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Norbert Wiener – Introduzione alla cibernetica. L’uso umano degli esseri umani – tr. it. a cura di D. Persiani [Bollati Boringhieri, Torino 1970, pp. 240, € 16]


È un testo denso quello che Wiener propone negli anni ’50 e per certi versi un testo controverso, oltre che di grande attualità: parla di servosistemi, di cibernetica, di teorie dell’informazione e tuttavia già il sottotitolo esprime una petizione di principio importante: Uso umano degli esseri umani. Come a voler mettere le mani avanti, l’autore sembra dar voce a un’angoscia, a una paura di fondo: la definitiva resa dell’homo sapiens e faber dinnanzi allo strapotere di congegni che diventano sempre più autopoietici e sembrano sottrarre all’uomo le sue prerogative di signore, pastore e custode dell’ente. E in effetti Wiener intende mettere subito in guardia il lettore circa i rischi morali di uno «sfruttamento grettamente egoistico» delle nuove possibilità offerte dalle macchine, «in un mondo in cui, agli uomini, debbono importare soprattutto le cose umane» (p. 16). Si rimane spiazzati dall’iniziale rappresentazione dicotomica e per certi versi manichea che oppone l’uomo alla macchina, l’intelligenza miracolosa e naturale del primo, a quella progettata e artificiale dei sistemi “allopoietici”, e che in seconda istanza oppone il mondo delle macchine a quello dei valori, come se tali artefatti fossero il frutto di un alieno demiurgo e non il prodotto di quello stesso umano che produce valori. Ecco allora emergere l’immancabile istanza antropocentrica tesa a stabilire posizioni e gerarchie: «Affermare che l’uomo è un bipede implume significa classificarlo insieme ai polli spiumati, ai canguri, ai gerboa. È un gruppo, come si vede, piuttosto eterogeneo e che potremmo estendere come ci pare senza illuminare maggiormente la vera natura dell’uomo» (ibid.). Sacrilegio irredimibile quello di affiancare i logorroici abitanti dell’agorà all’ottusità muta del pollo, del canguro del gerboa! La morale si ribella contro questo egualitarismo ontologico e il buon senso addita come errore gnoseologico tale tentativo che non serve a illuminare la vera natura dell’uomo. Una cosa è certa: Wiener non ha ancora attraversato il guado, non gli è giunta notizia della morte di dio, si ostina, come noi tutti, in una partizione tra mondo autentico e inautentico e nel cocciuto tentativo di preservare l’essenza dell’uomo, la sua vera natura, mantenendo le distanze, stabilendo i confini per garantire l’immunitas di questa sacra essenza. L’uomo abita nella casa del linguaggio, la parola lo distingue dal resto del mondo naturale: «Nell’uomo l’impulso a comunicare con i suoi simili è così vivo che neppure la duplice menomazione della vista e dell’udito può estinguerlo completamente» (pp. 16-17).

Date queste premesse Wiener comincia col porsi la domanda sulla comunicazione entrando così nel vivo del discorso ed esponendo la sua tesi principale: «La società può essere compresa soltanto attraverso lo studio dei messaggi e dei mezzi di comunicazione relativi ad essi; […] Nello sviluppo futuro […] i messaggi fra l’uomo e le macchine, fra le macchine e l’uomo, e fra macchine e macchine sono destinati ad avere una parte sempre più importante» (pp. 23-24). La cibernetica allora si pone come studio di questi messaggi: «Uno degli aspetti più interessanti del mondo è il fatto che esso può ritenersi costruito sulla base di modelli. Un modello è essenzialmente una disposizione caratterizzata dall’ordinamento degli elementi di cui si compone anziché dalla natura intrinseca di questi elementi» (pp. 17-18). L’informazione allora altro non è che «la misura della regolarità di un modello le cui parti componenti si sviluppano nel tempo» (p. 21).

Studiamo le macchine per comprendere l’uomo e analizziamo l’uomo per produrre macchine sempre più efficienti. Wiener sottolinea la rivoluzione alla quale stiamo assistendo: «Le vecchie macchine e in specie i primi tentativi di costruire automi erano basati praticamente sul principio puro e semplice del meccanismo di orologeria. Le macchine moderne, invece, sono provviste di organi sensori, cioè organi di ricezione dei messaggi che provengono dall’esterno» (p. 25). Le nuove macchine sono dunque provviste di feedback: «Affinché ogni macchina subordinata a un ambiente esterno variabile possa funzionare efficacemente, è necessario che sia fornita ad essa l’informazione relativa ai risultati della sua stessa azione, come parte dell’informazione in base alla quale essa deve continuare ad operare» (p. 26). A questo punto emerge la relazione organismo-macchina: «Il comportamento degli individui viventi è esattamente parallelo al comportamento delle più recenti macchine per le comunicazioni […] In entrambi esiste, cioè, un apparato speciale per raccogliere informazioni dal mondo esterno a bassi livelli di energia, e per renderle utilizzabili nel comportamento dell’individuo o della macchina. In ambedue i casi questi messaggi esterni non sono utilizzati al loro stato naturale, ma dopo un processo interno di trasformazione operato dalle forze dell’apparato, siano esse viventi o no» (pp. 29-30).

Il vivente trascende il muto determinismo della causalità lineare e rivoluziona il principio di entropia: la natura non va misurata con una bilancia di uguali probabilità, ma al contrario su di una bilancia che penda a favore del nuovo e dell’interessante. La vita non si estrinseca attraverso la linearità, attraverso una banale dialettica di causa-effetto, dove l’effetto è precisamente proporzionato alla causa: «Nessuno dei fenomeni veramente eversivi della natura o dell’esperienza è, anche soltanto approssimativamente, di tipo lineare» (p.47).

Il testo irretisce il lettore con la sua doppiezza, in un circuito che potremmo definire da doppio legame: mentre mette in evidenza le analogie organismo-macchina e stravolge la logica tradizionale stabilendo la non linearità dei fenomeni e definendo l’entropia non come dissipazione, ma come creazione del nuovo, si sente tuttavia in dovere di avvertire il lettore circa i rischi e le catastrofi connesse a tali processi, e lo invoca, talvolta utilizzando toni dal sapore apocalittico, a una corretta gestione di questo nuovo corso, data l’impossibilità di tornare indietro: «I nostri nonni hanno gustato il frutto dell’albero della scienza, e anche se questo frutto ha oggi un sapore amaro per le nostre bocche, l’angelo dalla spada fiammeggiante è ormai dietro di noi. Dobbiamo continuare a inventare nuove tecniche e a guadagnarci il pane non soltanto con il sudore dei nostri muscoli, ma con il metabolismo del nostro cervello» (p. 72).

Wiener analizza l’agire comunicativo e alcuni modelli di comunicazione; la natura delle diverse comunità sociali dipende infatti dal tipo di comunicazione che in esse si instaura. La democrazia, emblema di un agire comunicativo elastico entro cui, almeno in teoria, non vi sono ostacoli alla comunicazione tra individui e classi diverse, in realtà è ben lungi dall’essere realmente raggiunta, persino negli Stati Uniti. Il sistema economico infatti prevede ancora la dialettica servo-signore, e cioè quella che Wiener definisce come la condizione delle formiche, «meccanicamente regolata» da funzioni prestabilite di comando e obbedienza senza critica. A questo punto l’autore, in pieno stile umanistico, effettua una novella orazione sulla dignità della natura umana, di contro l’ottusa natura della formica: «un insetto è condizionato dall’intero processo del suo sviluppo ad essere un individuo essenzialmente stupido e incapace di perfezionamento, modellato su uno stampo che non può essere apprezzabilmente modificato […] Le condizioni fisiologiche della formica rendono questo insetto simile a un articolo economico prodotto in serie, il cui valore individuale non è più grande di quello di un recipiente di cartone per gelato di cui ci si sbarazza dopo l’uso» (p. 76). La differenza tra l’uomo e l’insetto è quella tra rigidità e plasticità nell’apprendimento: la formica non può imparare, l’uomo è invece modellato dall’esperienza: «L’insetto appare simile a una macchina con tutte le istruzioni impresse in anticipo sui “nastri” e con una facoltà minima di cambiare queste istruzioni» (p. 82). L’essenza dell’insetto dunque, al contrario di quella dell’uomo, precede l’esistenza, l’uomo, da buon costruttore di mondo, esiste, e in seguito forgia la sua essenza. Allora diviene palese che l’analogia effettuata inizialmente tra macchina-organismo vivente è un’analogia macchina-animale: «La concezione della cibernetica sottolinea il rapporto tra l’animale e la macchina e mette in rilievo il modo particolare in cui la macchina funziona come un’indicazione del comportamento che possiamo aspettarci da essa» (pp. 82-83). Dovremmo dunque aspettare l’epistemologia dei sistemi complessi di Maturana e Varela, per una definizione che intenda come macchine autopoietiche tutti gli organismi, compreso l’uomo.

La plasticità dell’uomo dipende dalla sua neotenia, egli è discepolo per eccellenza, l’unico ente che passa circa il 40% della sua esistenza ad apprendere attraverso costanti processi di feedback positivo. Tuttavia l’autore si mostra ottimista circa la possibilità di progettare macchine in grado di apprendere, in grado dunque di simulare le complesse operazioni del cervello umano. Frutto di un processo integrale di apprendimento è anche l’inedita capacità del linguaggio, che è: «una propensione innata a cifrare e decifrare […] il carattere più appariscente e la conquista più elevata dell’uomo» (p. 112).

Norbert Wiener affronta anche lo spinoso problema dell’individualità: essa è definita come «qualcosa che partecipa della natura della comunicazione» (p. 119). L’autore si sofferma su una parola densa della metafisica occidentale, quella di identità e ci sorprende affermando che «l’identità fisica di un individuo non consiste della materia di cui egli è formato» (p. 124). L’identità dunque non è un insieme di parti materiali, bensì un’organizzazione, un processo. Wiener non si rendeva forse ancora conto che tale affermazione andava a restringere la distanza tra naturale e artefattuale, tra uomo e macchina; l’identità in effetti «è piuttosto quella di una fiamma che quella di una pietra, quella di una forma anziché quella di un frammento di sostanza. Questa forma può essere trasmessa o essere modificata e riprodotta» (p. 125).

È bizzarro constatare che il padre della cibernetica, il pioniere di una rivoluzione epistemologica che ha modificato le nostre categorie concettuali, abbia scritto un testo che sembra avere un intentio morale prima ancora che teoretica. E in effetti il saggio si chiude con lo stesso monito epico-apocalittico con cui aveva esordito: è necessario imparare a gestire questi artefatti demoniaci prima che prendano il sopravvento su di noi dando vita a società e modelli di comunicazione iniqui: «Il tempo stringe e l’ora della scelta fra il bene e il male è ormai imminente» (p. 229).

 

Fabiana Gambardella

S&F_n. 6_2011

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