Una guerra dei cent’anni: è così che potremmo definire la storia dell’ateismo moderno. Un secolo esatto, infatti, separa le due opere che, già nella premessa, Gianluca Mori indica come alba e tramonto della negazione di Dio tra ‘600 e ‘700, ossia il Tractatus theologico-politicus di Spinoza (1670) e il Système de la nature di d’Holbach (1770).«Ogni ricerca sull’ateismo filosofico, e forse in generale ogni ricerca sull’ateismo, è in primo luogo, e necessariamente, una ricerca dell’ateismo» (p. 11). Una storia atea è, infatti, una storia di paradossi, di maschere, di reticenze, di figure nell’ombra – tutti aspetti comprensibili in chi fuggiva gli auto da fé, o i bastioni di qualche sperduta galera. E, allora, un primo nodo interpretativo non può non essere quello di capire dove davvero scovare i pensatori atei, come catalogarli, e perché definirli tali: un problema investigativo che tanto aveva appassionato un padre Garasse. E, per rimanere in clima da giallo, bisogna pur ricordare che «non scrivevano libri polizieschi, i philosophes, ma mettevano alla prova teoria e idee, e queste sono indipendenti dalla loro posizione nell’impaginato finale» (p. 204) – questo per rispondere agli interpreti che spesso si sono accontentati di ritenere posizioni “definitive” quelle espresse nelle battute finali di un’opera, come se non fossero esistite censure da aggirare. Magari fosse così semplice. In realtà, stanare gli atei vuol dire saper ben leggere i testi, con un occhio alla lettera e uno ai segnali di fumo “iniziatici” che i filosofi si mandavano tra loro, evidenziando ovvie reticenze e inseguendo quella che Leo Strauss chiamava una visione fuggitiva del frutto proibito, cioè «un’argomentazione, in genere nascosta in qualche piega non immediatamente visibile di un libro (non nella conclusione, non nelle pagine centrali e in bell’evidenza, consacrate ai dogmi dell’ortodossia), dove la posizione contraria a quella dominante viene esposta, per un momento, in tutta la sua forza logica e concettuale, in attesa di essere sommersa dalle parole d’ordine del pensiero unico » (p. 33).La ricerca di Mori ha come affascinanti protagonisti i grandi nomi della filosofia moderna, da Spinoza a Bayle, da Diderot a Voltaire, da Toland a Hume, non dimenticando però personaggi difficilmente catalogabili – e che infatti sono sistematicamente ignorati da alcuni dei manuali filosofici più noti: Cudworth, Du Marsais, Boulainviller, Fréret, oltre al fondamentale Meslier. Impossibile, inoltre, in tale indagine, ignorare la valanga di scritti clandestini – sommersi, apocrifi, miscellanei – che facevano da sfondo concettuale alla cultura di quei tempi.In primis, bisogna però chiarire: chi era ateo? Mori, in maniera metodologicamente assai incisiva e diversamente dai pensatori presi in esame, manipolatori per eccellenza, svela subito le carte. Evitando ogni unilateralità, l’autore evidenzia come l’ateo non fosse il semplice irreligioso – posizione inclusivista, che considera atei, di fatto, quasi chiunque in quei secoli –, né colui che scrive con ardore che Dio non esiste – posizione esclusivista – (pp. 15-18), bensì colui che rifiuta totalmente un ordine progettuale eterno: «l’ateismo, ovvero la dottrina che nega l’esistenza di una causa prima dell’universo dotata di intelligenza, libertà e progettualità» (p. 25). L’ateo moderno non rifiuta l’impianto della teologia, ma anzi ne sfrutta i costrutti, e rende il proprio pensiero la lucida coerenza dell’impronta metafisica. Accetta i punti di partenza della teologia moderna e ne porta i limiti oltre il pensato. A dimostrazione di ciò, vi è che il trionfo dell’ateismo moderno è una straordinaria vittoria di Pirro. «La nemesi storica dell’ateismo vuole che, appena conquistato il diritto di parlare senza infingimenti, e appena presa la parola con piena consapevolezza di sé, esso si trovi a parlare con parole che da subito suonano antiche: la causa universale, l’essere necessario, eterno, immutabile, la causa sui, il “grande tutto”» (p. 241). Alimentandosi dalla stessa fonte, dunque, teologia “divina” e teologia “materialista” esaurirono insieme il loro corso storico, almeno per quanto riguarda concetti che di lì a poco diventeranno desueti, come quelli meccanicisti.Anticipando da subito il finale – d’Holbach come termine ultimo dell’ateismo moderno -, però, Mori certo non rinuncia a una disamina lucida e precisa, che evidenzia con chiarezza le differenze radicali tra le varie tradizioni prese in esame e descrive come i grandiosi sistemi metafisici furono presi d’assalto dal pensiero ateo: Cartesio e Spinoza sono stati, loro malgrado, padri di tradizione materialiste e sovversive che poco condividevano con la lettera delle loro opere – e proprio al filosofo olandese è dedicato un intero capitolo, che ben evidenzia la fondamentale differenza che sussiste tra Spinoza e lo spinozismo settecentesco (si veda per questo anche ciò che Mori scrive su Boulainviller).Va comunque detto che, nonostante l’avvicendarsi di figure e contingenze assolutamente eterogenee, le problematiche dell’ateismo mantennero una certa uniformità, rispondendo a domande sempre piuttosto similari: come conciliare il male e l’esistenza di Dio? La libertà di un ipotetico Creatore può dirsi tale se Egli è soggetto quantomeno alle leggi della logica? La Materia basta come principio esplicativo dell’Essere? E quale sensibilità le si può attribuire? Di fronte a queste questioni, i filosofi, spesso, si limitarono a sviluppare elementi culturalmente già dati, non rifuggendo estremismi e talvolta arretrando nelle retrovie: caso esemplare sono i pensieri dell’ultimo Voltaire, il quale a volte sembra quasi incline a “scommettere” su Dio, proprio come l’odiato Pascal – “odiato” dal Patriarca, ma forse a lui più vicino di quanto egli stesso non pensasse.Costante fu anche il dibattito etico sulla possibilità dell’ateismo. Dalla “società di atei virtuosi” ritenuta plausibile (se non auspicabile, p. 106) da Bayle alle posizioni d’élite dei libertini, fino alle divulgazioni della coterie di d’Holbach, Mori passa in rassegna molte delle possibili facce del rapporto tra ateismo e morale. L’autore mostra come i vari paladini dell’ateismo dovettero sempre rintuzzare gli attacchi di chi, con un’equazione assai spregiudicata, rendeva conseguenti non-credenza in Dio e perversione etica; non è un caso che un personaggio come La Mettrie fosse inviso a Diderot, che sempre gli rimproverò una certa spregiudicatezza, che a suo dire inficiava la battaglia enciclopedista, in quanto il “l’uomo macchina” aveva contribuito all’immagine dell’ateo non “impegnato” culturalmente, bensì “occupato” nella dissolutezza.S’è detto che Mori mostra da subito, come, cronologicamente e concettualmente, l’avventura dell’ateismo moderno si concluda quando d’Holbach porta alle loro logiche ed estreme conseguenze le caratteristiche insiste nella teologia cristiana e di fatto rende inservibile l’ateismo per le epoche successive.D’Holbach svela l’ateismo, lo rende esplicito e lo accompagna verso i suoi ultimi fuochi. Diventano chiari e lucidi i costrutti metafisici di base, i viatici materialistici, i precipitati atei: «la dottrina della causa sui eterna, infinita e necessaria, debitamente convertita in senso materialistico, ma, per il resto, mantenuta in tutto il suo vigore, con l’ormai ovvia esclusione di tutti gli attributi personali e morali, definitivamente bollati come umani e quindi estranei all’essere necessario, increato e infinito in durata e in estensione» (p. 225).La sostanza eterna e la percezione sofferta del dramma dell’uomo si alleano – Spinoza abbraccia Bayle -, e dichiarano che Dio è impossibile: moralmente e logicamente, la partita si chiude. Uno dei pochi a comprendere l’inversione di rotta che di lì a poco si sarebbe palesata nel pensiero ateo fu Diderot, il philosophe più attento agli sviluppi della scienza a lui coeva, tra i primi ad azzardare l’idea di una nuova alleanza tra scienze biologiche e filosofia, e da subito pronto, riferendosi alle ipotesi cosmiche, a parlare di supposizioni e probabilità. Con lui, si approda già a un pensiero «post-teologico» (p. 212): in fondo, col suo stile inconfondibile, il philosophe diceva che «è molto importante non confondere la cicuta con il prezzemolo, ma non lo è per nulla credere o non credere in Dio» (p. 213). Diderot, non è “meno” ateo di d’Holbach, ma comprende che quella del barone «è ormai una battaglia di retroguardia» (p. 214), destinata a esaurirsi di lì a poco, divorata da criticismo, idealismo, e altri vari “ismi”. Chiusa questa stagione – simbolicamente d’Holbach muore nel 1789 -, altri saranno gli sviluppi politici e filosofici. Già la Rivoluzione, almeno nelle mani di Robespierre, archivierà l’impostazione atea, rifacendosi a un ben più moderato Deismo; un certo laicismo è accolto dalla Convenzione, ma le forme più estreme di ateismo avranno ben pochi paladini, tra cui forse Cloots e Naigeon.D’altro canto, anche il pensiero filosofico seguirà altre strade – inevitabilmente – e ben differenti saranno i lineamenti dell’ateismo dei secoli successivi: da Feuerbach a Marx arrivando finanche a Darwin e Nietzsche, l’ateismo diverrà postulato antropologico o evoluzionistico, e non dipenderà dalla Sostanza, né sarà possibile confutarlo con prove a-priori.Allora, insieme a Mori, vien da chiedersi a mo’ di nota a margine: cosa resta dell’ateismo moderno oggi?Di tanto in tanto, qualche discussione sembra emergere, soprattutto in ambiente anglosassone, dove l’argomento del design ancora, talvolta, infiamma gli animi. Alcuni nomi atei dei nostri giorni sono quelli di Richard Dawkins o di Michel Onfray, e non si può non notare come le loro posizioni molto spesso siano un calco proprio del dibattito settecentesco, tra dimostrazioni già note, interrogativi “classici” («Who designed the disegner?») e “gradi di ateismo” (addirittura sette per Dawkins, mentre Bayle, più parco, si accontentava di tre). Ma, in fondo, la scarsa consistenza dell’ateismo contemporaneo è anche un segnale della poca definitezza del suo contraltare teologico, che si configura in maniera così eterea da divenire “non falsificabile”. Nel ‘600 e nel ‘700, s’era reso Dio oggetto di scienza e oggetto di una conoscenza chiara e distinta, e i pensatori atei non si fecero pregare: in maniera chiara e distinta furono certi che Dio non abitava più il cielo metafisico. Invece, oggi, come contrastare «un Dio che, smessi i grandi paramenti della tradizione metafisica, prende il nome di un’umanissima “misericordia”?» (p. 244). Ed ecco che, in un’epoca di rinnovati fondamentalismi, quello che sembra palesarsi è il ritorno in grande stile dell’antropomorfismo più generico: «quale Dio più a misura d’uomo di un Dio inteso come “amore”?» (p. 244).
Mario Cosenza
02_2017