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Pornografia della catastrofe. Morte individuale e morte collettiva nell’Antropocene

Autore


Delio Salottolo

Università degli studi di Napoli L'Orientale

Indice


1. La morte e l’origine della cultura

2. La pornografia della morte e della catastrofe

3. L’esigenza di dominio e la quiete dell’estinzione

4. Il corpo e la macchina dinanzi alla catastrofe

5. Catastrofismo da illuminare 

6. La morte, il collasso e l’impotenza

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S&F_n. 26_2021

Abstract


Pornography of Catastrophe. Individual death and collective death in the age of the Anthropocene

This article aims at analysing how a particular representation of (individual and collective) death is symptom of a particular organization of culture and symbolic representations. Starting from the reflections of Jankélévitch, Bauman and Gorer, I analyse the characteristics of what could be called “pornography of catastrophe”, i.e. the condition of human being in the Anthropocene faced with the possibility of individual and collective death. The “deconstruction of mortality” and the “deconstruction of immortality” are at the basis of this “pornographic” imaginary, as well as the all-modern and postmodern impossibility of inserting death within the symbolic exchange of our culture (the reference is to Baudrillard). Thus, the pornography of catastrophe feeds in a contradictory way on a series of elements ranging from the need for domination to the quiet of extinction, from the Promethean delirium of a certain transhumanism to the eternal mechanicism/machinism in the representation of Nature (internal and external to the human). Catastrophe is “pornographic” – individualism of the specter and impossibility of symbolic and social elaboration – also from a strictly epistemological and ontological point of view, starting from the uncertainty and indeterminacy of “natural facts” within non-linear systems, denoting a certain difficulty for human moral psychology to adapt to contradictory forms of temporality. Analysing some elements of the so-called collapsologie, death, collapse and impotence seem to be correlated with this “pornographic” attitude, so that reactivating the imagination, at this moment in sapiens' history, becomes an immediately ethical-political task.

 

Ciascuno è il primo a morire

Ionesco

  Ce qui va tuer le capitalisme, c'est la géologie

 Cochet

 

1. La morte e l’origine della cultura

Il filosofo Vladimir Jankélévitch definisce puntualmente il «carattere sconcertante e persino vertiginoso della morte» a partire da quella che rappresenta la sua contraddizione fondamentale: «da una parte un mistero che ha dimensioni metaempiriche, vale a dire infinite, o meglio che non ha affatto dimensioni; e dall’altra un evento familiare che accade nell’ambito empirico e che a volte si compie sotto i nostri occhi»[1]. Il “mistero” e l’orizzonte della morte, ragionando more philosophico, rappresentano uno dei modi – tra i più decisivi – mediante i quali si determina il posizionamento dei saperi all’interno della geografia di una cultura[2]: «la morte è il punto di tangenza del mistero metaempirico e del fenomeno naturale; il fenomeno letale è di competenza della scienza, ma il mistero soprannaturale della morte reclama i conforti della religione»[3]. Quando parliamo della morte, non possiamo fare a meno di interrogare la cultura all’interno della quale essa viene pensata (del resto, “funziona” così per tutte le espressioni naturali dell’umano, in quanto già-sempre integrate all’interno di una visione simbolica e culturale complessiva), ma è anche vero che il mistero e l’orizzonte della morte conducono a un ulteriore paradosso, perché «per me la mia morte è la fine di tutto, la fine totale e definitiva della mia esistenza personale e la fine dell’universo intero, la fine del mondo e la fine della storia»[4], ma allo stesso tempo «la mia morte per l’universo non è una catastrofe così grande, ma solo un accadimento impercettibile e una sparizione irrilevante»[5]. Questo paradosso, nella sua semplicità e nella sua (quasi) ovvietà, sembra interrogare profondamente lo spirito del tempo dell’Antropocene: se all’espressione “la mia morte” sostituiamo “la nostra morte (come specie)”, diviene ancora più angosciante sia la percezione della fine del mondo sia l’impercettibilità e l’irrilevanza dell’evento di estinzione di sapiens.

Il famoso detto di Epicuro – sia applicato a livello individuale sia ampliato a tutta la specie – non può mai essere davvero consolatorio, nonostante la sua logica ferrea, perché, come nota giustamente Zygmunt Bauman, su questo punto in linea con Vladimir Jankélévitch, la stessa esistenza della cultura è una continua contestazione di quel detto: se è vero che «la trascendenza è ciò di cui tratta la cultura quando tutto il resto è detto e fatto», e se «la cultura concerne l’allargamento dei confini temporali e spaziali dell’essere, e il suo obiettivo è smantellarli completamente»[6], diviene allora chiaro come le “prime” attività culturali si sviluppino a partire da una riflessione sulla sopravvivenza, rinviare la morte e renderla contemporaneamente qualcosa di significativo, e sull’immortalità, negare alla morte il suo significato più angosciante, vale a dire l’annullamento, la nichilizzazione[7]. La mortalità e l’immortalità diventano, nelle culture umane, vere e proprie “strategie di vita” e, nella nostra contemporaneità, ai tempi di quello che viene chiamato Antropocene, a mescolarsi e a suscitare ambiguità sono due istanze: una tutta “moderna” e che riguarda la “decostruzione della mortalità” – l’idea che si muore sempre di qualcosa e che quel qualcosa, fino a un certo punto, può e deve essere evitato mediante un’attenzione esasperata, semplificando: antropocentrismo del dominio sulla natura (“interna” ed “esterna”) e frustrazione nei confronti della morte come quell’elemento che non smette di sfuggire a questo dominio; una seconda tutta “postmoderna” e che riguarda la “decostruzione dell’immortalità” – l’idea «di trasformare la vita in una rappresentazione quotidiana irrefrenabile della “mortalità” universale delle cose e della cancellazione della distinzione tra transitorio e duraturo»[8], semplificando: narcisismo e solitudine, godimento del transitorio e negazione del futuro, elogio dell’attimo e della “scomparsa”, una certa seduzione morbosa per la catastrofe.

“Decostruzione della mortalità” e “decostruzione dell’immortalità” si incrociano perfettamente all’interno della nostra contemporaneità antropocenica, la quale vive in un vero e proprio stato di eccitazione nei confronti della catastrofe, laddove essa incrocia morte individuale e morte collettiva ed evoca una mescolanza di volontà catecontica di rinvio e di attesa messianica di realizzazione. La crisi ambientale da un lato (l’epoca dell’Antropocene) e dall’altro la crisi pandemica, sua prima espressione concreta e globale, testimoniano perfettamente quanto siano sempre in atto tali processi di decostruzione: con esplicito riferimento al noto studio di Geoffrey Gorer[9], chiameremo pornografia della catastrofe la condizione antropocenica dinanzi al mistero metaempirico ed empirico della morte individuale e collettiva.

 

2. La pornografia della morte e della catastrofe

Il breve studio di Geoffrey Gorer ha stabilito una sorta di canone interpretativo per quanto concerne l’evoluzione della percezione della morte nella contemporaneità[10]. Quella che viene definita dal sociologo inglese pornografia della morte ha a che vedere con una serie di trasformazioni nella percezione sociale di ciò che si determina come osceno e di ciò che si determina come pornografico.

Mentre «l’oscenità […] è un universale, un aspetto della vita sociale dell’uomo e della donna» in quanto «in ogni luogo e in ogni tempo esistono parole e azioni che, quando fuori posto, possono produrre turbamento, imbarazzo sociale e ilarità», la pornografia, come attività interdetta e volta alla produzione individuale di illusioni o allucinazioni, è molto più rara e in generale molto meno attestata: il motivo è che «mentre il piacere dell’oscenità è un fatto prevalentemente sociale, il piacere della pornografia è un fatto prevalentemente privato»[11]. Il primo elemento, dunque, che caratterizza il “pornografico” è la sua dimensione decisamente individuale, ed è il medesimo elemento che caratterizza la pruderie, fenomeno concomitante e speculare. Quando «un qualche aspetto dell'esperienza umana è trattato come intrinsecamente vergognoso o ripugnante, a tal punto che non è possibile discuterlo o menzionarlo in pubblico», si verifica che «l'aspetto innominabile dell’esperienza tende allora a divenire oggetto di molte fantasie private, più o meno realistiche, fantasie cariche di piacevoli sensi di colpa o di piaceri colpevoli»[12]. Se nell’età vittoriana i soggetti innominabili erano l’atto sessuale e la nascita e così si sviluppava la pornografia (mentre la morte non era soggetta a un regime di invisibilizzazione e dunque non era “pornografica”), a partire del ventesimo secolo si ha «un cambiamento di atteggiamento e di “visibilità”»[13]: le ragioni di questo cambiamento, per cui la morte diviene “invisibile” e innominabile, si troverebbe, secondo Gorer, in «una connessione tra il cambiamento di tabù e il cambiamento nelle credenze religiose» – al di là delle credenze professate in pubblico, una credenza effettiva in una vita futura post mortem è sempre più debole, per cui «la morte naturale e la decomposizione fisica sono diventati eventi troppo raccapriccianti da contemplare o discutere»[14]. La pornografia della morte funziona dunque in questo modo: la sanità pubblica e l’evoluzione della scienza e della pratica medica hanno reso la morte naturale un fenomeno quanto mai raro – si muore sempre e comunque a causa di qualcosa – e la stessa prassi ha quasi del tutto cancellato lo spettacolo della morte casalinga; «contemporaneamente, la morte violenta è cresciuta in un modo senza precedenti nella storia umana» e «mentre la morte naturale è sempre più soffocata dalla pruderie, la morte violenta ha giocato un ruolo sempre più importante nelle fantasie offerte dai mass media»[15]. L’elemento pornografico sorge dunque come surrogato della gratificazione: finché la morte non riacquisirà la sua visibilità, le immagini massmediatiche della morte e della decomposizione si moltiplicheranno e solleticheranno sempre la pruderie contemporanea. In questo senso, il secondo elemento che caratterizza il “pornografico” è dunque la sua potenzialità di condurre a una gratificazione fantasmatica di ciò che non può essere nominato ed elaborato simbolicamente e socialmente.

Lavorando sul testo di Gorer, possiamo affermare che individualismo del fantasma e impossibilità di elaborazione simbolica e sociale sono le caratteristiche del “pornografico”, ed è in questo senso che possiamo parlare, ai tempi dell’Antropocene, di una pornografia della catastrofe, all’interno della quale si mescolano, in modo perturbante, morte individuale e morte collettiva – la percezione di una catastrofe a venire, pur essendo oggi una vera e propria rappresentazione collettiva, viene vissuta individualmente e non viene elaborata simbolicamente e socialmente, pur diffondendosi nel mainstream dell’industria culturale. Nella Modernità, quanto è accaduto per il corpo individuale, oggettivato e parcellizzato dal sapere medico, è avvenuto per il corpo collettivo: se è possibile parlare di biopolitica della catastrofe[16], lo è sicuramente in questo senso “pornografico” – la pornografia della morte individuale è il rovescio concomitante della biopolitica del corpo individuale, la pornografia della catastrofe in quanto morte collettiva è il rovescio della biopolitica del corpo collettivo.

Per quanto concerne, dunque, la percezione della catastrofe ai tempi dell’Antropocene possiamo affermare che essa assuma una caratteristica di attrazione estetica (e a tratti morbosa), proprio in concomitanza di un’assenza di presa in carico sociale della sua possibilità realmente esistente: il “pornografico” della rappresentazione massmediatica si accompagna alla pruderie delle scelte economico-politiche. Se la genealogia, intesa in senso nietzschiano e foucaultiano, si dà il compito di decostruire il senso comune imposto dalla storia dei concetti, mostrando l’urgenza e l’emergenza, come scontro in una politica della verità, di una problematizzazione, possiamo affermare che l’estetica della catastrofe (estetica nel duplice senso di “percezione” e “rappresentazione artistica”) ha una sua propria genealogia, che, come nota giustamente François Walter, nasce esattamente nell’epoca dell’Illuminismo, quando diviene «un modo per donare nuovamente un senso ai fenomeni della natura sempre più disincantati dalle certezze apparenti della scienza»[17]. La catastrofe diviene nella Modernità un attrattore perché permette di “incantare” nuovamente il mondo e di inserire la natura all’interno di una dinamica di senso “significativa” per l’esperienza esistenziale umana: la natura non è qualcosa di cui semplicemente possiamo disporre, grazie all’intelligenza tecnica e tecnologica, sfondo e scenografia per l’attore umano troppo umano, ma il suo ritorno in forma di catastrofe rappresenta esattamente il “ritorno del rimosso” che preme lungo il bordo “inferiore” della coscienza. La catastrofe attrae perché mostra la potenza della natura contro ogni forma di dominio tecnocratico, la (paradossale) libertà di ciò-che-è-natura contro ciò-che-è-cultura (e, in questo senso, “normato”) e diviene così oggetto di espressione artistica, raccontando in maniera perturbante (nel gioco tra familiarità e non-familiarità) le paure di una scientifizzazione della realtà e mostrando i limiti di ogni prometeismo[18]. L’estetica della catastrofe scava nelle contraddizioni moderne della rappresentazione della natura e della sua relazione con la cultura: dal punto di vista tecnocratico del capitalismo (prima nascente e poi avanzato), la natura è “determinismo” e materiale a disposizione mentre la cultura è “finalismo” e “disegno”, libertà di espressione e dominio; contemporaneamente, la natura è libertà e manifestazione di un “incanto” estetico che trascende i limiti del “determinismo”, mentre la cultura è normatività sociale e soffocante, assenza di libertà di espressione. L’estetica della catastrofe ha per certi versi un valore immediatamente “ecologico” nella misura in cui «la natura non è più soltanto un oggetto ma interferisce con il soggetto che osserva e agisce per inventare una nuova convivenza esistenziale con gli elementi della biosfera»[19]. Ma il valore ecologico della catastrofe rimane impigliato nella rappresentazione pornografica di essa, che lo privatizza e lo rende inattingibile simbolicamente e socialmente.

E così l’estetica della catastrofe, che non poteva che nascere nel momento in cui con l’Illuminismo si realizza, ampliandosi a tutte le rappresentazioni simboliche e culturali, il progetto della rivoluzione scientifica, racconta alla perfezione le contraddizioni della Modernità: un’idea di catastrofe naturale, così come un’idea di morte (individuale) naturale – in cui la Natura gioca il ruolo di un avversario/nemico dell’Umano –, non potevano che sorgere all’interno di un modo di organizzare i saperi che parte dalla scissione Umano/Natura – l’incompiutezza di questo processo organizzativo dei saperi, così come la racconta Bruno Latour[20], accresce indubbiamente il suo fascino pornografico. “Morte individuale naturale” e “catastrofe naturale” si trovano relegate ai margini dell’impresa moderna e occidentale – allo stesso tempo, innominabili e sempre nominate: non rientrando più all’interno dello scambio simbolico delle società contemporanee, e rese estranee e incomprensibili, illeggibili e indomabili, rappresentano l’elemento che sempre sfugge e sempre ritorna della nostra cultura. Non è forse un caso che sfidare la morte e la catastrofe può essere sentito come l’unico atto vero e profondo di “libertà”. L’unico atto non “biologico”, non “funzionale”, che è rimasto al vivente umano.

3. L’esigenza di dominio e la quiete dell’estinzione

Come nota giustamente Jean Baudrillard, «l’irreversibilità della morte, il suo carattere oggettivo e puntiforme, è un fatto scientifico moderno»: si tratta di un elemento peculiare della nostra cultura occidentale, nella misura in cui altre culture «affermano che la morte comincia prima della morte, che la vita continua dopo la vita, che è impossibile discriminare la vita dalla morte», la morte essendo una delle forme che assume lo scambio simbolico che è a fondamento dell’esperienza culturale umana; il vero problema è che «la nostra idea della morte è governata da un sistema di rappresentazione del tutto diverso: quello della macchina e del funzionamento»[21]. Rovescio speculare della speranza in un’anima immortale, trascendente e capace di elevarsi al di là dell’oggettività bruta, è la realtà di un corpo mortale come ricettacolo di malattia, sessualità e morte, un corpo mortale che non smette di vendicarsi dell’anima immortale mediante la sofferenza e la cavalcata ineluttabile verso la fine. La stessa necessità moderna di una biopolitica nasce anche da questo presupposto: non basta governare le anime, mediante le manifestazioni di quello che Michel Foucault ha chiamato “potere pastorale”, ma, come lo stesso filosofo francese ha sottolineato, occorre organizzare i corpi in funzione della riproduzione di uno schema sociale votato alla massimizzazione e all’efficienza – il corpo deve funzionare meglio ed essere sempre più efficiente, se la nostra anima vuole domarne le devianze strutturali[22]. L’umano come allotropo empirico-trascendentale[23] – forma (in)compiuta di ogni cartesianesimo e di ogni Modernità – è il soggetto perfetto per la sottomissione ai regimi biopolitici e necropolitici, sia nelle relazioni politiche che nell’immaginario e nell’universo simbolico: noi umani, dimensione soggettiva della realtà, possiamo e dobbiamo dominare la natura interiore intesa come corpo naturale, dimensione oggettiva della realtà, così come noi umani possiamo e dobbiamo dominare la natura esteriore intesa come ambiente naturale – morte individuale naturale e catastrofe naturale non smettono di mettere in crisi questo dispositivo. L’Antropocene e la crisi ambientale rappresentano il ritorno del rimosso della morte collettiva – della morte con significato collettivo – e la catastrofe è pornografica anche per questo, perché da un lato permette una gratificazione intima, capace di eccedere i limiti della Modernità irrisolta, dall’altro rappresenta una forma di quiescenza e accondiscendenza al fluire del reale. Finché la catastrofe resta pornografica, non potrà mai essere davvero presa in carico come orizzonte di possibilità dell’avvenire, nessuna politica dell’immaginario, nessuna costruzione di racconti alternativi sarà possibile finché la catastrofe solleticherà la nostra pruderie privata. L’attrazione per la catastrofe, che può spingersi al desiderio dell’estinzione, rientra probabilmente, come fenomeno psicologico, all’interno di quelle pulsioni di morte che Sigmund Freud ha raccontato alla perfezione[24], all’interno di quell’immaginario che vede nella vita un’anomalia nei confronti della quiete che attende tutte le cose nella lente e inesorabile morte termica che raffredderà tutta la realtà. La vita è una forza neghentropica, ma naufragare nel dolce mare dell’entropia non smette di sedurre l’umano occidentale.

 

4. Il corpo e la macchina dinanzi alla catastrofe

Ma torniamo alla mitologia moderna della dimensione biologica dell’umano, torniamo all’allotropo empirico-trascendentale. La pornografia della catastrofe – sul versante dell’“incanto” della natura – produce la seduzione privata e non elaborata simbolicamente e socialmente nei confronti della morte collettiva e dell’estinzione, ma cosa “produce” invece all’interno del progetto tecnocratico di dominio della natura proprio del capitalismo? Se il corpo è una macchina biologica – e del resto ogni “meccanicismo”, come spiega alla perfezione Canguilhem, rappresenta quell’atteggiamento umano (troppo umano) volto alla costruzione di macchine non solo materiali ma anche di pensiero, per definire una distanza tra il sé e la propria appartenenza al movimento immanente della vita e delimitare una dimensione di controllo dell’esperienza e di dominio sulla realtà[25] –, se il corpo rappresenta qualcosa che trova una realtà seppur fantasmatica proprio nel momento in cui si scinde dal simbolico (non rientra più in quello che Baudrillard chiamerebbe “scambio simbolico”), allora si entra in una logica perfettamente binaria (e che apre anche alla “dialettica” di pruderie/pornografia). I passaggi logici di questo dispositivo, mostrati nella loro forma più “estrema” e dunque più immediatamente comprensibili, sono i seguenti:

  1. a) “vita”, “malattia” e “morte” diventano interpretabili nei termini di funzionamento, mal-funzionamento e non-funzionamento di una macchina;
  2. b) il non-funzionamento (ma anche il mal-funzionamento a partire da determinate “norme”) di una macchina implica l’idea di un errore di progettazione (“progetto” che può essere “ripensato” mediante la biochimica o la genetica, ad esempio) o di una carenza di conoscenze e strumenti in chi dovrebbe essere in grado di apportare modifiche e aggiusti – fondamentale è la riedizione di un ottimismo del progresso che, per certi versi, può sembrare ai tempi dell’Antropocene completamente fuori tempo massimo: il procedere scientifico si mostra comunque continuo e “scatenato”, senza limiti né confini;
  3. c) interventi sempre più raffinati di carattere tecnico/tecnologico potranno permettere di superare i limiti di una macchina biologica che tende sin dall’apparizione (la nascita) a procedere verso la distruzione (la morte);
  4. d) la mortalità individuale sarà finalmente sconfitta e l’umano entrerà in una nuova epoca post-umana e post-storica – questa fantasia (in senso psicologico) allo stesso tempo cartesiana e post-cartesiana, dal movimento Transumanista alle fantasmatiche procedure di mind uploading e di crionica[26], fino alla Singolarità, condivide con l’estetica dell’“incanto” della catastrofe non solo il punto di partenza, l’ambiguità della scissione Umano/Natura (che rilancia su livelli molto più complessivi quella classica di anima/corpo), ma anche una certa rappresentazione del biologico (che manifesta la forma specifica dell’ontologia occidentale moderna).

Tutte queste procedure di superamento dei limiti biologici di sapiens rappresentano una delle figure (tra le più semplici da individuare) che può assumere la pornografia della catastrofe, nella misura in cui promette una gratificazione sia nei confronti della morte individuale, promettendo una forma di immortalità tecnologica, che nei confronti della morte collettiva della catastrofe, promettendo un superamento di ogni limite biologico dell’umano e di ogni limite naturale connesso all’habitat e all’ambiente in generale. “Estinzione” e “Singolarità” hanno la medesima funzione all’interno del regime discorsivo dell’Antropocene.

Per dirla nei termini di Jean Baudrillard, la morte non ha nulla di biologico, in quanto «a uno dei due poli, quello biochimico, i protozoi asessuati non conoscono la morte, si dividono e si ramificano», mentre «all’altro polo, quello del simbolico, la morte/nulla non esiste nemmeno, la vita e la morte vi sono reversibili»[27]. Soltanto che, nell’ipotesi transumanista, non esiste reversibilità di vita e morte, non esiste “scambio simbolico” e sociale in cui i morti sono riconosciuti in quanto dotati di una certa agency, al limite non esiste più la morte (e forse neanche la vita come la conosciamo), a esistere è soltanto il delirio prometeico dell’umano che mai come in questo caso tradisce la sua matrice allo stesso tempo moderna e post-moderna (decostruzione di mortalità e immortalità che si mescolano), individualistica e atomistica. Perché la morte diviene un problema «solo nello spazio infinitesimale del soggetto individuale» per cui «questa morte che è ovunque nella vita, bisogna scongiurarla, localizzarla in un punto del tempo e in un luogo preciso: il corpo»[28]. Eliminato il corpo e la sua “assurda” biologia, si elimina questo fastidioso fardello della Natura; più avanza la percezione di una possibile fine della specie o di gran parte di essa, di una morte collettiva, più l’umano cerca di sconfiggere la morte naturale individuale.

Ed eccoci tornati al punto da cui avevamo preso avvio, da un lato la biologizzazione della morte, dall’altro l’impossibilità di dominarla simbolicamente: «neutralizzata come “fatto naturale”, la morte diventa sempre più uno scandalo»[29]. La morte individuale naturale e la catastrofe naturale diventano “scandalo” e «sragione del “corpo organico della natura”»[30]. Ma l’elemento ancora più profondamente contraddittorio, per quanto riguarda il programma della Modernità, è un altro: Jean Baudrillard, riferendosi alle paure degli attentati e delle catastrofi nucleari (quelle che colmavano l’immaginario del tempo a cui si riferisce il libro) afferma che «è notevole che siamo ritornati, in pieno sistema della ragione, e in piena conseguenza logica di questo sistema, alla concezione “primitiva” di imputare qualsiasi evento, e in particolare la morte, a una volontà ostile»[31]. Nel tempo dell’Antropocene, questo “ritorno” si muove lungo due strade: da un lato il complottismo che, in quanto sottoprodotto della fine delle ideologie e dell’idea di futuro, vede soltanto in determinati attori riconoscibili per nome e cognome gli autori delle (possibili e reali) catastrofi – le questioni sistemiche sono “invisibilizzate”; dall’altro le traduzioni nell’immaginario new-age della ben più seria ipotesi Gaia, quasi una personalizzazione del pianeta che, antropomorfizzato, si scaglierebbe contro questa presenza, l’umano, vissuta come un’intrusione destabilizzante[32].

L’altro elemento che ritrova Baudrillard e che può essere utile alla nostra analisi concerne la questione della morte e della catastrofe come violenza nei suoi aspetti pornografici: «per noi che non abbiamo più un rito efficace di riassorbimento della morte e della sua energia di rottura, ci resta il fantasma del sacrificio, dell’artificio violento della morte», se è vero che «il sacrificio non è affatto “estetico” per i primitivi, ma contrassegna sempre un rifiuto delle successioni naturali e biologiche, un intervento d’ordine iniziatico, una violenza controllata, socialmente ordinata»[33], questa forma di intervento è paradossalmente preclusa all’uomo moderno, il quale pur credendo di dominare la natura in tutti i suoi aspetti, non ha più una ritualizzazione che permetta il salto dal naturale al sociale, ma resta in balia di un naturale che, proprio nella morte individuale e nella catastrofe naturale, esprime tutta la sua potenza, vissuta solo in chiave anti-umana.

Noi moderni siamo molto più impreparati alla morte e alla catastrofe dei cosiddetti “primitivi”. E i nostri sogni non sono altro che fantasmi.

 

5. Catastrofismo da illuminare

La catastrofe, dunque, è innanzitutto pornografica – individualismo del fantasma e impossibilità di elaborazione simbolica e sociale – per ragioni di carattere socio-culturale: la Modernità, soprattutto ora che da qualche decennio va definitivamente globalizzandosi, non sembra avere gli strumenti adatti né per “rinviarla” né per affrontarla. Molti studiosi cercano una risposta a questa incapacità in un discorso che, decostruendo le strutture socio-culturali della Modernità, si rivolga a culture altre, soprattutto quei “primitivi” che erano stati relegati dall’eterno positivismo della seconda Modernità in un immaginario sempre oscillante (ma speculare) tra quello del “buon selvaggio” e quello del “materiale umano” da utilizzare in senso funzionale[34]. In questo saggio, a noi interessa restare pienamente nel “nostro” mondo culturale e moderno, e discutere le possibilità di pensabilità della catastrofe e indagare le ragioni del suo aspetto “pornografico”.

Un ulteriore elemento che spiega il clima di pornografia della catastrofe all’interno del quale ci troviamo è segnato dal paradosso proprio della “catastrofe”, che è stato sintetizzato in maniera molto efficace dal filosofo francese Jean-Pierre Dupuy: «se dobbiamo prevenire una catastrofe, dobbiamo anche credere che possa accadere prima che accada» – una catastrofe, come ogni evento imprevedibile, quando accade crea allo stesso tempo il “reale” e, retrospettivamente, il “possibile” del suo accadere (“possibile” che era stato evidentemente “invisibile”): una catastrofe sembra poter essere stata “possibile” soltanto una volta che si è realizzata (divenuta “visibile”), per cui prevenire una catastrofe significherebbe renderla “possibile” prima della “realtà” e lavorare affinché quel “possibile” non possa divenire “realtà”, qualcosa come rendere nel presente “visibile” l’“invisibile”, rigettandolo nel futuro della sua “invisibilità”; «se, d’altra parte, riusciamo a prevenirla, la sua mancata realizzazione la fa restare nell’ambito dell’impossibilità e di conseguenza gli sforzi fatti per prevenirla appariranno in retrospettiva inutili»[35] – una catastrofe, dunque, se viene “prevista” e si lavora affinché non si realizzi, perde la sua consistenza di “reale”, ma anche di “possibile”: se non si è realizzata, vuol dire che era davvero “possibile”? Come si misura il grado di “possibilità” di un evento che non si realizza?

Ma non è tutto. «L’aspetto terribile di ogni catastrofe» prosegue Dupuy «è che veramente non crediamo nella sua possibilità, anche se abbiamo tutti gli elementi per esser certi che accadrà»: l’ontologia della catastrofe, il suo particolarissimo regime di reale/possibile, impedisce che si creda nella sua “possibilità”, anche quando se ne è in un certo modo certi, proprio perché si tratta dell’evento che, per eccellenza, per “essere creduto” deve essere “reale”; «poi quando accade, sembra essere stata sempre parte del normale ordine delle cose» per cui «un momento prima sembrava impossibile e un momento dopo, senza troppo sforzo, è diventata parte integrante dell’“arredo ontologico” del mondo»[36] – basta semplicemente pensare a come nel XX secolo, i più grandi orrori della storia umana siano stati assorbiti senza grandi shock all’interno della coscienza collettiva, per comprendere questo strano regime della “catastrofe”.

Il nodo riguarda la relazione tra epistemologia e ontologia: «l’incertezza rientra nell’ambito dell’episteme, e si riferisce quindi alla nostra conoscenza del sistema che stiamo osservando, mentre l’indeterminatezza si connota in senso ontologico, e cioè fa riferimento alle cose così come stanno»[37]. Per cogliere la “possibilità” della catastrofe in tempi di Antropocene bisogna uscire dal regime dell’incertezza – l’idea scientista tutta moderna e occidentale per cui sempre più porzioni di “incerto” diventeranno “certi” grazie al progresso – ed entrare nel regime dell’indeterminatezza. Nel momento in cui ogni “principio di precauzione” fa leva sull’incertezza e non sull’indeterminatezza, si rende confusa la percezione della catastrofe naturale, che diviene una questione “soggettiva” (il “soggetto” è la specie) e tecnocratica. L’incertezza dinanzi alle minacce della crisi ambientale non è soltanto epistemica e “soggettiva”[38], ma anche ontologica e “oggettiva” – divenendo dunque “indeterminatezza”, per tre ragioni:

1) gli ecosistemi sono sistemi complessi, non-lineari e divergenti, resistenti fino a un certo punto, poi, superate alcune soglie critiche, possono dare avvio a processi non più controllabili e che possono trasformare radicalmente le caratteristiche del sistema stesso – l’avvicinarsi della soglia critica mette definitivamente in crisi anche il principio regolatore dell’analisi costi-benefici (del resto inutile finché la soglia critica era lontana – di qui, una delle ragioni per cui non ci si è mai realmente preoccupati delle catastrofi naturali se non adesso che la soglia critica è vicinissima);

2) i sistemi tecnico-culturali, cioè creati dall’uomo, hanno caratteristiche differenti dagli ecosistemi e l’evoluzione di un sistema ibrido, natural-culturale, non è prevedibile perché bastano alcune fluttuazioni all’inizio della vita di un sistema complesso, non-lineare e divergente perché esso prenda direzioni assolutamente casuali e imprevedibili, anche catastrofiche, il tutto mostrandosi a valle come “destino” o “necessità”;

3) infine, una questione logica: «ogni previsione circa il futuro stato delle cose che dipenda da una conoscenza futura è impossibile, per il semplice fatto che anticipare questa conoscenza vorrebbe dire renderla attuale e rimuoverla dalla sua nicchia nel futuro»[39].

La soluzione proposta da Jean Pierre Dupuy è nota e va sotto il nome di catastrofismo illuminato[40], caratterizzato da una “metafisica del tempo proiettivo” come «proiezione temporale successiva alla catastrofe da cui vedere in retrospettiva l’evento catastrofico allo stesso tempo necessario e improbabile»[41]. Processo complesso da costruire come modalità collettiva e condivisa di percezione, a causa di alcuni limiti propri della psicologia morale di sapiens.

 

6. La morte, il collasso e l’impotenza

Se la filosofia di Jean-Pierre Dupuy invita a effettuare uno sforzo immaginativo, costruendo un’immagine del futuro in cui la catastrofe è allo stesso tempo improbabile e necessaria, in vista della negazione di quella stessa immagine del futuro attraverso l’impegno nel presente per creare un futuro altro – cercando di andare oltre i limiti della psicologia morale umana –, la pornografia della catastrofe si determina infine come anticipazione nel presente del collasso, questa volta da considerarsi certo, in un futuro non troppo lontano. Talmente certo, che non è più possibile fare nulla se non “prepararsi”. Se la catastrofe è un paradosso per la cognizione e la psicologia morale umana, occorre allora immaginarla come “necessità” effettiva, come realtà già-presente: si tratta della chiave di lettura del movimento culturale francese della collapsologie, sul quale può essere utile chiudere queste brevi note. Possiamo sintetizzare la definizione di collapsologie (“scienza del collasso”) in questo modo: «l’esercizio transdisciplinare di studio del collasso della nostra civiltà industriale, e di ciò che potrebbe venire dopo, facendo leva sui due modi cognitivi che sono la ragione e l’intuizione, e su lavori scientifici riconosciuti»[42], mentre lo scopo di quella che viene chiamata collapsosophie (“filosofia/saggezza del collasso”) sarebbe quello di «prepararsi alle conseguenze delle catastrofi attuali e future dando la priorità ai legami tra gli esseri umani e ai legami con i non-umani, e dando un senso a tutto questo»[43].

Se Dupuy raccomanda di “immaginare” la catastrofe futura come allo stesso tempo improbabile e necessaria, per agire nel presente ed evitare che si verifichi, i “collassologi” – gli “esperti” del collasso – raccomandano di “immaginare” la catastrofe futura, come già presente, e di lavorare fin da ora alla costruzione di nuovi legami e nuove visioni del mondo all’altezza del collasso “necessario” e non solo possibile/probabile.

Non è possibile all’interno di queste brevi note discutere approfonditamente le questioni concernenti la collapsologie, ma sottolinearne alcuni limiti può essere utile a conclusione del nostro percorso. Perché questi limiti raccontano alla perfezione la strada bloccata nella quale ci troviamo, dal punto di vista immaginativo e politico, e mostrano la modalità mediante la quale la “pornografia della catastrofe” agisce sulle possibilità di pensiero e di azione nel presente.

Iniziamo da quella che potremmo definire una certa ambiguità nel presentare la collapsologie come una “scienza transdisciplinare”, evocando quindi in chi legge (e ricordiamo che in Francia il movimento ha un certo seguito mainstream, che esonda dai limiti dei dibattiti accademici) l’idea di entrare in contatto con la descrizione di una realtà “oggettiva”, dunque “verificabile”, e non soltanto con un discorso (più che lecito, ovviamente) di carattere interpretativo. Ciò che manca, affermano i collassologi, è «una vera scienza applicata e transdisciplinare del collasso» e la proposta è quella di «assemblare, a partire da numerosi studi pubblicati sparsi in tutto il mondo, le basi di ciò che noi chiamiamo […] la “collassologia”» e non si tratta di «nutrire il semplice piacere scientifico dell’accumulazione delle conoscenze, ma piuttosto di gettare una luce su ciò che sta arrivando o che potrebbe arrivare, vale a dire dare un senso agli eventi»[44]. Il problema è di carattere epistemologico, ma non solo: quando si affrontano le questioni connesse alla crisi ambientale ed ecologica, la mescolanza di scienze naturali e scienze sociali, evocata da più parti nella filosofia contemporanea ma su ben altre basi[45], corre sempre il rischio di ridursi de facto a una naturalizzazione della realtà sociale, mediante i dispositivi dell’“oggettivazione” e della costruzione di una necessità ineluttabile e meccanicistica (la metaforica della scienza funziona ancora nella sua rappresentazione tipica della “prima” rivoluzione scientifica, da Newton a Laplace); in più coloro che mettono in discussione o criticano certi aspetti dell’impostazione collassologica sono accusati immediatamente di “negazionismo”, in quanto «essere catastrofisti, per noi, è semplicemente evitare una postura di negazione e prendere atto di catastrofi che stanno per avere luogo»[46]. Si tratta insomma non soltanto di un “errore epistemologico” ma anche di un’utilizzazione del discorso della “scienza” particolarmente pericoloso. Quando si tende a “naturalizzare” in senso meccanicista le tendenze in atto, il risultato è che l’ambito dei “possibili” si restringe notevolmente – il futuro, come altro rispetto alle tendenze attuali, di fatto scompare; restringendosi l’ambito dei possibili, si annuncia qualcosa che assomiglia alla “fine della storia” (almeno per come la conosciamo).

Un altro limite è sicuramente rappresentato da quello che potremmo definire un approccio da un lato de-politicizzato e dall’altro tutto centrato sull’Occidente. L’ambito del “politico” non è mai scisso dall’ambito dell’epistemologico, organizzare le comunità umane (ma anche pensare dei cambiamenti radicali in questa organizzazione) è una dinamica strettamente connessa al modo con cui leggiamo la realtà e la interpretiamo. Nel momento in cui si ritiene che occorre porsi nella prospettiva di un “crollo” necessario della società globale, il rischio concreto è la passivizzazione, la de-responsabilizzazione e la de-politicizzazione delle questioni ambientali. Nella riflessione della collapsologie diviene centrale un altro grande mito (per noi: de-politicizzante) della retorica ambientalista: il “siamo tutti sulla stessa barca”[47]. Questo mito ha due caratteristiche. La prima è quella di negare le differenze economiche nella realtà presente – il “crollo” sarebbe una sorta di meccanismo di livellamento, non ci sarebbe via di fuga per nessuno, ricchi o poveri che siano: il problema è che il “crollo” di una civiltà non è un “evento” puntuale ma un “processo”, e probabilmente un “processo” piuttosto lungo, in cui si verificherà un sempre maggiore approfondimento delle disuguaglianze attuali, un solco sempre più profondo che colpirà in misura notevolmente maggiore i dannati della terra (a livello globale) e i “dannati” interni alle singole società (a livello locale). Attendere in maniera messianica l’arrivo del crollo e accettare la sua necessità significa di fatto accettare la realtà attuale in tutte le sue contraddizioni socio-ambientali: la disuguaglianza nel mondo pre-crollo va accettata perché l’uguaglianza (problema comunque che non sembra appartenere alla collapsologie) si avrà (forse) nel mondo post-apocalisse, alla “fine della storia”. La seconda caratteristica del mito del “siamo tutti sulla stessa barca” è l’ambiguo gioco tra de-responsabilizzazione politica dei responsabili, dal momento che di fatto il crollo è oramai inevitabile, e una responsabilizzazione generalizzata, a partire dai comportamenti individuali (il tutto è davvero “pornografico”: individualizzazione e incapacità di elaborazione simbolica e sociale): se la società crollerà – ed è certo che crollerà – sarà perché noi abbiamo scelto di condurre un certo stile di vita. Inutile ricordare, forse, che il liberismo e il neoliberismo utilizzano il dispositivo della “naturalizzazione” esattamente per nascondere i rapporti di forza (umani troppo umani, culturali troppo culturali) che determinano scelte e condizioni. E così arriviamo al secondo aspetto che avevamo evocato, sempre sul versante politico. L’inquietudine nei confronti del crollo (nei libri dei “collassologi” c’è un certo interesse anche per la psicologia individuale) è esclusivamente connesso alla fine della nostra civiltà e la fine della nostra civiltà viene letta nei termini di una “fine di tutto il mondo” e di una “fine della storia”; la preoccupazione principale sembra essere la fine dei nostri modi di vita, del nostro benessere, della nostra civiltà – se è vero che una reazione etnocentrica, soprattutto dinanzi a un “crollo” che si ritiene certo, è comunque comprensibile, quello che manca è la capacità di situare il “racconto” della fine all’interno di un contesto più vasto. La sensazione è che l’immaginario del crollo sia esclusivamente legato al quadro urbano delle classi medie bianche del Nord del mondo, anche perché quasi mai sono citate le società meno “avanzate” dal punto di vista industriale, e quando se ne discute lo si fa nei termini di una maggiore resilienza di queste in quanto meno dipendenti dalle fonti di energia fossile – in questo senso, sarebbero società più “fortunate” e più “pronte” al crollo[48]. Insomma, nell’immediato se la caverebbero meglio. Si tratta, anche in questo caso, di un punto di vista assolutamente fuori fuoco: la crisi ecologica, in questi ultimi anni, sta evidentemente colpendo maggiormente le società “meno avanzate”, nonché quelle meno responsabili di quel cambiamento ecologico che dovrebbe portare necessariamente al crollo. In modo altrettanto “fuori fuoco”, le società “altre” sono chiamate in causa anche da un altro punto di vista, vale a dire quando si tratta di mostrare il loro atteggiamento differente nei confronti della natura (non-utilitarista), ma sempre in un quadro in cui il problema riguarda “noi”, in quanto siamo “noi” che dobbiamo prendere da “loro” qualche utile atteggiamento e/o comportamento. Nella collapsologie, appena travestiti, sembrano presentarsi gli antichi miti sui “primitivi”, il “buon selvaggio” e il “materiale umano” da utilizzare.

Nella collassologia c’è insomma l’idea che, data l’impossibilità di pensare la trasformazione dell’esistente, occorra predisporsi all’attesa del collasso complessivo della civiltà per poter riattivare l’immaginazione e pensare a qualcosa di radicalmente nuovo. La connessione tra politico ed epistemologico – la mescolanza di moderno e postmoderno – si determina anche in questo senso: a porre fine alle contraddizioni delle nostre società e al capitalismo sarà il “clima” (non l’umano che deve soltanto “prepararsi alla fine”).

La pornografia della catastrofe – individualismo del fantasma e impossibilità di elaborazione simbolica e sociale – che si nutre delle contraddizioni interne al concetto di catastrofe (possibile-reale e metafisica del tempo) e delle contraddizioni della Modernità irrisolta (natura/cultura, antropocentrismo/postantropocentrismo, estinzione/transumanesimo, biopolitica/necropolitica, biopolitica del corpo individuale/biopolitica del corpo collettivo) rappresenta una delle forme culturali di cancellazione del futuro attive nel nostro presente, una forma realizzata di “impotenza”. Liberare la catastrofe dalla sua “pornografia” può rappresentare uno degli stimoli etici e politici per riattivare la possibilità di futuri altri: quando si anticipa un “futuro” e lo si dà per certo, non solo si commette un errore di carattere epistemologico (e, dunque, anche ontologico), ma si cancella tutta la densità etico-politica dei possibili/futuribili scenari. E riattivare l’immaginazione, in questo momento della storia di sapiens, diviene compito immediatamente etico-politico.


[1] V. Jankélévitch, La morte (1966), tr. it. Einaudi, Torino 2009, p. 33.

[2] Si tratta di una sorta di indicatore epistemologico. Come nota Zygmunt Bauman «la morte […] non è la radice di tutto quello che esiste nella cultura; […] la cultura rincorre quella permanenza e durevolezza che manca così atrocemente alla vita in quanto tale. Ma la morte (più esattamente la consapevolezza della mortalità) è la condizione ultima della creatività culturale in sé» (Z. Bauman, Mortalità, immortalità e altre strategie di vita (1992), tr. it. il Mulino, Bologna 2012, p. 11).

[3] V. Jankélévitch, op. cit., p. 36.

[4] Ibid., p. 48.

[5] Ibid., pp. 48-49.

[6] Z. Bauman, op. cit., p. 13.

[7] Cfr. ibid., pp. 13-14.

[8] Ibid., p. 19.

[9] G. Gorer, The Pornography of Death, in «Encounter», October 1955, pp. 49-52. La traduzione delle citazioni che seguiranno è nostra.

[10] In un certo senso anche l’importante e profondo saggio di Norbert Elias sulla solitudine del morente ne è parzialmente debitore, cfr. N. Elias, La solitudine del morente (1982, 1985), tr. it. Il Mulino, Bologna 2019. Il sociologo tedesco, oltre a sottolineare l’evidente similitudine tra l’imbarazzo vittoriano nei confronti della sessualità e l’imbarazzo contemporaneo nei confronti della morte, definisce le caratteristiche che determinano la visione della morte nella nostra epoca: l’allungamento dell’aspettativa di vita e la naturalizzazione della morte; l’allontanamento conseguente del momento “finale”; la pacificazione interna delle società contemporanee; il grado elevato di individualizzazione.

[11] G. Gorer, op. cit., p. 49.

[12] Ibid., p. 50.

[13] Ibid., p. 51.

[14] Ibid.

[15] Ibid.

[16] L’espressione è di Eva Horn. Cfr. E. Horn, Biopolitica della catastrofe (2011, 2012, 2013), tr. it. Mimesis, Milano-Udine 2021.

[17] F. Walter, Catastrophes. Une histoire culturelle XVI°-XXI° siècle, Éditions du Seuil, Paris 2008, p. 171. Le traduzioni sono nostre.

[18] Del resto il romanzo di Mary Shelley si intitola proprio Frankenstein: or, The Modern Prometheus ed è sicuramente uno dei vertici indiscussi di questa sensibilità nei confronti della catastrofe.

[19] F. Walter, op. cit., pp. 171-172.

[20] Il riferimento è ovviamente a B. Latour, Non siamo mai stati moderni (1991), tr. it. elèuthera, Milano 2016.

[21] J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte (1976), tr. it. Feltrinelli, Milano 2007, p. 176.

[22] Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), tr. it. Feltrinelli, Milano 2005; Id., Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), tr. it. Feltrinelli, Milano 2005.

[23] Cfr. Id., Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane (1966), tr. it. BUR, Milano 2004, in particolar modo pp. 327-368.

[24] Cfr. S. Freud, Al di là del principio del piacere (1920), in Id., Psicanalisi e società, tr. it. Newton Compton Editori, Roma 1969, pp. 113-183.

[25] Cfr. G. Canguilhem, Aspetti del vitalismo, in Id., La conoscenza della vita (1965), tr. it. Il Mulino, Bologna 1976, pp. 125-147.

[26] Il penultimo romanzo di Don De Lillo racconta proprio questa ambiguità nella ricerca transumanista dell’“immortalità” che si mescola costantemente alla seduzione nei confronti della “fine” di tutte le cose. L’incipit è fulminante: «Tutti vogliono possedere la fine del mondo. Questo ha detto mio padre, in piedi, davanti alle finestre all’inglese del suo ufficio di New York: gestione del patrimonio, dynasty trusts, mercati emergenti» (D. De Lillo, Zero K (2016), tr. it. Einaudi, Torino 2017, p. 9).

[27] J. Baudrillard, op. cit., p. 177.

[28] Ibid.

[29] Ibid., pp. 177-178.

[30] Ibid., p. 178.

[31] Ibid., p. 179.

[32] Per l’ipotesi Gaia cfr. ovviamente J. Lovelock, Gaia. Nuove idee sull’ecologia (1979), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2011, e tutte le opere successive che hanno approfondito le questioni di questo libro fondativo. Per l’utilizzazione more philosophico dell’immaginario Gaia, cfr. B. Latour, Face à Gaïa. Huit conférences sur le nouveau régime climatique, La Découverte, Paris 2015, e I. Stengers, Au temps des catastrophes. Résister à la barbarie qui vient, La Découverte, Paris 2009.

[33] J. Baudrillard, op. cit., p. 183.

[34] L’antropologia culturale contemporanea sta riuscendo a mettere in discussione tutta una serie di abitudini di pensiero proprie dell’Occidente (e, in particolar modo, della modernità occidentale), grazie a un confronto con le culture cosiddette primitive, analizzate non solo dal punto di vista di una curiosità di carattere “epistemologico” (e “tassonomico”), ma come vere e proprie ontologie altre, laddove per “ontologia”, in questo contesto, dobbiamo pensare alle differenti risposte che le differenti culture danno alla domanda: “come le descrizioni del mondo determinano il nostro essere-nel-mondo?”. Cfr. P. Descola, Par-delà nature et culture, Gallimard, Paris 2005; E. Viveiros de Castro, Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale (2009), tr. it. ombre corte, Verona 2017; E. Kohn, Come pensano le foreste (2013), tr. it. nottetempo, Milano 2021.

[35] J.-P. Dupuy, “Pre-vedere l’apocalisse”, per un catastrofismo razionale (2005), tr. it. in R. Girard, Prima dell’apocalisse, Transeuropa Edizioni, Massa 2010, pp. 43-81, qui p. 69.

[36] Ibid.

[37] Ibid., pp. 43-44.

[38] Relativa al soggetto umano, mentre è possibile immaginare un Dio/calcolatore infinito che, conoscendo tutte le possibili relazioni di causa/effetto, saprebbe in anticipo il momento esatto di qualunque evento. Quello che possiamo definire lo strano sogno (incubo?) dell’Illuminismo.

[39] J.-P. Dupuy, op. cit., p. 60.

[40] Cfr. Id., Pour un catastrophisme éclairé. Quand l’impossible est certain, Éditions du Seuil, Paris 2004.

[41] Id., “Pre-vedere l’apocalisse”, cit., p. 71.

[42] P. Servigne, R. Stevens, Comment tout peut s’effondrer. Petit manuel de collapsologie à l’usage des générations presente, Éditions du Seuil, Paris 2015, p. 253. Le traduzioni di questa e altre citazioni da questo libro sono nostre.

[43] P. Servigne, R. Stevens, G. Chapelle, Un'altra fine del mondo è possibile. Vivere il collasso (e non solo sopravvivere) (2018), tr. it. Treccani, Roma 2020, p. 13.

[44] P. Servigne, R. Stevens, Comment tout peut s’effondrer, cit., p. 14.

[45] Cfr. ad esempio M. Serres, Darwin, Napoleone e il samaritano. Una filosofia della storia (2015), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2017. Il filosofo afferma che «Certo [le scienze e le scienze umane] raccontano cose diverse, ma basandosi sulla stessa struttura del tempo, sulla stessa contingenza dell’evento, sullo stesso tipo di evoluzione, sulla metamorfosi continua della sorprendente novità in una razionalità causale, necessaria e non sufficiente» (p. 36).

[46] P. Servigne, R. Stevens, Comment tout peut s’effondrer, cit., p. 198.

[47] Il libro fondamentale della collapsologie è dedicato «A quelle e a quelli che provano paura, tristezza e collera. A quelle e a quelli che agiscono come se si fosse tutti sulla stessa barca. Alle reti dei tempi difficili ispirati da Joanna Macy, che brulicano e si connettono» (cfr. P. Servigne, R. Stevens, Comment tout peut s’effondrer, cit.).

[48] «La possibilità che un crollo sopraggiunga rovescia l’ordine del mondo. Le regioni periferiche e semi-periferiche del sistema-mondo moderno sono le più resilienti non soltanto perché gli shock economici ed energetici che subiranno saranno più deboli (attenzione, non gli shock climatici!), ma soprattutto perché costituiscono uno spazio d’autonomia indispensabile alla creazione di alternative sistemiche, uno spazio dinamico di cambiamento sociale. I “nuclei di riavvio” di una civiltà saranno allora le regioni considerate oggi come le meno “avanzate”?» (ibid., p. 147).

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