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Solo una catastrofe ci potrà salvare. L’essere per la morte nell’epoca della crisi ecologica

Autore


Lorenzo De Stefano

Università degli Studi di Napoli Federico II

ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Scienze Filosofiche presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Attualmente è cultore della materia in Filosofia Teoretica e Etica dei Big Data

Indice


  1. Una premessa
  2. Morte e finitudine nell’epoca dell’Antropocene
  3. Quattro tesi sull’origine del climate change 
  4. Storicità, Finitudine, e Cura alla prova del climate change

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S&F_n. 26_2021

Abstract


Only a catastrophe could save us. Being-towards-death in the era of the ecological crisis

The aim of this essay is to develop a theoretical background to approach the problem of climate change, starting from the question of death as theorized by Heidegger in his masterpiece Being and Time. In order to do that, I start from the concept of the Anthropocene in relation with the problem of human and natural history and introducing the Heideggerian concept of history as epiphenomenon of temporal structure of the Dasein. On this basis, the being-toward-death, the as exposed in the abovementioned work, will help to provide a hermeneutic criterion to approach an ethic of the catastrophe.

  1. Una premessa

Come sosteneva oltre due secoli fa Xavier Bichat «La vita è l'insieme delle funzioni che resistono alla morte». La morte è pertanto ciò che per via negativa contribuisce all’individuazione della vita, lo stigma della sua finitudine, il suo limite invalicabile. Tale relazione tra la resistenza della vita, dell’individuato a partire dalla sua genesis, e la de-individualizzazione della pura materia inerte, del fondo originario in cui tutte le cose hanno la loro phtorà è probabilmente il pensiero più originario della filosofia a partire da Anassimandro. Come sosteneva Eugen Fink «possiamo affermare che la morte non è semplicemente una struttura dell’esistenza (Dasein), non riguarda il suo rapportarsi all’essere, ma alla verità e al mondo»[1]. L’epoca contemporanea sembra, tuttavia, intrattenere un rapporto ambiguo con la morte, da un lato si segnala il tentativo della sua razionalizzazione e rimozione dalla pratica quotidiana in nome del titanismo della tecno-scienza, attuata attraverso un rigido controllo del lessico e dell’immagine nell’epoca della sua riproducibilità tecnica[2], dall’altro l’inveramento della concreta possibilità della fine di tutte le cose sotto forma della catastrofe ha informato la nostra autocoscienza storica, anche a partire dalla riflessione filosofica e sociologica del dopoguerra. Le riflessioni sulla finitudine nella analitica esistenziale di Heidegger confluite poi nella riflessione sulla tecnica, la filosofia del rischio di Ullrich Beck, le riflessioni sulla atomica di Günther Anders, l’ecologia integrale di Arne Naes, la recentissima riflessione eco-ontologica di Thimoty Morton e Donna Haraway, l’esistenzialismo analitico di Thimoty Benatar, sembrano attraverso percorsi teorici diversi aver riportato il Sein-zum-Tode al centro della riflessione filosofica.

Morte che si dà oggi essenzialmente nella forma della catastrofe ecologica come fase storico-destinale del progresso occidentale, cortocircuito dialettico della civiltà prometeico-faustiana, che per la prima volta sembra inverare materialmente la finis historiae da un lato, dall’altro la fine del vivente, sotto forma della sesta estinzione di massa e della conseguente perdita della biodiversità[3]. Nella catastrofe il fare i conti con la morte, declinata dal punto di vista individuale, non basta più, bisogna fare i conti con una nuova prospettiva collettiva ed ecologico-planetaria, come testimoniano anche le agende politiche e l’orizzonte valoriale delle nuove generazioni. Ma se così stanno le cose, la riflessione aperta dalla catastrofe su morte e finitudine pare poter mostrare una via verso una logica della coesistenza non più antropocentrica, verso una ontologia orizzontale che consideri l’umano e il non umano, per una possibile via d’uscita dalla catastrofe imminente. Solo una profonda riflessione “catastrofista” sul nichilismo in quanto possibilità materiale di inveramento del nulla, può riconsegnarci alla nostra intrinseca finitudine e fragilità condivise con gli altri viventi di questo pianeta come sosteneva Bichat, in funzione di una comunità basata sulla vulnerabilità dei corpi in senso ecologico.

 

  1. Morte e finitudine nell’epoca dell’Antropocene

La recente pandemia globale ha prepotentemente riportato la morte al centro del dibattito pubblico. La spasmodica attesa per una soluzione medica, e quindi tecnica, alla pandemia come i vaccini, e l’attenzione e il dibattito su dispositivi di tipo politico-sanitari, volti a salvaguardare la salute generale e controllare i contagi, dimostra come da un lato la politica, dall’altro l’opinione pubblica, abbiano esplicitamente elevato il tema della vita, e quindi della morte in quanto suo negativo, in cima alla propria agenda. Tuttavia, l’attuale pandemia sembra essere solo un primo superficiale sintomo di un pericolo imminente ancor maggiore, di un evento in grado di inverare materialmente la finis historiae come fine dell’uomo e dello spirito: la catastrofe climatica e ecologica. Catastrofe ecologica che condensa le ansie millenaristiche della nostra epoca contemporanea, nel cui nome si convocano conferenze internazionali come la COP 25 e si siglano accordi, a dirla tutta al quanto evanescenti, tra le potenze mondiali, similmente a quanto era avvenuto nel secolo scorso con la minaccia atomica. Pandemia globale, catastrofe ecologica, rischio atomico, sono eventi o per usare un termine in voga nel dibattito filosofico attuale «iperoggetti»[4], che, come la Peste nel ’300, fanno emergere il carattere sostanzialmente transeunte, fortuito e non necessario della vita, che, infinitesima eccezione e frazione dell’inorganico, sembra oggi, in un mondo dedivinizzato senza più un Dio in grado di mantenere e garantire la permanenza e fondatezza dell’ente, sotto attacco.

Se, tuttavia, il rischio atomico per caratteristiche specifiche e potenziale distruttivo era minaccia dell’inveramento categorico della distruzione totale di ogni cosa, la crisi ecologica, nella sua duplice declinazione di climate change e global warming segnerebbe specificamente la fine, tra le altre, di una specie in particolare: quella umana. Alla acme della sua palingenesi tecnica, che gli ha permesso di elevarsi al di sopra delle altre creature e di plasmare la natura, l’uomo rischia di scoprirsi il primo animale in grado di inverare da solo, senza un evento catastrofico unicamente naturale, la propria fine. Palingenesi che ha come sua radice e fondamento quel prometeismo tecnologico della civiltà occidentale che ha costituito l’oggettivazione più propria della sua volontà di vita e di dominio[5].

Morte e vita sono quindi reciprocamente immorsate nel progetto proprio della umanità, di questo vi è traccia in pressoché ogni mitologia e teogonia originaria, così come nel germe del primo pensiero filosofico, in quanto esse rimandano sempre alla dimensione fondamentale dell’uomo e dell’ente individuato in generale, la sua finitudine, la sua limitatezza nello spazio e nel tempo. Finitudine, di cui l’uomo unico tra tutti i viventi è conscio, che è condizione fondamentale dell’ente nel suo legame duplice all’essere e al tempo, come il pensiero originario della filosofia nel suo incipit fondamentale nel Detto di Anassimandro aveva preconizzato. In quella prima originaria testimonianza, riportata da Simplicio nel commentario alla Fisica di Aristotele, gli esseri (panta ta onta) individuati e limitati pagano vicendevolmente l’un l’altro la pena e l’ammenda secondo l’ordine del tempo, ossia pagano il loro stesso essere individuati, il limite che li rende finiti, e, in quanto tali, diversi dallo apeiron, il loro fondamento[6]. Che l’ente sia un che di finito, e in quanto tale risultato di una generazione e passibile di rovina e corruzione (phtora), costituisce il suo principium individuationis; la finitezza e quindi l’implicita possibilità del “non più” e “non ancora” è ciò che accomuna tutto l’ente, l’uomo e qualsiasi altra cosa nel mondo. Ogni cosa è, come tale, trionfo sul nulla, trionfo che però come una vittoria di Pirro è solo momentanea, un battito di ciglio nella prospettiva di una storia cosmica, che brucia e consuma ogni individuazione.

In questo senso, se il pensiero della catastrofe è essenzialmente una declinazione del pensiero della limitatezza e fragilità dell’esistenza, essa è sin dall’inizio nell’orizzonte di pensiero della filosofia se è vero che essa è originariamente pensiero dell’essere e del nulla, della nascita e della generazione, della relazione tra finitudine e in-finito, della genesi e della corruzione, della temporalità e storicità del mondo e dell’ente. Filosofia è elaborazione concettuale della finitudine a partire dalla sfera dell’uomo, ossia di quell’ente che da un lato sa di essere finito, e, proprio per questo tende a proiettare la sua finitudine al di là di sé stessa nei grandi contenitori ontologici regionali, Dio, l’anima e il mondo[7].

La corrente filosofica contemporanea che più pervicacemente ha provato a pensare dal punto di vista ontologico la relazione tra finitudine e storicità come fondazione e principio di individuazione dell’esistenza è la fenomenologia. La riflessione fenomenologica del secolo scorso, nei suoi maggiori rappresentanti ed epigoni anche di estrazione “esistenzialista”, ha costituito il tentativo più radicale di elaborazione ontologica della finitudine umana[8]. Tema di questo intervento è vedere in che modo la riflessione fenomenologica di matrice heideggeriana sulla finitudine possa essere applicata al pensiero della catastrofe nell’epoca dell’Antropocene. Mi riferirò in questo contesto, più che alla riflessione heideggeriana sulla tecnica, oramai paradigma interpretativo acclarato in sede di filosofia della tecnica, alle analisi dell’analitica esistenziale di Essere e Tempo. Sia detto qui in via del tutto programmatica, il tentativo è in direzione uguale e contraria rispetto a quello di Hannah Arendt, laddove in Vita activa individuava nella natalità come opposizione alla morte la prospettiva di ogni novità e il fondamento della azione politica[9], qui si sosterrà che risieda nell’essere mortale, e nella prospettiva dell’annullamento totale della specie umana la possibilità di una via d’uscita e di una azione politica nell’epoca della catastrofe.

Questo per due motivi principali, un primo è di carattere ontologico: è la prospettiva del non più a delimitare il carattere di non necessità dell’essente; un secondo è di tipo storico-critico: la attuale crisi climatica rappresenta l’epifenomeno più eminente del rovesciamento dialettico della civiltà prometeica occidentale, che ha visto la sua più completa affermazione e teorizzazione nella filosofia del Positivismo e in una certa filosofia della storia, la filosofia heideggeriana, così quella di Husserl, nasce proprio come reazione al positivismo e a un certo scientismo dogmatico, con l’obiettivo di comprendere l’esistenza da un lato nella sua fatticità e interezza, dall’altro nel sua storicità. Secondo questa impostazione, la crisi del pensiero occidentale è la crisi della metafisica occidentale, e il nichilismo sarebbe un fenomeno interno al pensiero già inscritto potenzialmente nel suo primo cominciamento greco. Seguendo tale impostazione, la crisi climatica come espressione dell’epoca della tecnica dispiegata sarebbe effetto delle modalità con cui l’esistenza dell’Esserci si è storicamente espressa, sia dal punto di vista del suo inserimento in una tradizione, greca, cristiana e moderna, sia nel radicamento sempre situato emotivamente nel complesso di relazioni mondane (mit-Welt), con gli altri (mit-Sein), e con se stessa. L’Esserci[10], il cui essere è nella temporalità, si progetta incessantemente e nel farlo si scopre sempre gettato già all’interno di un mondo naturale, sociale e storico già strutturato di relazioni, finito nel suo essere ad-veniente, e in una relazione di Cura verso gli oggetti, l’altro e sé stesso. Vedremo come proprio nella nozione di cura si annida la possibilità di una etica ecologica. Come i concetti di cura e storicità reagiscano e siano indirizzati dalla prospettiva del climate change sarà discusso in seguito.

Occorre, a questo punto, fare un breve ma sommario excursus introduttivo riguardo alla questione del cambiamento climatico, e della sua portata catastrofica alla luce del suo radicamento nella storia dell’Occidente.

 

  1. Quattro tesi sull’origine del climate change

In un recente e importante studio The climate of history in a planetary age[11] lo storico Dipesh Chakrabarty, in una maniera non troppo dissimile dalle analisi di Heidegger sulla tecnica, ha tracciato una generale ricognizione del problema del climate change come un epifenomeno del sapere filosofico e metafisico occidentale. In generale, ciò che accomuna i due autori è leggere la storia a partire da una serie di svolte all’interno della storia del pensiero. La tesi fondamentale dello storico sostiene che l’umanità deve considerarsi storicamente secondo due prospettive: la planetaria e la globale. Secondo tale impostazione, il globo (globe) sarebbe una costruzione antropocentrica, mentre la prospettiva planetaria ricollocherebbe l’uomo all’interno di una storia omnicomprensiva (biologica, geologica, climatica) decentrando il fenomeno umano e la sua storia culturale, economica e spirituale. Tradotto in termini fenomenologici la storia non sarebbe semplicemente storia dell’Esserci, ma l’essere si rivelerebbe come evento in una molteplicità di determinazioni, in maniera non troppo dissimile a sosteneva il filosofo tedesco negli scritti successivi alla Kehre.

Chakrabarty enuncia quattro tesi fondamentali per collocare il fenomeno del climate change all’interno di una storia non semplicemente globale, ma planetaria, e lo fa discutendo alcuni luoghi comuni della tradizione filosofico-metafisica occidentale inerentemente all’idea di storia.

Eccole di seguito:

  • La spiegazione antropogenica del climate change segna il collasso della distinzione umanistica tra storia umana e storia naturale.
  • L’idea di Antropocene, la nuova epoca geologica in cui l’uomo esiste come forza geologica, qualifica gravemente la storia umanistica di modernità e globalizzazione.
  • L’ipotesi geologica dell’Antropocene richiede di mettere in dialogo la storia del capitale con la storia della specie umana.
  • L’incrocio tra storia della specie e storia del capitale è un processo che prova i limiti del comprendere storico[12].

 

In questo frangente esamineremo solamente la prima e la quarta tesi, perché più funzionali allo scopo del presente contributo. Come è noto, la tradizione filosofica che va Vico al materialismo, con le sole eccezioni forse di Spinoza e Hegel, ha considerato la storicità come una caratteristica spirituale essenzialmente umana, distinta dalla storia naturale. Lo storico indiano ascrive l’origine di tale posizione alle teorie di Hobbes e Vico secondo cui l’uomo può avere conoscenza solo delle istituzioni civili e politiche, poiché la natura rimane l’ambito della creazione e solo Dio può averne una conoscenza precisa. Occorre tuttavia porre una serie di rilievi a questo assunto, poiché da un lato, come ci testimoniano gli studi di Karl Löwith la filosofia della storia, e quindi una netta distinzione tra storia umana e storia naturale nasce con la filosofia cristiana e in particolare con Gioacchino da Fiore[13], dall’altro Descartes, il filosofo che da inizio alla modernità ritiene la natura, proprio in quanto res extensa distinta dalla res cogitans, conoscibile nel suo meccanismo in maniera chiara e distinta. L’influenza vichiana, emendata da quella di Hegel, vede in Croce[14] il suo maggiore interprete in epoca post-coloniale. Secondo la tradizione idealista, infatti, la natura non ha interiorità, è il puro spirito oggettivo, per cui tutto ciò che è natura e anche animalità è intrinsecamente non-storico ma naturale. Da ciò deriverebbe l’immensa problematica della distinzione tra natura e cultura, i cui caratteri non possiamo richiamare in questa sede[15] vista la complessità del tema. Nel saggio del 1893 La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte[16], il filosofo napoletano afferma che i concetti delle scienze naturali sono costrutti speculativi per scopi umani, che non toccano mai lo “in sé” delle cose, ma che anzi questo in sé sarebbe null’altro che la sussunzione dell’oggetto naturale nel concetto. Similmente a quanto, da prospettiva e tradizione completamente diversa, Quentin Meillasoux sottolinea nel suo scritto Dopo la finitudine. Saggio sulla necessità della contingenza[17], questo tipo di idealismo sarebbe una declinazione del correlativismo secondo cui nessun oggetto esisterebbe in sé ma sempre in riferimento all’intelletto che lo pensa/dice, dal momento che le stesse categorie di sostanza e esistenza non sarebbero altro che categorie dell’intelletto umano, o, in una prospettiva idealista, momenti dello spirito. La natura, come è pensata da questa impostazione è l’insieme dei fenomeni conoscibili scientificamente dall’intelletto il che non dice nulla del mondo in sé. E è radicalmente distinta dalla storia, che si occupa del particolare e del concreto.

Nel XX secolo, continua Chakrabarty alla visione Vichiana e idealistica, si è affiancata la riflessione sociologico materialista che, pur considerando come testimonia il Marx dei Manoscritti economico filosofici del 1844 il profondo centramento dell’uomo all’interno della natura[18], essa rimane pur sempre quel fondo su cui il lavoro dell’operaio si applica. L’operaio non può produrre nulla senza la natura, senza il mondo esterno sensibile. Questa è la materia su cui si realizza il suo lavoro, su cui il lavoro agisce, dal quale e per mezzo del quale esso produce. Il lavoro, nella sua opera di modificazione della natura è ciò che distingue l’uomo dall’animale, si può dire che in quest’ottica la storia inizia nel momento in cui l’uomo inizia a trasformare la natura. Il modo di essere naturale dell’uomo è nella trasformazione e dominio della natura.

A tal proposito ancora più esplicito è il testo di Stalin Materialismo dialettico e materialismo storico in cui il leader sovietico sottolinea come l’ambiente geografico sia una condizione indispensabile per lo sviluppo delle società umane; tuttavia, tale influenza non è determinante perché i mutamenti di tipo sociale e tecnologico procedono a un ritmo incomparabilmente maggiore[19]. Ancora negli anni ’40 del secolo scorso è evidente come il cambiamento climatico, o l’azione di modificazione geologico-geografica che l’uomo poteva imprimere sul pianeta non erano percepiti come tali, al punto che Stalin argomenta come negli ultimi 3000 anni al cambiare di circa tre diversi sistemi sociali e di produzione, le condizioni geografiche dell’Europa non sono affatto cambiate. Oggi sappiamo che non è così. Stalin appartiene ancora a quella tradizione che vede una separazione tra mutamenti socioculturali e tecnologici e mutamenti ambientali (a ciò andrebbero inclusi anche i mutamente evolutivi), e quindi ancora tra storia umana e storia naturale come appartenenti a due tempi cronologici diversi. Fernand Braudel fu il primo storico illuminato a considerare la natura come qualcosa di più di un mero sfondo dell’azione umana[20]. In questa impostazione, l’ambiente ha una presenza attiva nelle azioni umane. Alla fine del XX secolo, sulla scia della relazione tra storia umana e naturale inaugurata da Braudel, gli storici ambientali hanno iniziato a partorire quella che possiamo definire la storia naturale dell’uomo. Questo nuovo ambito di ricerca considera l’uomo da una prospettiva ecologica e come “attore biologico[21]. Non è solo la cultura, ma anche la storia della biologia a dover essere messa in relazione con la storia ambientale, nella fattispecie nuovi approcci hanno indagato le relazioni intercorrenti tra la storia del cervello umano e la storia culturale[22]. L’uomo è, pertanto, agente biologico sia dalla prospettiva individuale che collettiva[23] e la sua stessa biologia non può essere separata dalla dimensione storica del suo divenire. Questo è ancor più vero nella nostra contemporaneità. L’epoca attuale è segnata dalla obliterazione della distinzione tra storia naturale e storia umana, dal momento che l’uomo ha assunto un tale potere di azione sul pianeta da diventare un agente biologico capace di modificare il clima e la struttura stessa del pianeta, assumendo un potere che, in epoche passate, era assegnato a forze geologiche come cataclismi e ere glaciali. Da questo punto di vista, egli è autenticamente il “formatore di mondo” che Heidegger annunciava nel suo corso I concetti fondamentali della metafisica. Se si pensa che oggi, nell’epoca nella sesta estinzione di massa, la sparizione di specie avviene a un ritmo simile a quella del tardo Cretaceo, si comprende quale impatto l’uomo abbia sul pianeta e sul suo rimodulamento[24]. Naturalmente non è stato sempre così, l’impatto planetario dell’impronta ecologica umana è iniziato con la Rivoluzione Industriale ed è per questo che la distinzione tra storia umana e storia naturale ha iniziato a collassare, qui non si tratta più della semplice interazione tra uomo e natura, ma della potenza umana come potenza geologica.

Come è noto, tale periodizzazione, che fa risalire l’inizio dell’Antropocene al 1784, con una radicale intensificazione nel secondo dopoguerra[25] è stata proposta da Crutzen in uno studio comparso su Nature nel 2002[26] e poi accettata dalla GSA (Geological Society of America) con una dichiarazione firmata dai membri della Stratigraphy Commission of the Geological Society of London[27]. Come sosteneva tra gli altri Günther Anders, le epoche della tecnica non sono reversibili, per questa ragione l’uomo rimarrà un agente geologico per ancora molti anni a venire, per questo, come sostiene lo stesso Crutzen, sviluppare strategie globali per mitigare l’impatto umano e per preservare la sostenibilità degli ecosistemi dalla azione invasiva dell’uomo è il compito per ogni umanità futura che voglia in qualche modo continuare a esistere su questo pianeta, a avere una storia.

Questa nuova concezione di storia ci porta a considerare una rinaturalizzazione della specie umana come una specie tra le specie. L’immorsatura tra storia universale e storia della specie porta Chakrabarty a teorizzare una «Storia universale negativa»[28]. Il concetto di specie è un «universale negativo», che non può avere alcun contenuto determinato. Lo storico indiano sembrerebbe qui fare riferimento alla critica kantiana all’estensione dell’idea di totalità nel concetto dell’intelletto, affermando che un che di universale come la specie non ha mai un’intuizione sensibile corrispondente; noi non intuiamo mai la specie come intero, ma sempre come particolare, intuiamo la specie umana ora come questo uomo, ora come quest’altro. Ma quando si parla di crisi climatica, come possibilità di nullificazione delle specie e si cercano soluzioni che tengano in conto le esigenze di varie specie di viventi, nel progettare una nuova modalità di coesistenza, il concetto di specie, o come vedremo dopo il destino, seppur nella sua indeterminatezza lavora come idea regolativa. Inoltre, il concetto stesso di climate change per la vastità delle sue cause, effetti e implicazioni resta in qualche modo indeterminato.

il cambiamento climatico, pensato attraverso il lavoro dei climatologi, ci mostra l’effetto delle nostre azioni come specie. Specie potrebbe essere il nome o il simbolo per una nuova ed emergente storia universale che appare nel momento del pericolo costituito dal cambiamento climatico. Ma non potremo mai comprendere questo universale. Non si tratta infatti di un universale hegeliano che sorge dialetticamente dal movimento storico. Il cambiamento climatico ci pone una domanda sulla collettività umana, mirando a una figura dell’universale che eccede la nostra capacità di esperire il mondo. Sembra piuttosto un universale che emerge da un condiviso senso di catastrofe. Potremmo chiamarlo provvisoriamente «storia universale negativa»[29].

 

Su questa lunghezza d’onda si colloca anche il tentativo di Timothy Morton di definire tale categoria di eventi come «Iperoggetti» nella cui genesi concettuale forte è l’influenza della fenomenologia[30]. Tale storia universale negativa è un concetto di derivazione adorniana, in cui il particolare esercita la sua resistenza all’essere imbrigliato nella totalità, tuttavia, essendo sin dall’inizio già imbrigliato in quella totalità. L’Antropocene ci imporrebbe quindi vie alternative di pensare una nuova storia universale che coinvolga forze planetarie, specie e scale temporali che non possono in alcun modo essere oggetto di esperienza diretta. Una tale storia non può mai essere antropocentrica, quindi umanistica, riguardante l’uomo solamente, ma partirebbe da una posizione decentrata. La nostra coscienza epocale passa per questa presa di coscienza, che è sempre, per tornare al tema del nostro contributo coscienza di una finitudine e decentramento originario.

L’idea di storia Heideggeriana come storia di una sottrazione (Verbergung) dell’essere e del senso, e attesa di un evento salvifico che in qualche modo riscatti e inauguri un nuovo corso della storia dell’essere, ci sembra poter rientrare senza troppe forzature all’interno di tale paradigma. Se si pensa di fatti che l’essere è storicamente dato anche, originariamente come physis[31], allora il pensiero del decentramento dell’esserci nei confronti dell’essere, di cui è pastore, che si dà innanzitutto come meditazione e critica della tecnica come fase culminale della metafisica, può offrirci delle categorie utili per pensare l’Antropocene e il nostro essere radicati/situati storicamente in esso

 

  1. Storicità, Finitudine, e Cura alla prova del climate change

Come si concilia l’armamentario concettuale heideggeriano, in particolare la riflessione su morte, finitudine e storicità con la riflessione sulla catastrofe e sull’Antropocene?

Come è noto, la riflessione sulla storicità interessa il pensiero heideggeriano sin dagli esordi. La storia per Heidegger, e in questo in polemica con l’esistenzialismo di Sartre per cui esistono solo uomini, è essenzialmente evento e storia dell’essere[32], è un evento destinale.

Ora la cosa più rilevante della riflessione heideggeriana matura sulla storia è che essa, in quanto oblio dell’essere, non è un fatto che dipenda primariamente da un comportamento dell’uomo, ma risultato di un oblio, di una sottrazione dell’essere e del senso. In questo ci sembra, in un certo senso, avvicinabile all’idea di storia universale negativa esposta nel paragrafo precedente.

L’Antropocene è una fase destinale della storia umana e del pensiero metafisico occidentale, non è pensabile se non sulla scorta di una determinata visione del mondo tecno-scientifica che, come lo stesso Heidegger sottolineava nel Nietzsche, è una conseguenza della grande svolta, operata dalla filosofia platonica, di concepire la conoscenza come via (meth-odos), e successivamente della metafisica della soggettività cartesiana[33]. I modi in cui questo darsi dell’essere avviene, ovvero la sua storia, non dipendono da una decisione di un ente specifico, ma sono risolti nella sua stessa dinamica. Tradotto, la crisi ambientale, non dipende dall’operato del singolo uomo, ma dagli atti quantitativamente e qualitativamente inconcettualizzabili della specie umana nella sua relazione con il mondo. L’essere non è quindi una cosa semplicemente presente, ma relazione in cui da sempre è implicato l’esserci e la sua storia. Ogni parlare e agire umano sono nell’essere e pertanto, non appartengono alla Historie ovvero la storia degli enti, ma alla Ge-schichte e più radicalmente alla Seinsgeschicthe[34] come autentica temporalità.

In Essere e Tempo è già presente un’analisi della storia come derivato della temporalità autentica[35].

È nell’analitica esistenziale, che, a nostro parere, come riflessione sulla morte, che è possibile trovare una possibilità di interpretazione dell’esistenza nell’epoca nella catastrofe, come epoca in cui la possibilità della morte si realizza concretamente. Come è noto, nell’opera l’esistenza diventa autentica tramite l’essere per la morte che si esplica nella decisione anticipatrice, che assume la morte come possibilità e determinazione più autentica dell’Esserci[36]. La cosa interessante per la nostra trattazione è che in tale temporalità autentica è rovesciato il rapporto tra i momenti del tempo: è l’essere ad-veniente dell’Esserci, ossia l’essere proiettato in futuro in cui non sarà più – proprio come nel caso del discorso su catastrofe e climate change – che fonda la possibilità della decisione, che dischiude la prospettiva dell’esser stato da sempre gettato in un mondo e in una serie di relazioni. La prospettiva della morte induce in un certo senso alla decisione, e alla autenticità. Il diverso carattere dell’ordine del tempo, che non è più cronologico, dipende dalla decisione anticipatrice: la decisione anticipa la morte che è futura e ineluttabile, ma che proprio in quanto possibilità autentica nella sua ineluttabilità è sempre riferita a un passato come esser sempre già stati, in quanto nati, destinati a morire, ed è a un tempo sempre presente. Progettarsi, nel suo carattere ad-veniente, è già sempre concepirsi come finiti e morenti, cioè a partire dal proprio passato storico, inteso come Ge-schichte, come destino, il che vuol dire sempre concepire l’uomo come portatore di una originaria “colpa ecologica” implicita in ogni suo progetto.

Ora tale determinazione può a prima vista sembrare uno storicismo deterministico, ma a ben vedere se si considera l’evento dell’essere come eschaton, ossia come determinazione di una temporalità autentica, il rapporto con la storia non assume più i crismi di un determinismo di tipo hegeliano, o di una assunzione fatalistica del passato che è sempre stato indipendentemente dalla mia decisione.

Se la decisione anticipatrice viene concepita non come un fatto soggettivo, ma come evento all’interno dell’essere la cui struttura è essa stessa la temporalità autentica, per cui la rottura della serialità temporale non è una decisione del singolo, ma è il modo stesso di darsi orizzontalmente dell’essere, allora il determinismo decade. La storia, in quanto radicata nella ontologia, non è mai un semplice esser passato (Vergangen), quanto piuttosto un esser stato (Gewesen), il cui dispiegamento è sempre a-venire. Il principio non sprofonda mai nell’ombra della sua principialità, ma è un qualcosa che agisce incessantemente nel corso della storia come Geschick. Come sottolinea Vattimo a proposito del concetto heideggeriano di storia:

Carattere escatologico dell’essere non significa altro che questo: i rapporti temporali vanno pensati unicamente a partire dal Geschick dell’essere, quindi non ordinati anzitutto in serie secondo il prima e il dopo, ma a partire dalla loro unità originaria. Escatologico è anzitutto l’essere, ma anche le singole epoche storiche come epoche dell’essere: nel saggio su Anassimandro pare si debba vedere lo eschaton dell’epoca soprattutto come una fine; ma l’escatologia dell’essere, proprio per questo, indica anche sempre una nuova apertura: «La storia dell’essere non è mai passata (vergangen), ma sempre imminente»[37].

 

È già evidente come questa impostazione possa essere applicata al problema della catastrofe ambientale, come epifenomeno dell’Antropocene come epoca geo-storica in cui è obliterata la differenza tra storia naturale e storia umana. La prospettiva della catastrofe, come morte di tutte le cose, sarebbe da pensare come evento destinale dell’essere già potenzialmente iscritto in quell’originario, che però non è come intendeva Heidegger semplicemente l’origine della metafisica, ma la dimensione antropologica fondamentale che insiste da quando l’uomo ha probabilmente scheggiato la prima pietra. Antropocene è evento escatologico che lega a un filo il destino dell’uomo a partire dalla sua ontogenesi, che è sempre una tecnogenesi, e il destino dell’ente nella totalità in quella duplicità semantica greco-parmenidea di essente e esistente[38].

Ciò invertirebbe l’interpretazione quotidiana di fenomeni quali il climate change e il global warming e più in generale della crisi ecologica come un qualcosa di provocato unilateralmente dall’uomo nel suo operare. Non è l’operare del singolo uomo a aver scatenato la catastrofe, ma la storia stessa dell’umanità, o più radicalmente la storia stessa concepita come a un tempo umana e naturale. Stante tale decentramento antropologico, la catastrofe climatica, al pari di una sua possibile e futuribile soluzione, sarebbe una deriva storico-naturale iscritta nella nostra storia e destino comune di specie, dettata dal nostro modo di essere situati nel mondo e in relazione al mondo, che è sempre in prima istanza un avere a che fare sempre situato con l’altro e con l’utilizzabile.

Ciò considerato da una prospettiva storico epocale, tuttavia, gli spunti più interessanti per il problema della catastrofe, sembrano essere inseriti all’interno di Essere e tempo e nel nesso indissolubile tra morte e storicità:

La tesi della storicità dell’Esserci non afferma che la storicità è propria di un soggetto senza mondo, ma dell’ente che esiste come essere-nel-mondo. L’accadere della storia è l’accadere dell’essere-nel-mondo[39].

 

La storia dell’esserci sarebbe, pertanto, storia del mondo. Quando Heidegger sostiene che «con l’esistenza dell’essere-nel-mondo storico, l’utilizzabile e la semplice presenza sono già sempre coinvolti nella storia del mondo»[40], intende che le cose, oltre che l’uomo hanno un loro destino. Ma destino è anche e soprattutto destino comune. Esso accomuna gli uomini nel loro decidersi autentico per la morte, in cui essi si comprendono come progetto finito e libero. Destino sembrerebbe quindi unione, nella relazione, di umano e non umano. Destino che si apre con un atto fondamentale, appunto la decisione anticipatrice per la propria morte. L’atto con cui l’Esserci nell’esperire la sua finitudine ritorna a se stesso, è un tramandarsi di possibilità ricevute in eredità sebbene non esperite in quanto ricevute.

In quanto aperto in un mondo l’uomo sarebbe quindi aperto al caso e alla necessità, alla gioia e al dolore, alla sopravvivenza e alla nullificazione. Ma l’Esserci ha un destino se e solo se ha già anticipato la morte:

la erige a padrona di sé, allora libero per essa si comprende nella ultrapotenza della sua libertà finita e in quest’ultima, che consiste sempre soltanto nell’aver scelto la scelta, può assumere su di sé l’impotenza dell’abbandono a se stesso e venire in chiaro delle circostanze della situazione aperta[41].

 

Ecco che l’epoca della catastrofe, se con essa intendiamo l’anticipazione della fine di tutte le cose e quindi non solo della nostra morte in quanto singoli, ma in quanto specie tra altre specie ugualmente in pericolo, ci apre a una nuova autenticità che si mostra nel destino comune “generazionale” di una fine, che non è mai somma di singoli destini. Tali destini si rendono liberi nella comunicazione e nella lotta, e nella loro comunione generazionale costituiscono l’accadere pieno della libertà dell’Esserci. È perché noi siamo consci della nostra finitudine, e quindi della nostra libertà, che possiamo reagire come comunità autentica, che si trova a fare i conti con la catastrofe, nell’assunzione della nostra destinalità e finitudine. Di fatti, la morte ci dice qualcosa della nostra possibilità più estrema ma nulla delle possibilità intermedie che costituiscono l’autentico portato dell’azione aperta dalla decisione anticipatrice, che apre all’esserci il suo poter essere un tutto autentico[42]. Nell’essere insieme in un medesimo mondo, i nostri destini sono già da sempre segnati reciprocamente e anticipatamente. Ma il destino impone sempre per condizione ontologica della sua possibilità la costituzione d’essere della Cura, ossia la temporalità. È solo nella coabitazione in un ente di morte, coscienza, libertà e finitudine nella Cura che si può avere destino. Da qui l’essere-per-la-morte autentico risulta quindi il fondamento della storicità dell’Esserci. È perché siamo finiti che possiamo progettarci quindi come ad-venienti, come volenti avere un futuro ed è forse in questo voler avere un futuro che si annida la possibilità, che è più che altro la speranza se non della cancellazione, ma della procrastinazione della catastrofe come fine della storia e fine dell’uomo. Il destino è la posta in gioco di ogni decisione e il destino comune, carico di destino individuale, può essere dischiuso nella eredità ricevuta dalle umanità precedenti, eredità che si configura da un lato come colpa ecologica originaria, dall’altra come tutela e affidamento del mondo per noi e per le prossime generazioni. Il nostro esserci storico, nella Cura che è sempre Fürsorgen – avere cura dell’altro – Besorgen –avere cura delle cose – ci riconsegnerebbe quindi a un rapporto più autentico con il mondo e le cose, siano esse enti tecnici o naturali, rapporto che è sempre un custodire e preservare. È forse proprio in questa fondamentale relazione alla morte e quindi alla gratuità e non necessità dell’uomo, del mondo e delle cose che si annida la necessità di preservare l’essente (e l’umanità) dalla catastrofe. Ma bisogna fare attenzione, ed Heidegger ci mette in guardia[43], in quanto la morte, e con essa la catastrofe climatica, consegnata alla chiacchiera ossia agli stati interpretativi pubblici, si presenta in una immagine distorta e depotenziata e in un certo senso pre-incorporata all’interno dell’attuale orizzonte di pensiero, ora come tema dell’industria dell’intrattenimento (cinema, fiction, et similia) oppure come pretesto per una politica economica verde sotto il vessillo della sostenibilità che, de facto, costituisce solo l’ultimo cambio di pelle del sistema economico capitalistico globale (il famoso green washing). Occorre quindi una riflessione autentica sulla catastrofe come possibilità autentica dell’inveramento della nullificazione dell’esistente.

È l’uomo nella sua esistenza autentica, in quanto è probabilmente l’unico ente che è conscio di questa non gratuità e caducità dell’esistente, a dover compiere quest’opera di salvaguardia; essa non è, si badi, salvaguardia dell’essere come diceva Heidegger, ma è sempre e innanzitutto salvaguardia dell’essente, del mondo e della vita, nella sua biodiversità e plurivocità di forme. In quanto vita è l'insieme delle funzioni che resistono alla morte.

 

[1] E. Fink, I fenomeni fondamentali dell’esistenza umana (1979), tr. it. ETS Edizioni, Pisa 2006, p. 157

[2] Cfr. M. Carbone, L'evento dell'11 settembre 2001. Quando iniziò il XXI secolo, Mimesis, Milano-Udine 2021.

[3] Cfr. a tal proposito G. Chelazzi, L’impronta originaria. Storia naturale della colpa ecologica, Einaudi, Milano 2013.

[4] Cfr. T. Morton, Iperoggeti (2013), tr. it. Produzioni Nero, Roma 2018.

[5] Su questi temi vedi anche M. Magatti, Oltre l’infinito. Storia della potenza dal sacro alla tecnica, Feltrinelli, Milano 2018.

[6] Cfr. H. Dielzs, W. Kranz, I presocratici (1969), tr. it. Bompiani, Milano 2006.

[7] Come è noto, ciò è tato ampiamente discusso da Kant nella Dialettica trascendentale de La critica della Ragion Pura (1781), tr. it. Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 296 ss.

[8] F.W. Von Herrmann, Heidegger e i problemi fondamentali della fenomenologia (1991), tr. it. Levante Editore, Bari 1993.

[9] Cfr. H. Arendt, Vita activa (1958), tr. it. Bompiani, Milano 2017.

[10] In questo testo, forzando e parzialmente banalizzando la riflessione heideggeriana, userò in maniera quasi sinonimica il termine uomo e Esserci.

[11] D. Chakrabarty, The climate of history in a planetary age, The University of Chicago Press, Chicago 2021.

[12] Ibid., p. 25 ss.

[13] A tal proposito si rimanda a K. Löwith, Significato e fine della storia (1977), tr. it. Il Saggiatore, Milano 2004.

[14] D. Chakrabarty, op. cit., p.26.

[15] A tal proposito ci sentiamo di suggerire il volume di Philippe Descola, Oltre natura e cultura (2005), Raffaello Cortina Editore, Milano 2021.

[16] B. Croce, La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte (1893), Adelphi, Milano 2017.

[17] Cfr. Q. Meillasoux, Dopo la finitudine. Saggio sulla necessità della contingenza (2006), tr. it. Mimesis, Milano-Udine 2012.

[18] «Le piante, gli animali, le pietre, l’aria, la luce, eccetera costituiscono una parte della vita umana e dell’umana attività. La natura è il corpo inorganico dell’uomo […]. Che l’uomo viva della natura vuol dire che la natura è il suo corpo, con cui deve stare in costante rapporto per non morire […] l’uomo e una parte della natura» (K. Mark, Manoscritti Economico Filosofici del 1844 (1949), tr. it. Einaudi, Milano 1968, pp. 76-77).

[19] D. Chakrabarty, op. cit., p. 28.

[20] Cfr. F. Braudel, The Mediterranean and the Mediterranean World in the Age of Philip II, Collins, Londra 1972, pp. 1-20.

[21] A tal Proposito Chakrabarty cita il testo pionieristico dei primi anni ’70 di Alfred Cosby Jr. The Columbian exchange in di cui riportiamo un passo «Man is a biological entity before he is a Roman Cetholic or a capitalist or anithyng else» (A.W. Cosby Jr., The Columbian exchange: Biological and Cultural Consequences of 1942, Prager, Londra 1972, p. XXV).

[22] Cfr. D.L. Smailx, On Deep History and the Brain, University of California Press, Berkley 2008.

[23] A tal proposito cfr. T. Pievani, Homo sapiens e altre catastrofi, Meltemi, Milano 20182.

[24] Cfr. J.R. McNeill, P. Engelke, La grande accelerazione. Una storia ambientale dell’Antropocene dopo 1945 (2016), tr. it. Einaudi, Milano 2018.

[25] Ibid.

[26] «For the past three centuries the effect of humans on the global environment have escalated. Because of these anthropogenic emissions of carbon dioxide, global climate may depart significantly from natural behaviour for many millennia to come. It seems appropriate to assign the term “Anthropocene” to the present […] human dominated, present geological epoch, supplementing the Holocene – the warm period of the past 10-12 millennia. The Anthropocene could be said to have started in the latter part of the eighteenth century, when analyses of air trapped in polar ice showed the beginning of growing global concentrations of carbon dioxide and methane. This date also happens to coincide with James Watt’s design of the steam engine in 1784» (Paul J. Crutzen, Geology of Mankind, in «Nature», 415, 23, p. 23).

[27] Cfr. W.F. Ruddiman, The anthropogenic Greenhouse Era Began Thousands of Years Ago, in «Climate Change», 61 (2003), 3, pp. 261-293.

[28] D. Chakrabarty, op. cit, p. 47.

[29] Ibid.

[30] Sull’influenza della fenomenologia nel pensiero di Morton cfr. T. Morton, Noi esseri ecologici (2018), tr. it. Laterza, Roma-Bari 2018.

[31] M. Heidegger, Aristotele Metafisica Θ 1-3: Sull’essenza e la realtà della forza (1981), tr. it. Mursia, Milano 2017.

[32] Cfr. Id., Lettera sull’umanismo (1976), tr. it. Adelphi, Milano 1995.

[33] Cfr. Id., Nietzsche (1996), tr. it. Adelphi, Milano 1995, pp. 651 ss.

[34] Il dualismo tra Geschichte e Historie è impostato da Heidegger a partire dalle Note sulla «Psicologia delle visioni del mondo» di Karl Jaspers e trova la sua elaborazione compiuta nelle pagine di Essere e Tempo in relazione alla discussione della Seconda inattuale di Nietzsche. Heidegger attribuisce alla Historie un significato negativo e alla seconda una considerazione positiva in un dualismo che possiamo, con Volpi, tradurre nella dicotomia tra storico e storiografico. Sfruttando l’etimologia tedesca, il filosofo di Meßkirch associa geschichte a Geschehen (accadere) e a Geschick (destino-invio). Negli anni successivi a Essere e Tempo Heidegger rafforzerà il concetto di Geschichte in quello di Seinsgeschichte di Seinsgeschick (destino dell’essere) e Seinsgeschehenis (accadimento dell’essere). Sul tema cfr. G. Vattimo, Essere, storia e linguaggio in Heidegger, Marietti, Genova 1963, p. 18 ss.

[35] Cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo (1972), tr. it. Longanesi, Milano, 2005, §§ 72-74, pp. 440-473.

[36] «L’anticipazione della possibilità estrema e più propria è il comprendente rivenire sul più proprio stato. L’esserci può autenticamente essere stato solo in quanto è adveniente. L’esser-stato [Gewesenheit] scaturisce in certo modo dall’avvenire» (ibid., p. 387).

[37] G. Vattimo, op. cit., p. 21.

[38] Per una analisi del significato a un tempo copulativo e esistenziale del verbo einai si rimanda a G. Calogero, Storia della logica antica. L’età arcaica, ETS, Pisa 2012, vol. 1.

[39] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 457.

[40] Ibid.

[41] Ibid., p. 453.

[42] Ibid., p. 451.

[43] Cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., pp. 303 ss.

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