11 Ottobre 1977: la Royal Swedish Academy of Sciences assegna il premio Nobel per la Chimica allo scienziato Ilya Prigogine per i suoi studi sulla termodinamica del non-equilibrio, con particolare riferimento alle strutture dissipative. Durante il discorso di presentazione, il prof. Stig Claesson non manca di sottolineare l’importante contributo offerto dalle ricerche di Prigogine allo studio di svariati problemi, dalla gestione del traffico cittadino all’analisi della proliferazione delle cellule tumorali. In tal modo, afferma Claesson, «Prigogine’s researches into irreversible thermodynamics have fundamentally transformed and revitalized the science, given it a new relevance and created theories to bridge the gaps between chemical, biological and social scientific fields of inquiry» (S. Claesson, Award Ceremony Speech, in
http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/chemistry/laureates/1977/presentation-speech.html).
Rileggendo il discorso tenuto da Prigogine in occasione della premiazione è possibile ricondurre il carattere poliedrico delle sue ricerche alla estensione e diversificazione del concetto del tempo che esse comportano. In questa sede, infatti, lo scienziato afferma: «the development of the theory permits us to distinguish various levels of time: time as associated with classical or quantum dynamics, time associated with irreversibility through a Lyapounov function and time associated with ‘history’ through bifurcations. I believe that this diversification of the concept of time permits a better integration of theoretical physics and chemistry with disciplines dealing with other aspects of nature» (I. Prigogine, Time, structure and fluctuations, in http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/chemistry/laureates/1977/prigogine-lecture.pdf).
Matrice di una riflessione multisfaccettata, il tempo acquista sempre più un ruolo di spicco nel lavoro di Prigogine. Non a caso nel corso di un’intervista lo scienziato dichiara di aver iniziato «subito dopo l’assegnazione del premio Nobel […] un programma estensivo di studi e di ricerche che incorporasse il tempo nelle leggi della natura», avviando, così, un attento confronto con il pensiero filosofico, nella consapevolezza dello stretto legame che intercorre tra apertura multidisciplinare e progresso scientifico (V. Fisogni, Il tempo come principio di sensatezza del cosmo. Intervista a Ilya Prigogine, in A parte rei. Revista de filosofia,
http://serbal.pntic.mec.es/~cmunoz11/intervista.pdf).
La possibilità di recuperare un dialogo tra orizzonti disciplinari a lungo resi estranei l’uno all’altro a partire da una rielaborazione del concetto del tempo nelle scienze viene illustrata da Prigogine nel testo scritto a quattro mani con Isabelle Stengers, pubblicato nel 1979 e intitolato La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza. Con un rigore espositivo che non sacrifica nulla alla chiarezza, gli autori si rivolgono a un pubblico di non addetti ai lavori e, introducendolo ai concetti chiave che hanno strutturato la storia delle scienze dall’età moderna ai nostri giorni, analizzano le peculiari modalità di relazione tra uomo e natura cui tali concetti hanno dato origine.
Il percorso narrativo proposto da Prigogine e Stengers prende avvio da una data significativa: il 28 aprile 1686, giorno in cui Isaac Newton presenta i propri Principia, attraverso i quali vengono enunciate le leggi fondamentali del moto (p. 3). L’opera newtoniana è destinata a cambiare radicalmente l’immagine del mondo, nella misura in cui, riconducendo i molteplici fenomeni osservati in natura a un ordine di leggi eterno e universalmente valido, esclude dal proprio discorso ogni forma di novità. La predicibilità degli eventi fa sì che la progressione del tempo si svuoti di significato. In un mondo in cui la medesima legge ripete incessantemente se stessa, passato e futuro diventano intercambiabili, determinando in tal modo la reversibilità dei fenomeni naturali (p. 4).
Il miraggio di un sapere eterno e omnicomprensivo che ha alimentato la scienza moderna non poteva, tuttavia, essere perseguito se non al prezzo di una radicale frattura, quella tra la natura e l’uomo che, in virtù della sua originaria storicità, non può riconoscersi nel meccanismo cieco che soggiace al proprio ambiente circostante. Ormai estromesso dalla natura che lo circonda, l’uomo rinuncia a una relazione armoniosa con essa, mentre la conoscenza delle leggi che la governano apre la strada al suo dominio incontrastato (p. 31).
Il carattere universalmente valido riconosciuto alla meccanica newtoniana subisce una prima incrinazione con gli studi di Fourier sulla propagazione del calore nei solidi. Gli autori sottolineano come la legge di Fourier, dichiarando che «il flusso di calore tra i due corpi è proporzionale al gradiente della temperatura fra essi» (p. 110), non possa essere ricondotta alle dinamiche descritte da Newton. In altri termini, affermano Prigogine e Stengers, «il calore e la gravità sono due universali che coesistono nella fisica» (p. 111), il che porta alla caduta della visione unitaria delle leggi naturali professata dalla fisica moderna.
Se i primi studi sul calore mettono in discussione la pretesa di universalità delle leggi newtoniane, pretesa che subirà uno scacco definitivo nel corso del XX sec. ad opera della relatività e della meccanica quantistica (pp. 217-225), con la formulazione del secondo principio della termodinamica viene messo in crisi il carattere atemporale delle leggi naturali, nella misura in cui tale principio, introducendo il concetto di entropia, conduce a fare i conti con l’irreversibilità dei processi termodinamici. La tendenza naturale verso il disordine riscontrata nel comportamento delle macchine termiche sembrava, in un primo momento, potesse essere generalizzata a tutti i sistemi. «Per lungo tempo», infatti, «alcuni fisici credettero che si potesse definire […] l’evoluzione verso il disordine e l’inerzia come la sola evoluzione deducibile dalle leggi fondamentali della fisica» (p. 135). Tale concezione, tuttavia, contrasta con la varietà delle forme viventi che si riscontrano in natura e con la tendenza della vita a conseguire un assetto sempre più complesso di cui Darwin ci ha dato ampia dimostrazione. È possibile conciliare ambedue le posizioni? Se sì, si chiedono i nostri autori, «quale relazione può esserci tra il tempo termodinamico dell’avvicinamento all’equilibrio e il tempo della complessità che cresce?» (ibid.). È proprio in questo punto che entrano in gioco, svolgendo un ruolo decisivo, gli studi di Prigogine sulle strutture dissipative.
Alla base delle ricerche dello scienziato vi è l’osservazione secondo cui lontano dall’equilibrio il comportamento dei sistemi è altamente imprevedibile. Essi diventano sensibili alle condizioni ambientali e le fluttuazioni cui vanno incontro possono condurli a nuovi stati di organizzazione caratterizzati da una maggiore complessità. Di particolare interesse è il fatto che «contrariamente alle situazioni vicine all’equilibrio, il comportamento di un sistema lontano dall’equilibrio diventa altamente specifico. Non ci sono più leggi universalmente valide da cui potrebbe essere dedotto» (p. 150). Questo comportamento trova una spiegazione nel fatto che, allontanandosi dalla stabilità, il sistema raggiunge il cosiddetto «punto di biforcazione» (p. 160). Questo stadio dischiude diversi possibili stati raggiungibili dal sistema. Quale di questi verrà effettivamente instaurato dipende in larga parte dal cammino percorso dal sistema fino a quel momento. La dinamica appena illustrata sottrae dunque i sistemi a un rigido determinismo, mostrando come il loro cammino, «caratterizzato da una successione di regioni stabili, in cui dominano le leggi deterministiche, e di regioni instabili, vicino ai punti di biforcazione, in cui il sistema può decidere più di un futuro», abbia una connotazione storica (p. 164).
Il superamento della meccanica newtoniana, mettendo in crisi l’idea di un ordine naturale sempre uguale a se stesso, ha mostrato, come un fiume eracliteo, il carattere processuale della natura. «Non solo la vita», dunque, «ma anche l’insieme dell’universo ha una storia» (p. 214). Nel segno di un tempo che non costituisce più «un semplice parametro del moto, ma misura evoluzioni interne a un mondo in non-equilibrio» (p. 17), uomo e natura coprono la distanza che la scienza moderna aveva frapposto tra loro, riscoprendo così un’originaria risonanza. Il riconoscimento di questa profonda unità mette in campo la necessità di integrare la scienza occidentale con «nuove forme di razionalità» (p. 22) che ci consentano di comprendere una totalità di cui noi stessi facciamo parte. Con questo spirito gli autori guardano a oriente, in particolar modo al pensiero cinese (p. 23), che da sempre «si radica in un rapporto di fondamentale fiducia dell’uomo rispetto al mondo in cui vive, e nella convinzione che egli possiede la capacità di abbracciare la totalità del reale mediante la sua conoscenza e la sua azione – totalità che è una e a cui si rapporta l’infinita molteplicità delle sue parti» (A. Cheng, Storia del pensiero cinese, Einaudi, Torino 2000, p. 20). La consapevolezza dell’armonia che permea il cosmo fa sì che in luogo di astrazioni si proceda nella ricerca di correlazioni, che la sperimentazione scientifica sia guidata da un «ascolto poetico della natura» (I. Prigogine – I. Stengers, p. 288).
La riconciliazione tra uomo e natura segna finalmente il tempo di un rinnovato dialogo tra le discipline. «Viviamo in un mondo pluralistico, che non può essere descritto in termini di schemi omnicomprensivi» (p. 262), ribadiscono gli autori. Le dinamiche complesse con cui si confronta la ricerca scientifica contemporanea, sanciscono il crollo definitivo della fede nella semplicità delle leggi che governano il reale e alimentano «una consapevolezza sempre maggiore della non esaustività di ogni punto di vista» (G. Bocchi – M. Ceruti, La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano 2007, p.XXV), che comporta la necessità di ridefinire di rapporti tra i diversi orizzonti disciplinari. Di tale esigenza Prigogine e Stengers si mostrano pienamente consapevoli, dichiarando che all’interno di questo quadro di scoperte «la costituzione di una “terza cultura” potrebbe acquistare una certa importanza» (I. Prigogine – I. Stengers, p. 35). L’avvento di questo nuovo ordine di discorso non viene, tuttavia, prospettato dagli autori nei termini di una semplice fusione tra le diverse discipline, mediante cui alcune potrebbero trovarsi ad assumere un ruolo strumentale rispetto ad altre. Al contrario, a più riprese i due studiosi sottolineano che «dobbiamo imparare a non giudicare più le varie forme di sapere, di pratica e di cultura prodotte dalle società umane, ma a incrociarle, a stabilire nuovi canali di comunicazione» (pp. 286-287). La “terza cultura” si presenta allora come uno spazio dialogico entro cui i diversi saperi possono incontrarsi e confrontarsi, non al fine di inglobare la natura entro un sapere precostituito, bensì per cogliere e lasciarsi ispirare dalla sua inesauribile creatività.
Anna Baldini
S&F_n. 6_2011