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NEUROTECNOLOGIE E POSTUMANESIMO

Autore


Alberto Oliverio

Università degli Studi di Roma La Sapienza

lavora nel campo delle basi biologiche del comportamento, è emerito di Psicobiologia nella Sapienza, Università di Roma. Ha lavorato in numerosi istituti di ricerca internazionali tra cui il Karolinska di Stoccolma, il Brain Research Institute dell’UCLA a Los Angeles, il Jackson Laboratory nel Maine, il Center for Neurobiology of Learning and Memory dell’Università di California a Irvine. Dal 1976 al 2002 ha diretto l'Istituto di Psicobiologia e Psicofarmacologia del Consiglio Nazionale delle Ricerche e dal 2007 al 2009 il Centro di Neurobiologia “Daniel Bovet” della Sapienza, Università di Roma

Indice


  1. Intro
  2. Genesi e genealogie
  3. Interfacce
  4. La mente estesa
  5. Wideware

 

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S&F_n. 24_2020

Abstract


Neurotechnologies and Post-Human

The development of neurotechnologies raises the issue of an “extended” mind, e.g. of a wideware implying a fusion of natural and artificial minds. It is therefore right to look at this issue in terms of impact on the concepts of person, identity, free will etc. The advent of brain-brain communication devices also amplifies the problems associated with the agent, responsibility.


  1. Intro

Nel 1957, Julian Huxley lanciò un movimento culturale che aveva al suo centro il “Transumanesimo”, movimento che sosteneva l’uso delle scoperte scientifiche e tecnologiche per aumentare le capacità fisiche e cognitive e migliorare quegli aspetti della condizione umana che sono considerati indesiderabili, come la malattia e l’invecchiamento, in vista anche di una possibile trasformazione post-umana. Il transumanesimo rimanda a un progetto scientifico, mentre il postumanesimo ne è la versione più filosofica e quindi comporta una visione più globale, segnata da ipotesi escatologiche.

Il potenziamento umano tende sempre più a divenire sinonimo di transumanesimo, una ideologia controversa che si è costituita per sostenere il riconoscimento e la tutela del diritto dei cittadini di mantenere o modificare la propria mente e il corpo (dalla chirurgia estetica al sesso); garantendo loro la libertà di scelta e di consenso informato sulla valorizzazione umana, e utilizzando le tecnologie su sé stessi e i propri figli.

Il transumanesimo ha spesso suscitato prese di posizione critiche per quanto riguarda le conseguenze a lungo termine sugli individui e il resto della società, come ad esempio il timore che alcuni miglioramenti possano creare vantaggi fisici o mentali a chi può e vuole farne uso, o disparità di accesso a tali miglioramenti… Queste posizioni si rivolgevano in realtà a possibili evoluzioni tecnologiche mentre oggi, grazie a enormi progressi delle neuroscienze e della robotica, si confrontano con una situazione in rapida evoluzione, quella relativo a una concezione materialista che ha a che fare, soprattutto, con la mente umana.

 

  1. Genesi e genealogie

In realtà, le origini delle attuali concezioni materialiste affondano le loro radici nella componente materialista delle posizioni di Cartesio (1596-1650), nelle teorie di Julien de La Mettrie (1709-1751) espresse ne L’histoire naturelle de l’ame (1746) e nel celebre aforisma di Pierre-Jean Cabanis (1757-1808), un medico che ai tempi della rivoluzione francese sostenne che i corpi dei ghigliottinati non erano più consci in quanto «il pensiero è secreto dal cervello come la bile dal fegato».

Queste prese di posizione rispecchiavano soprattutto teorie e discussioni di tipo filosofico e, nella maggior parte dei casi, mancavano di un supporto scientifico, di una conoscenza del cervello e delle sue funzioni. Le domande che ci poniamo oggi sono indubbiamente meno generiche e vertono principalmente sulla possibilità di individuare evidenti correlazioni tra le “parti” del cervello e i diversi aspetti del comportamento.

Ad esempio, ci chiediamo se esistano specifiche sedi cerebrali responsabili delle diverse attività mentali e, nel caso in cui sia possibile dare una risposta affermativa a questo interrogativo, se la loro comprensione passi attraverso lo studio delle strutture nervose che ne sono alla base, oppure se l’essenza delle funzioni mentali dipenda essenzialmente da un “programma”, innato o acquisito, e se sia al programma che bisogna guardare se si vuole comprendere la mente. E in quest’ultimo caso, che significato ha privilegiare la descrizione di strutture e meccanismi nervosi, cioè l’hardware, anziché concentrarsi sul programma, su un software che ha un ruolo prevalente sulle caratteristiche delle singole parti e circuiti? Un secondo aspetto riguarda il fatto che le tecnologie rivoluzionano sempre più la nostra vita. Questa trasformazione ci spinge a pensare a un futuro in cui le barriere tra le macchine e gli esseri umani potranno essere sempre più esili. Anche l’interfacciamento tra il biologico e l’elettronico sarà alla base di un nuovo modo di utilizzare il cervello e di porci in relazione con la realtà, reale o virtuale che sia?

Dal punto di vista storico, i tentativi di modificare la funzione cerebrale affondano in una lontana e originale pratica del medico dell’imperatore Claudio, Scribonius Largus, che nel 43 d.C., nelle Compositiones medicamentorum, indicava che il mal di testa poteva essere trattato applicando una torpedo, il pesce elettrico, sulla superficie cranica, il che lasciava il paziente in uno stato di stordimento ma, a dire di Scribonio, alleviava la cefalea. Scribonio, ovviamente, ignorava che il cervello avesse una sua attività elettrica e che la sua “cura” potesse dipendere da una sorta di piccolo elettroshock.

Dobbiamo però aspettare sino all’inizio dell’Ottocento quando, in seguito agli esperimenti sull’elettricità animale da parte di Luigi Galvani (1727-1798), suo nipote, Giovanni Aldini (1762-1834), sostenne che l’elettricità, oltre ad attivare i muscoli dei cadaveri, poteva anche avere delle proprietà terapeutiche nel trattamento delle psicosi e della melanconia.

La possibilità di intervenire sulle funzioni nervose attraverso l’uso di elettrodi impiantati direttamente in strutture cerebrali ha quindi una storia ormai abbastanza lunga. Nel Novecento la tecnica di stimolazione cerebrale venne perfezionata grazie all’impianto di elettrodi sviluppati dal neurofisiologo svizzero Walter Rudolf Hess (1881-1973): un sottile filo di metallo, isolato da un rivestimento che lasciava scoperta la punta, consentiva di modificare il comportamento di animali liberi di muoversi nel loro ambiente. Questa tecnica venne utilizzata nel 1954 da James Olds (1922-1976) che insieme a Neal Milner scoprì l’esistenza dei “centri del piacere”, o meglio di una serie di strutture e vie nervose implicate nei meccanismi di rinforzo. I risultati delle ricerche di Olds spinsero gli psicobiologi a esplorare le funzioni dei nuclei profondi del cervello: nel giro di pochi anni vennero “mappate” diverse aree sottocorticali, vennero chiariti i rapporti tra l’ipotalamo e la ghiandola ipofisi, che controlla le funzioni endocrine dell’organismo, e individuate diverse funzioni, eccitatorie e inibitorie del sistema limbico. Fra gli esperimenti più spettacolari si possono citare quelli condotti da José Delgado (1915-2011) sull’aggressività. Attraverso la stimolazione elettrica dei nuclei del limbico, realizzata tramite la pressione del tasto di un telecomando che somministrava una debole corrente elettrica per mezzo di un piccolo congegno impiantato sul cranio dell’animale, Delgado bloccò la carica di un toro eccitato nell’arena che diveniva nuovamente aggressivo non appena l’attivazione elettrica veniva a cessare.

Gli esperimenti di Delgado, anche se la loro interpretazione non fu univoca in quanto molti parlarono dell’attivazione di strutture che bloccavano il movimento del toro, più che del blocco di centri dell’aggressività, ebbero un notevole impatto concettuale, sui rapporti tra neuroscienze ed etica, quando il ricercatore impiantò con elettrodi cronici diverse persone per sondare se quanto Olds aveva osservato nell’animale fosse vero anche negli esseri umani. In tempi in cui le valutazioni di tipo bioetico erano ancora a un livello molto iniziale, Delgado notò che le persone impiantate con elettrodi cronici in strutture del prosencefalo si stimolavano ripetutamente proprio in quanto provavano sensazioni di piacere simili a quelle indotte da sostanze d’abuso come l’eroina: in entrambi i casi vengono infatti attivati neuroni che liberano dopamina nel cosiddetto sistema di rinforzo cerebrale. Nel loro insieme, gli studi di Delgado, oggetto di un saggio intitolato Genesi e libertà della mente suscitarono forti polemiche che contrapposero da un lato i sostenitori di un riduzionismo monista e, dall’altro, quanti affermavano principi dualistici.

Un altro aspetto delle ricerche sulla stimolazione cerebrale riguarda l’uso di campi magnetici: nella sua forma più primitiva questa tecnica era stata studiata alla fine dell’Ottocento dai fisici che approfondivano gli aspetti di base dell’elettromagnetismo, in particolare le implicazioni della legge di Faraday. Nel 1896 Jacques-Arsène d’Arsonval notò che una corrente di 110 volt, 30 ampere a una frequenza di 42 cicli per secondo induceva, quando la testa veniva inserita nella bobina, fosfeni e vertigini, alterazioni che vennero notate in seguito da Sylvanus P. Thompson che nel 1910 sperimentò su sé stesso l’effetto dei campi magnetici. Dopo una serie di ricerche sulla stimolazione magnetica dei nervi periferici, nel 1976 Barker e collaboratori svilupparono uno strumento capace di creare campi magnetici di 2 Tesla per lo studio della stimolazione dei nervi periferici: la tecnica venne affinata e nel 1985 venne dato il via alla stimolazione magnetica transcranica (TMS), una tecnica non invasiva in grado di focalizzare il campo magnetico e di modulare funzioni corticali e sottocorticali.

 

  1. Interfacce

Le ricerche sulla stimolazione elettrica e magnetica cerebrale si inseriscono in un atteggiamento più vasto volto a modificare in maniera reversibile le funzioni cerebrali.

Il principale settore di applicazione della stimolazione cerebrale profonda (DBS) riguarda oggi la modulazione dell’attività dei nuclei subtalamici per attenuare la sintomatologia del Parkinson, vale a dire per ridurre bradicinesia, tremore, rigidità e alterazioni posturali e della deambulazione. Nei parkinsoniani sottoposti a DBS subtalamica è stato anche notato il miglioramento di eventuali disturbi ossessivo-compulsivi e dell’umore. In termini più generali, la neuromodulazione e altre tecniche di stimolazione cerebrale rimandano a nuove forme di interfacciamento tra sistemi biologici ed elettronici. Negli ultimi anni si è giunti a interfacciare il sistema nervoso in maniera sempre più selettiva, grazie all’impianto di elettrodi connessi a stimolatori e circuiti elettronici. Ad esempio, alcune protesi acustiche si basano sul principio di utilizzare un circuito elettronico (impiantato sottocute) per trasformare i suoni provenienti da un microfono in impulsi elettrici e di inviarli direttamente al nervo cocleare attraverso una serie di minuscoli elettrodi impiantati in diversi punti delle fibre nervose. Il cervello ha quindi sensazioni (uditive) tramite un’interfaccia elettronica ed è in grado di reinterpretare, dal punto di vista cognitivo, il nuovo tipo di input provenienti dalla protesi: in altre parole, è possibile influenzare in modo diretto la fisiologia nervosa.

Simili esperimenti sono allo studio per ovviare a quei tipi di cecità che derivano da lesioni della retina o dell’occhio. Strategie affini vengono sperimentate per ciò che riguarda il midollo spinale al fine di riparare le sue lesioni che, in caso di incidenti che comportino la sezione delle fibre che collegano i muscoli e i territori periferici al cervello, implicano forme di paralisi irreversibili. Per ovviare a questi danni sono state sperimentate una serie di tecniche che promuovono la rigenerazione e la plasticità nervosa e quindi la riconnessione delle fibre sezionate o che fanno ricorso a "ponti” consistenti in materiali elettronici che rielaborano gli stimoli a monte e li trasmettono a valle. Ma vengono anche sperimentati con crescente successo “ponti” robotici, neuroprotesi interfacciate col sistema nervoso centrale o coi nervi periferici.

Al giorno d’oggi, esistono già alcune neuroprotesi che possono interpretare i segnali cerebrali e permettere ai disabili di compiere azioni diverse. Queste protesi si basano sul posizionamento di alcuni elettrodi sul cuoio capelluto di persone affette da una paralisi motoria globale: gli elettrodi rivelano l’attività elettrica della corteccia motoria quando una persona immagina di compiere un movimento con le braccia, le gambe oppure la testa e, tramite un’interfaccia, si attiva un mouse, la tastiera di un computer o l’attività di un esoscheletro, un apparecchio cibernetico in grado di potenziare le capacità fisiche (movimenti) dell’utilizzatore che ne è rivestito e che costituisce una sorta di muscolatura artificiale.

Da quando Elon Musk, il cui nome è legato a Tesla e a Space X, si è lanciato in una nuova impresa, Neuralink, volta a interfacciare cervello e computer, la discussione sulle neurotecnologie si è fatta più vivace non tanto per quanto riguarda il campo riparativo-terapeutico ma soprattutto per quanto riguarda la possibilità di interfacciare cervello e computer, andando oltre le neuroprotesi e entrando nell’ambito del potenziamento cognitivo. Le ricerche in questo settore si basano sull’utilizzo di un’interfaccia cerebrale ultrasottile e flessibile con migliaia di minuscoli elettrodi che può essere innestata sulla superficie della corteccia e qui restare per numerosi anni. Attraverso questa strategia può essere possibile tracciare il contenuto di informazioni del cervello, ad esempio, basandosi su quei segnali che predicono un’intenzione di muoversi o di compiere una determinata scelta.

In molti casi, l’interfacciamento consentirebbe di predire un comportamento, prima che il soggetto ne sia consapevole. I massicci investimenti in questo settore, e non soltanto dall’avveniristico laboratorio di Musk, lasciano prevedere che il campo delle neuroprotesi avanzerà molto rapidamente: al momento, però, siamo lontani dal potenziare le cognitive capacità umane attraverso interfacce cervello-computer. Non è però prematuro ragionare sui risvolti etici di queste tecnologie sul loro impatto sul concetto di identità personale.

In principio, il passaggio da un cervello che si serve di tecnologie “esteriorizzate” – come l’uso di mezzi che amplifichino le capacità della mente – a un cervello che ricorre a tecnologie “interiorizzate” – l’interfacciamento del cervello con chip che amplifichino le sue capacità – pur segnando un enorme avanzamento di tipo tecnologico è in linea con un concetto, quello di “mente estesa”, che guarda a confini mentali più ampli di quelli cerebrali.

 

  1. La mente estesa

Il concetto di mente estesa implica infatti che della mente facciano anche parte quegli strumenti e sussidi che consentono di esteriorizzare alcuni suoi aspetti, – l’esempio più classico riguarda il linguaggio – o di potenziare alcune sua abilità, da quelle che riguardano la memoria, al calcolo, ai processi decisionali ecc.

Ma attraverso quali strategie la mente può trascendere le capacità del cervello e amplificarne le potenzialità? Secondo lo psicologo cognitivo James L. McClelland le strategie cognitive degli esseri umani travalicano i confini della mente in quanto essi sono capaci di combinare le operazioni di cui è in grado il loro sistema nervoso con un insieme di operazioni e strumenti esterni, essenziali per ridurre problemi complessi a operazioni più semplici, adatte alle caratteristiche della loro. Ad esempio, possiamo risolvere lunghe moltiplicazioni attraverso l’uso di penna, carta e simboli numerici: partendo da questi simboli e visualizzandoli o “immagazzinandoli” all’esterno della mente, cioè riversandoli su un foglio di carta, possiamo compiere una serie di manipolazioni simboliche che ci consentono di ridurre un problema complesso a una sequenza di passi più semplici.

Carta e penna sono indubbiamente una tecnologia cognitiva semplice, anche se per diversi millenni gli esseri umani si sono basati essenzialmente su questo tipo di estensione della mente: è solo da pochi decenni che ci affidiamo a tecnologie più complesse come i computer, i word processor, i browser con cui andiamo in rete, i mouse, i cellulari, i programmi di grafica computerizzata e via dicendo. Inizialmente i computer richiedevano abilità di programmazione, bisognava conoscere il loro linguaggio e manipolare lunghe stringhe di dati: in seguito queste procedure sono state semplificate, al punto che non è più necessario comprendere il linguaggio della macchina su cui operiamo, si tratti di DOS, OS, UNIX ecc. o di altri. Le tecnologie e i programmi informatici stanno infatti diventando sempre più “user friendly”, intuitivi, cosicché, a differenza di quanto è avvenuto con i congegni meccanici, ben pochi di noi sono in grado di comprendere a quali principi rispondano gli strumenti di cui ci serviamo e soprattutto in che modo operino quei diversi programmi, come Word, Excel, PowerPoint, Skype etc. che oggi usiamo in modo naturale, senza cioè conoscerne la logica e il linguaggio che ne sono alla base.

Anche la realtà virtuale rappresenta un’estensione della mente e i suoi scenari sono vicini al mondo delle immagini mentali, quel processo attraverso cui ci rappresentiamo scenari reali o immaginari. Così, la realtà virtuale che caratterizza i videogiochi non è che la proiezione tecnologica di un’attività tipica della nostra mente: il virtuale esiste al di fuori di noi in quanto è in noi. Grazie al virtuale è possibile simulare le nostre rappresentazioni interne rendendole accessibili alla manipolazione, alle modifiche: anche il virtuale fa dunque parte delle caratteristiche della mente estesa, è una tecnologia cognitiva, basata sull’esteriorizzazione del nostro pensiero che, al pari della scrittura, ha un impatto notevole sulle nostre capacità di pensare e imparare.

 

  1. Wideware

Nell’ambito di una concezione della mente estesa, il termine wideware è stato usato per la prima volta dal filosofo cognitivo Andy Clark per indicare una mente che origina dall’incontro di cervello, corpo e realtà esterna. È un concetto, quello di wideware, in cui le funzioni mentali vengono anche definite da quelle estensioni di cui abbiamo appena parlato come le etichette linguistiche, i block-notes, i computer e tutte quelle strutture che fanno parte di un’attività cognitiva estesa.

Clark ha ripreso un concetto sviluppato dallo psicologo Jerome Bruner secondo cui, sin dalle prime fasi dello sviluppo, gli esseri umani utilizzano amplificatori delle proprie capacità sensoriali e motorie, raggiungendo in tal modo prestazioni ben superiori: ad esempio, le lenti sono un amplificatore della visione, la leva un amplificatore della forza muscolare. Clark sostiene che questi amplificatori sono essenziali nel processo di costruzione della mente che è fortemente dipendente dalle attività simboliche e dalle strutture cognitive presenti in un determinato stadio dello sviluppo. Più di tutte le altre specie animali, noi utilizziamo infatti una struttura allargata non biologica grazie a cui elaboriamo l’informazione e creiamo sistemi cognitivi estesi le cui capacità sono ben diverse e superiori rispetto a quelle del puro e semplice cervello.

In linea col concetto di mente estesa, lo sviluppo delle neurotecnologie pone il problema di una mente “allargata” in cui il wideware implica una fusione tra menti naturali e menti artificiali: è quindi giusto porsi il problema in termini di ricadute sui concetti di persona, identità, libero arbitrio ecc. L’avvento dei dispositivi di comunicazione cervello-cervello amplifica inoltre i problemi associati all’agente, alla responsabilità e alla responsabilità delle azioni.

Resta però il fatto che, al momento, la possibilità di un “interfacciamento cognitivo” appare remota: il maggior problema, ritengo, risiede nel fatto che non conosciamo quale siano i codici alla base delle funzioni mentali, il “linguaggio” utilizzato dal cervello per dare vita alle funzioni mentali. Senza queste conoscenze, è difficile ipotizzare un’interazione cognitiva tra reti neurali e reti artificiali[1].


[1] Di seguito le indicazioni bibliografiche: Aldini G., Essai theorique et experimental sur le galvanisme, avec une serie d’experiences faites en presence des commissaires de l’Institut National de France, et en divers amphiteatres anatomiques de Londres, de l’Imprimerie de Fournier Fils, Paris 1804; Bruner J., Acts of meaning, Harvard University Press, Cambridge-London 1990; Clark A. Chalmers D., The extended mind, in «Analysis», 58, 1998, pp. 7-19; Delgado J., Genesi e libertà della mente, Bollati Boringhieri, Torino 1973; Di Francesco M. e Piredda G., La mente estesa, Mondadori Università, Milano 2012; Glover, J., What sort of people should there be?, Pelikan Books, London 1984; McClelland J., Parallel distributed processing – Implications for cognition and development, in R.G.M. Morris (ed.), Parallel distributed processing: Implications for psychology and neurobiology, Clarendon Press, Oxford 1989; Olds J. e Milner P., Positive Reinforcement Produced by Electrical Stimulation of Septal Area and Other Regions of Rat Brain, in «Journal of Comparative and Physiological Psychology», 47, 1954, pp. 419-427; Oliverio A., Neuroscienze ed etica, in «Iride», 53, 2008, pp. 163-185; Oliverio A., Cervello, Bollati Boringhieri, Torino 2012.

 

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