa – ma non in un senso finalistico, come vedremo – il proprio di una coscienza percettiva, disinteressata e trascendentale. Ne emerge una tesi di profondo interesse per quanto riguarda le analisi sull’animalità, sull’umanità, così come sulla loro relazione: l’uomo differisce dall’animale né per natura (poiché è attestata una continuità e una prossimità ontologica insuperabile), né per grado (poiché è rifiutata esplicitamente ogni sorta di continuismo biologico, che negherebbe la specificità della coscienza). La soluzione s’impone, agli occhi di Barbaras: «la portata della vita deve eccedere quella della coscienza e la differenza umana deve avere lo statuto di una negazione o di una privazione» (p. 245), una diminuzione di ciò che avviene sul piano della vita pura, che è apertura originaria, pura intenzionalità. Ne consegue che la coscienza diviene ora una modalità dell’intenzionalità, di un’intenzionalità che la precede. Come abbiamo anticipato, il nostro autore si confronta in queste pagine con la prospettiva di Rilke, facendo emergere un accostamento inedito e originale, se pensiamo soprattutto ai suoi predecessori (ci riferiamo in particolare a Heidegger – Perché i poeti? in Sentieri interrotti, e ad Agamben – L’Aperto). Se paragonata, ad esempio, a Heidegger, la proposta di Renaud Barbaras si situa agli antipodi, come il suo esatto contrario: nella prospettiva inaugurata dal fenomenologo francese (che fa riferimento al commento a Rilke di Rogier Munier), l’Aperto è una potenza dinamica, un’esposizione, una chiamata che solo «gli occhi totali» dell’animale possono riconoscere. La modalità dell’essere-in-vita dell’animale (che nello sviluppo del suo pensiero Barbaras individuerà come esodo) si installa dunque nella fluidità dell’Aperto, nello scorrere del vivere. La modalità dell’essere-in-vita dell’uomo (successivamente definito come esilio), invece, si presenta come un’interruzione, come una sospensione del flusso del vivere. Un’interruzione, specifica Barbaras, che non possiede alcuna positività: il soggetto trascendentale si fa nell’oggettivazione, poiché la privazione di cui è “vittima” è opera della vita stessa, si presenta cioè nei termini di un’auto-negazione della vita. Occorre ricordare che la prospettiva qui inaugurata è profondamente dinamica: la vita è essenzialmente movimento, sia spaziale che intellettuale. Solo se intendiamo il vivere come uno scorrere fluido – ossia come movimento (qui è chiara l’influenza di Patočka sulla fenomenologia di Barbaras) – possiamo comprendere l’emergere di una separazione neutra. Solo una vita come movimento può comprendere in sé eccesso e mancanza, infinito e finito. È questa, a nostro parere, la grande originalità del pensiero di Renaud Barbaras, ossia il tentativo di pensare la soggettività trascendentale come negatività, ossia in termini privativi, come una mancanza che non impone una frattura nella continuità della dimensione empirica ma che, allo stesso tempo, permette di garantirne una specificità. Si delinea così la conclusione della riflessione del nostro autore, presentata nella terza parte del libro (Vita e desiderio). In realtà, come abbiamo anticipato, non si tratta di una vera e propria conclusione, ma il primo passo di un percorso fenomenologico che Barbaras ha esposto e approfondito nelle sue opere successive (segnaliamo, ad esempio, la recente traduzione in italiano di Dinamica della manifestazione, Lithos 2017). Dalla cornice delineata a partire dai limiti della fenomenologia, emerge un vero e proprio nuovo modo d’essere, un modo d’essere neutrale rispetto alle distinzioni tra empirico e trascendentale, una dimensione in cui si delineano congiuntamente la mancanza dall’eccesso e l’eccesso dalla mancanza. Una tale dimensione, nella prospettiva della fenomenologia dinamica di Renaud Barbaras, prende allora il nome di desiderio: «transitività imbrigliata», «avanzamento che allontana ciò a cui si avvicina», «tensione in cui l’obiettivo si sottrae alla mira» (p. 383). Una definizione, quella di desiderio, che Barbaras adotta e chiarisce con grande precisione e rigore, distinguendolo da altre nozioni ad esso affini (bisogno, affettività, prossimità etc.). In quanto desiderio, la coscienza proviene dalla vita come effetto di un non-compimento essenziale: la negatività della vita, ossia la morte, è dunque costitutiva della vita stessa, le appartiene come sua stessa possibilità. Ai nostri occhi è proprio questo il punto più fruttuoso e originale della prospettiva fenomenologica di Renaud Barbaras. Sulla scia dei suoi predecessori, ma garantendosi un suo proprio spazio originale, il fenomenologo francese assume in tutta la sua profondità la nozione di negatività, radice della soggettività, e la installa proprio nel cuore stesso del vivere: fondativa della vita stessa, tale auto-limitazione non è altro che Desiderio.

Lucia Zaietta

S&F_n. 17_2017

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