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Georges Canguilhem – La conoscenza della vita – tr. it. a cura di Franco Bassani, Introduzione all’edizione italiana di Antonio Santucci [il Mulino, Bologna 1976, pp. 279]


La prima edizione de La connaissance de la vie viene pubblicata a Parigi nel 1952, nella collana «Science et Pensée» dell’editore Hachette. La maggior parte dei lettori conosce però l’opera nell’edizione della Librairie Philosophique J. Vrin, che ha ripubblicato l’opera nel 1965, con l’aggiunta dell’ultimo saggio. A distanza di più di cinquant’anni – sessantacinque se si conta la prima edizione – i saggi di questa raccolta mantengono intatta la propria portata sul piano filosofico, ma la loro lettura richiede oggi qualche chiarimento e qualche riflessione sul nuovo profilo che l’opera complessiva di Canguilhem ha assunto nell’ultimo decennio.Nella breve prefazione alla prima edizione, Canguilhem informa il lettore dell’occasionalità che caratterizza ogni scritto contenuto nel volume: La sperimentazione in biologia animale riprende l’intervento occasionato da un convegno del 1951 organizzato dal Centro pedagogico internazionale di Sèvres; La teoria cellulare e Il normale e il patologico sono entrambi lavori già apparsi in pubblicazioni del medesimo periodo, mentre Aspetti del vitalismo, Macchina e organismo e Il vivente e il suo ambiente, rappresentano la pubblicazione di una serie di conferenze tenute presso il Collège Philosophique di Jean Wahl tra il 1946 e il 1947. Nell’edizione del 1965 si aggiungerà poi La mostruosità e il portentoso, studio che riprende una conferenza del 1962 tenuta all’Institut des Hautes Études de Belgique di Bruxelles e già apparso nella rivista «Diogène». D’altro canto, sin dalla prefazione del 1952, Canguilhem precisa che la collezione di questi saggi e la costruzione del volume manifestano i caratteri dell’unità e dell’originalità. Quest’affermazione, che poteva apparire sino a poco tempo fa come un dispositivo retorico tipico di questo genere di pubblicazione, assume oggi, alla luce dei nuovi studi sull’autore, un significato diverso. Per un lungo lasso di tempo, infatti, si è creduto che Canguilhem fosse, in effetti, un autore poco prolifico. La sua fama era dovuta, soprattutto, a due sole vere opere – Le normal et le pathologique e La formation du concept de réflexe aux XVII et XVIII siècles – e a qualche raccolta di saggi occasionali, riuniti in collezioni tematicamente omogenee: Idéologie et rationalité dans l’histoire des sciences de la vie, gli Études d’histoire et de philosophie des sciences concernant le vivant et la vie e, naturalmente, La connaissance de la vie. Questi lavori, che sono ancora oggi i più noti dell’autore, restituivano l’immagine di un’opera metodologicamente rigorosa, dallo stile asciutto e privo di velleità, articolata in pochi preziosi contributi alla storia e alla filosofia delle scienze della vita. Esiste però una data precisa, nella storia degli studi canguilhemiani, a partire dalla quale quest’immagine diviene insostenibile: nel 1994 esce, a cura di François Delaporte, A Vital Rationalist, antologia di testi di Canguilhem tradotti in lingua inglese. Il volume è destinato a fare storia, non solo perché rappresenta il primo serio tentativo di introdurre nel mondo anglosassone il pensiero dell’autore in maniera sistematica, ma anche perché, a corredo della raccolta, viene pubblicata una bibliografia redatta da Camille Limoges delle opere dell’autore e degli studi critici. Questa bibliografia informò la maggior parte della comunità scientifica interessata al lavoro di Canguilhem della gran quantità di scritti che l’autore aveva prodotto, sin dal 1926, e che si trovavano disseminati e sparpagliati in mélanges, riviste e opere collettanee spesso di difficile se non impossibile accesso. Questa “scoperta”, congiuntamente all’apertura agli studiosi degli imponenti Archives Canguilhem contenuti al Centre d’Archives en Philosophie, Histoire et Éditions des Sciences dell’ENS di Parigi, ha dato avvio a un grande lavoro di ricerca da parte degli studiosi, che si è concretizzato innanzitutto nell’edizione delle Œuvres Complètes, di cui sono apparsi per ora due volumi, che coprono le opere edite nel periodo 1926-1965. Basta un’occhiata all’indice di questi volumi per rendersi conto che i materiali tra cui scegliere per la raccolta del 1952 non erano certo pochi. Scopriamo così che quelli raccolti ne La connaissance de la vie non sono gli unici testi legati alla «philosophie biologique», ma che esistono altri scritti, non meno rilevanti, su questioni vicine, che Canguilhem ha consapevolmente deciso di non riprendere. L’architettura finale de La connaissance de la vie non si riduce quindi a un semplice mélange di materiali tematicamente unitari, ma rappresenta l’esito di un vero e proprio lavoro di selezione e di ricomposizione operato all’interno di un corpus che appare molto più ampio, anche limitandosi a considerare i soli scritti editi e ignorando gli altri materiali di lavoro.Ma che cos’è a costituire, nel concreto, l’unità de La conoscenza della vita? Essa può essere ritrovata nella posizione di un problema che in Canguilhem emergeva già ne Il normale e il patologico (1943; 1966), dato dal rapporto tra vita e conoscenza. L’evoluzione creatrice di Bergson rilevava una rottura fondamentale tra la vita e l’intelligenza a fondamento della scienza; la prima sembrava sfuggire alla presa della seconda, che appariva destinata a fraintendere continuamente l’effettivo andamento della vita. La scienza rappresentava, in particolare, il frutto di una geometrizzazione che finiva per fraintendere il vero significato e la vera struttura della vita. Si viene quindi a creare in Bergson una sorta di iato tra la vita e la scienza, una contrapposizione, che vede i due poli contrapporsi dialetticamente. Lo sforzo di Canguilhem, invece, sembra essere quello di superare proprio questa contrapposizione. È già nel primo capitolo dedicato alla sperimentazione in biologia, infatti, che si giunge alla conclusione che, certo, è «artificiale e, a un tempo, inevitabile che, per intendere quell’esperienza che per un organismo è la sua stessa vita, si utilizzino dei concetti e degli strumenti intellettuali, foggiati da quel vivente scienziato che è il biologo», ma non per questo «si dovrà concludere che la sperimentazione in biologia sia inutile o impossibile, ma piuttosto, riprendendo la formula di Claude Bernard secondo cui la vita è creazione, si dovrà dire che la conoscenza della vita deve compiersi per conversioni imprevedibili, nello sforzo di cogliere un divenire il cui senso si rivela tanto più decisamente al nostro intelletto quanto più lo sconcerta» (p. 70). Questo sforzo si traduce quindi in un particolare ruolo della storia delle scienze – e in particolare delle scienze mediche e biologiche – per la comprensione del rapporto tra vita e scienza: questa non consiste nel mettere in ordine cronologico la sequenza delle conquiste del genio scientifico, ma nel rimettere in questione le soluzioni attuali ai problemi presenti, cercando nella storia «il senso delle possibilità teoriche diverse» da quelle rese ovvie «dall’esclusivo insegnamento degli ultimi risultati della ricerca scientifica» (p. 121). In questo senso, per esempio, Canguilhem affronta la questione del vitalismo, che già occupava le pagine introduttive de La formation du concept de réflexe au XVIIe et XVIIIe siècle (1955). Occorre interrogarsi, innanzitutto, sulla «vitalità del vitalismo» (p. 127) e provare a superare la diffidenza che colpisce questa posizione, dopo l’appropriazione che essa ha subito da parte del nazionalsocialismo (p. 144). D’altronde, contro la separazione bergsoniana tra scienza e vita, si suggerisce che «il ricorrente vitalismo è la vita stessa che cerca di rimettere il meccanicismo al suo posto entro la vita» (p. 146) ed è in questo senso che va inteso, per esempio, il saggio su Macchina e organismo, dove Canguilhem ribalta la concezione classica dell’animale-macchina moderno, sostenendo che, la concezione meccanicistica del vivente non è in fondo meno antropomorfica dell’idea di una teleologia dei fenomeni naturali. Non è infatti il vivente a essere stato creato come una macchina, ma la macchina – prodotto della tecnica umana – a essere ispirata alle forme del vivente (p. 185). La tecnica non è altro, infatti, che uno dei modi attraverso cui il vivente regola il proprio rapporto con l’ambiente [milieu], che non può essere ridotto – come scopriamo ne L’essere vivente e il suo ambiente – a un insieme di relazioni causali, in quanto «l’ambiente specifico degli uomini non è situato all’interno di un ambiente universale, alla maniera di un contenuto in un contenente», ma una realtà polarizzata da parte del vivente stesso, sin dallo stesso momento percettivo (p. 217). In questo senso, ancora una volta, la posizione di Canguilhem, pur non proponendo alcuna opposizione tra vita e scienza, critica ogni riduzionismo fiscalista e si fa promotrice di una scientificità pienamente ricondotta al contesto della vita stessa e denuncia «l’insufficienza di ogni biologia la quale, sottomettendosi completamente allo spirito delle scienze fisico-chimiche, vorrebbe limare dal proprio ambito ogni considerazione di significato» (p. 217). Questa biologia ritrova nelle nozioni di norma vitale e nella normatività del vivente il proprio quadro filosofico di fondo, come emerge in particolare dalla ripresa nel saggio Il normale e il patologico dei medesimi temi già affrontati nell’omonimo libro. In questo saggio però, ancor più che nella tesi del 1943 e nelle aggiunte del 1966, trova esplicita formulazione lo sfondo antropologico in cui è necessario contestualizzare le ricerche di Canguilhem sulla medicina: «riteniamo», si legge infatti in conclusione al saggio, «che la biologia umana e la medicina siano le parti necessarie di una “antropologia” e che mai hanno cessato di esserlo; ma pensiamo anche», si aggiunge, «che non esiste antropologia che non presupponga una morale, di modo che il concetto di “normale” resta sempre, sul piano umano, un concetto normativo la cui portata è propriamente filosofica» (p. 237). Questo livello di analisi di fondo, che potremmo intendere come un’«antropologia filosofica», pone quindi il problema di come nelle scienze permangano sempre elementi concettuali genuinamente filosofici e, in questo senso, antropologici e quindi morali e politici. Se vi è una precisa questione politica dietro l’avvento della teoria cellulare (pp. 73-121), vi è qualcosa di profondamente legato al vivente umano in concetti come quello di «mostro». Questo “qualcosa” è in definitiva il ruolo che la «funzione senza organo» dell’immaginazione, come già aveva notato Bachelard, riveste nella produzione delle immagini (p. 255). L’immaginario, ci dice Canguilhem, è quell’elemento che impedisce in fondo che la scienza finisca per produrre un mondo biecamente positivista, dove tutto cade sotto il dominio delle leggi della natura, ma solo a patto che esso non divenga l’occasione per lo scienziato di perdersi in un «antimondo» dove tutto è possibile, dimenticando che, in fondo, ogni eccezione, ogni mostro, presuppone una legge da infrangere.Volgendo uno sguardo retrospettivo alla storia della recezione dell’opera, si può dire senza timore di sbagliare che La connaissance de la vie abbia rappresentato, con Le normal et le pathologique, l’opera più letta di Canguilhem. Sarebbe difficile sopravvalutarne l’importanza per la rinascita in Francia della «philosophie biologique» e, in generale, dell’interesse filosofico alle questioni del vivente. Basti pensare all’importanza che le tesi contenute in questi tre scritti hanno avuto per autori contemporanei come François Dagognet o André Pichot, o a come quest’opera sia al centro di quella che sembra essere una rinascita del vitalismo in filosofia. Appare quindi un vero peccato che il lettore italiano possa accedere a quest’opera in un’edizione in effetti molto datata e difficilmente reperibile. L’edizione del 1976, nell’ottima traduzione di Franco Bassani, presenta un’interessante introduzione di Antonio Santucci che, con grande sensibilità, già coglieva i tratti specifici della questione del vitalismo in Canguilhem, offrendo inoltre una breve ma essenziale presentazione di un autore che il pubblico italiano mal conosceva. Sarebbe però più che mai opportuno stabilire oggi una nuova edizione, da condursi sul testo delle Œuvres Complètes attualmente in preparazione e che permetta una re-introduzione dell’opera nel contesto italiano, ricollocandone il significato all’interno del dibattito contemporaneo.

Gabriele Vissio

S&F_n. 17_2017

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