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Emanuele Coccia – La vie des plantes. Une métaphysique du mélange [Bibliothèque Rivages, Paris 2016, pp. 192, € 18]


Tutte le forme sono affini, e niuna somiglia all’altra; così allude il coroad una legge occulta, a un sacro enimma.

J.W. Goethe, Metamorfosi delle piante

 

Nel 1807 a Jena, mentre Hegel pubblicava la Fenomenologia dello spirito, Johann Wolfgang Goethe proseguiva i suoi studi di botanica, che già nel 1790 avevano prodotto lo scritto sulla metamorfosi delle piante. L’interesse di Goethe è catturato da una circostanza elementare: a uno sguardo più attento, l’individuo che riesce a vincere la tentazione di ritenersi superiore a tutto scorgerà nella natura intorno a sé una incredibile ricchezza, una potenza creatrice che non può essere trovata altrove con la stessa evidenza. Subito dopo Goethe precisa che studiare botanica significa, in primo luogo, effettuare uno studio sulle forme: non le forme fisse che l’uomo ha sempre cercato di riconoscere nel mondo o di imporre a esso, bensì un vivo susseguirsi di forme sempre diverse, attive, una produzione plastica e fluida che impedisce all’osservatore qualsiasi quiete. Il regno vegetale è, nel modo più immediato, il luogo in cui si assiste all’intrecciarsi indissolubile tra vita e forma.Queste considerazioni di Goethe costituiscono in certo modo un’eccezione all’interno del “canone” del pensiero occidentale. La storia della filosofia offre pochi momenti di reale attenzione al mondo vegetale, concentrandosi piuttosto sulle “forme di vita superiori” (gli animali e l’uomo). Allo stesso tempo, nel lessico filosofico si è imposta un’idea statica di forma, una concezione secondo la quale la forma sarebbe precisamente ciò che non muta, ciò che offre all’uomo la possibilità di avere una conoscenza salda.Date queste premesse, si può cominciare affermando che l’ultimo libro di Emanuele Coccia è un libro sulla forma. Più a fondo, si tratta di un libro sull’indissolubilità dell’intreccio tra forma e vita. Il punto di partenza del discorso di Coccia è l’esigenza di recuperare uno sguardo filosofico sul mondo naturale, in particolare su quello vegetale: come è stato già messo in luce da Ian Hamilton Grant, la filosofia del Novecento ha per lo più rimosso il mondo naturale. Se la scomparsa della “filosofia della natura” ha tuttavia permesso il persistere di un certo interesse alla dimensione animale – soprattutto dal punto di vista antropologico, etico e fenomenologico – è proprio il mondo vegetale a esser stato completamente dimenticato dai filosofi di professione. Il risultato, per Coccia, è un pensiero necessariamente monco, in cui grande attenzione viene data a fenomeni particolari e pochissimo spazio viene concesso a ciò che vi è di più generale e diffuso, ma soprattutto a ciò che è alla base di ogni altra forma di vita sulla terra.Tutto questo non è una sorpresa: ciò che ci circonda, ciò che è ovunque è per forza di cose anche ciò che è più difficile notare, e tuttavia il pensiero filosofico sembra aver dimenticato la propria vocazione più immediata, ovvero tematizzare le cose prossime e pensarle nella loro natura. Non è la prima volta che Emanuele Coccia effettua un esercizio del genere: lo ha fatto nel suo La vita sensibile, un saggio sulle immagini in cui proprio l’immagine viene riconosciuta come dimensione centrale di ogni modello di vita, esperienza, ragione; lo ha fatto nel successivo Il bene nelle cose, in cui la pubblicità – ovvero la forma di comunicazione che avvolge ogni momento delle nostre vite urbane – è riconosciuta come il discorso morale più potente e rilevante della contemporaneità. Lo fa infine ne La vita delle piante, il cui punto di partenza è dei più semplici, ma proprio per questo mostra un’evidenza inconfutabile: la vita vegetale è non solo la prima forma di vita, ma anche il presupposto di ogni vita.Proprio questa considerazione basterebbe a precisare che il saggio di Coccia non si presenta in alcun modo come uno scritto di filosofia “settoriale”: non è un’opera di filosofia della biologia o della botanica, non si tratta di un trattato sulla comprensione filosofica delle scienze naturali. Non si tratta, in fondo, nemmeno di un saggio di filosofia della natura, se con ciò si intende una “sezione” di un più ampio sistema filosofico. L’intenzione dell’autore sembra negare nel modo più deciso proprio l’idea che ci sia una filosofia della natura separata da una filosofia dello spirito, una natura separata dalla logica, una ragione “altra” rispetto a quella che si manifesta all’interno del mondo naturale. La vie des plantes è un trattato di metafisica innanzitutto perché rivendica un’aspirazione al tutto, perché è un saggio che nel trattare il tema delle piante vuole parlare di ogni vita, di ogni forma, di ogni ragione. La vita vegetale è così non un mondo a parte, prima negletto e poi recuperato per curiosità o per esigenza di completezza, ma piuttosto è il modello sulla base del quale è possibile (ri)pensare tutti i temi più importanti della storia del pensiero.Questa esigenza di ripensamento, di dissodamento delle categorie classiche del pensiero sembra essere uno degli aspetti centrali della scrittura di Emanuele Coccia. I suoi saggi trattano temi centrali ma seppelliti sotto un pensiero calcificato, trovando nuove aperture, rifiutando gli stilemi e gli automatismi di un modo d’intendere la filosofia organizzato per tassonomie e distinzioni disciplinari. Il risultato è, in prima battuta, un’operazione di riscoperta e di rivalutazione: dell’immagine contro la retorica dell’apparenza ne La vita sensibile, delle cose inanimate e dei beni di fronte alla dominante attenzione per le persone ne Il bene delle cose, della vita vegetale contro l’ossessione per la vita animale e umana ne La vie des plantes. Questa riscoperta non è mai un’operazione neutra, ma porta con sé al tempo stesso conseguenze concettuali sempre rilevanti, un vero e proprio scardinamento di luoghi comuni filosofici più o meno ancora dominanti nel dibattito presente: l’immagine sfida la distinzione soggetto-oggetto così come il bene materiale sfida l’idea che solo una persona senziente possa essere veicolo di valori morali. Ne La vie des plantes, sono principalmente un modello di razionalità completamente appiattito sull’uomo e un modello di vita interamente appiattito sull’animale a essere presi di mira. La vita vegetale sfida il paradigma antropocentrico al punto da suscitare domande spiazzanti sin dall’antichità (il trattato pseudoaristotelico Sulle piante si apre precisamente chiedendosi se, e in che senso, le piante siano effettivamente dei viventi).Il risultato di questo lavoro è un completo riorientamento del pensiero, una riforma – in senso letterale – che si ripercuote sulle idee correnti non in modo locale, ma riconfigurandone i presupposti fondamentali. Proprio in questa direzione, occorre anche precisare che La vie des plantes è una metafisica, non una metaforologia del mélange. Ogni riferimento al “respiro” – lo pneuma stoico – come forma originaria di qualsiasi spirito non è una bella immagine, ma una tesi metafisica ben precisa: «tutto nel vivente non è che un’articolazione del respiro: dalla percezione alla digestione, dal pensiero al godimento, dalla parola alla locomozione» (p. 75). In questo contesto, la vita vegetale si pone al tempo stesso come un modo del tutto peculiare d’essere in relazione con il mondo – il più immediato, il più pieno, il più privo di selezione (pp. 17-18) – e come la forma originaria di ogni ulteriore modo d’essere del vivente, senza che si dia alcuna separazione, alcuna metabasis eis allo genos.Questo vale anche, e soprattutto, per la ragione. Il saggio di Coccia mette in evidenza l’esigenza di abbandonare un’immagine antropocentrica e riduttiva della ragione, reiterando l’idea che “razionale” sia solo ciò che ha a che fare con il pensiero dell’uomo, ed elabora una teoria generale della ragione basata precisamente sul mondo vegetale. È qui che il nesso tra vita e forma si mostra nel modo più radicale: la ragione non è solo il «luogo delle forme», un deposito di sterili modelli; essa è «un seme, perché a differenza di ciò che la modernità si è ostinata a pensare, essa non è lo spazio della contemplazione sterile, non è lo spazio dell’esistenza intenzionale delle forme, ma la forza che fa esistere un’immagine come destino specifico di questo o quell’individuo od oggetto. La ragione è ciò che permette a un’immagine d’essere un destino, spazio di vita totale, orizzonte spaziale e temporale. Essa è necessità cosmica e non capriccio individuale» (pp. 29-30). Non dunque un’eidetica, ma una morfologia: non una teoria delle forme fisse, ma una metafisica della fluidità, la modalità d’essere dell’ambiente di ogni vivente in quanto tale (p. 46).Decisamente avverso a qualsiasi impostazione idealistica, il saggio di Coccia propone una forma del tutto personale di realismo speculativo, nel senso in cui l’espressione può essere utilizzata per descrivere una corrente del pensiero europeo contemporaneo. La vie des plantes marca una linea di assoluta convergenza rispetto agli studi scientifici, ma delinea al tempo stesso una dimensione che non si fa alcuna fatica a riconoscere come specificamente filosofica. Contro i tic della saggistica filosofica tradizionale, il saggio di Coccia appare al tempo stesso originale e fedele a un modello classico di trattatistica, che riconosce il lavoro del filosofo innanzitutto come uno sforzo di avvicinamento alle cose, di tematizzazione di ciò che, onnipresente, passa inosservato. Questo lavoro viene svolto con un’indubbia maestria letteraria, sfuggendo anche qui alla sterile contrapposizione tra l’oscurità dei teoreti di professione e le semplificazioni dei divulgatori.In questo senso, il tema fondamentale del trattato viene elaborato anche nei termini di una vera e propria metafilosofia, che rifugge qualsiasi rigida distinzione appartenente alle logiche della produzione accademica. Se non esiste una forma definitiva, se il mondo è una continua morfopoiesi, allo stesso modo la filosofia non si riconosce in alcuno stile predeterminato, non si fonda su alcun canone rigido, non accetta alcuna posizione concettuale inattaccabile. La vie des plantes è una magnifica espressione pratica di questa impostazione, un esempio magistrale di letteratura filosofica adatto a chiunque non abbia paura di continuare, o riprendere, a pensare.

Alessandro De Cesaris

S&F_n. 17_2017

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