S&F_scienzaefilosofia.it

SENZA IL NUOVO, QUANTO PUÒ DURARE UNA CULTURA? TINA E LA RICERCA DI UNA “COSMOLOGIA” ALL’ALTEZZA DELL’ANTROPOCENE

Autore


Delio Salottolo

Università degli Studi di Napoli - L'Orientale

Indice


  1. Una piattaforma di problemi: elementi di una confusione epocale
  2. Una decostruzione, innanzitutto
  3. «Senza il nuovo, quanto può durare una cultura?»: post-ideologia e “realismo capitalista”
  4. «Una cosmologia proteiforme e liminare»

 

↓ download pdf

S&F_n. 23_2020

Abstract


How long can a culture persist without the new? TINA and the research of a “cosmology” worthy of the Anthropocene

The essay intends to analyze the possibility of building/imagining a new cosmology in the time of the Anthropocene. This will be the path: first, deconstructing the mainstream and fashionable narrative of the Anthropocene, highlighting all the ideological aspects whose it is formed, consciously and unconsciously; secondly, showing the limits of the ability to make philosophy and to imagine the new because of “capitalist realism”, which represents an asphyxiating, pervasive and all-encompassing imagine of reality; finally, outlining the profile of a new cosmology, capable of reactivating the power to imagine and act, beyond the TINA (there is no alternative) and in order to create the radically new, the only possible way out of the suffocating atmosphere of the fashionable Anthropocene and of “capitalist realism”.

 

 

 

Il mondo è un contagio perpetuo

Emanuele Coccia

 

Qui si biforca la storia: o la morte o la simbiosi

Michel Serres

  1. Una piattaforma di problemi: elementi di una confusione epocale

Passaggio di stato o frattura determinante nella relazione umano-natura[1], fine/ristrutturazione della storia (per come l’abbiamo conosciuta) o riattivazione degli eventi[2], umano ancor più come Prometeo (con o senza vergogna) o invece come compost[3], fine dell’impostura della modernità riflessiva o ampliamento delle categorie moderne di pensiero[4], antropocentrismo o postantropocentrismo[5], modelli etici di anticipazione della fine o etica dell’ambiente ibrido[6], éschaton o katéchon[7], narrazione coloniale e occidentalista o siamo tutti sulla stessa barca[8], mondo come sfondo o come intrusione di Gaia[9], responsabilità individuale o responsabilità collettiva[10], paradigma del dominio o paradigma della tutela[11], TINA (There Is No Alternative di thatcheriana memoria) o riappropriazione della pratica del conflitto[12], decrescita o accelerazionismo[13], wilderness o geo-ingegneria, Donald Trump o Greta Thunberg, da qualunque prospettiva la si voglia cogliere, la questione dell’Antropocene rappresenta un garbuglio teorico difficile da districare: si tratta comunque di una piattaforma utile perché racconta di una confusione epocale, sia per quanto concerne la teoresi sia per quanto concerne la prassi.

Per lavorare nei termini di un tentativo di “chiarimento” della complessità della posta in gioco intorno alla concettualizzazione dell’Antropocene, l’articolo avrà la seguente struttura: innanzitutto, si procederà a una decostruzione puntuale della narrazione dominante e alla moda sull’Antropocene, evidenziandone i limiti ideologici sotto tutta una serie di profili, da quello epistemologico a quello politico; in secondo luogo si cercherà di delineare quali sono le caratteristiche del discorso ideologico del nostro tempo (in che modo funziona il discorso dominante nel momento della crisi ambientale) e si “utilizzerà” a tal scopo la concettualizzazione di “realismo capitalista”, messa in campo da Mark Fisher, filosofo non di “professione” ma dotato di estrema e sofferente profondità; infine, si cercherà di gettare alcune basi preliminari per la pensabilità di una nuova cosmologia all’altezza dei grandi problemi sollevati dal surriscaldamento globale e dalla crisi ambientale – una cosmologia che possa aprire a pratiche “cosmopolitiche” che scardinino l’efficienza del racconto mainstream e del suo apparato ideologico.

 

  1. Una decostruzione, innanzitutto

Occorre in via preliminare lavorare a un tentativo di chiarificazione, che condurrà necessariamente a una decostruzione, della narrazione dominante sull’Antropocene: non si tratta, in questa riflessione, di discutere su quale “nome” sia il più corretto per quella che viene annunciata come una nuova epoca (anche perché, occorre sottolinearlo, la “creatività”, in questo senso, è davvero scatenata[14]), in quanto il compito che ci prefiggiamo è quello di lavorare, dal punto di vista teorico, su tutta una serie di aspetti che possono essere problematizzati quando ci si confronta con la narrazione mainstream, consapevoli che si tratta di una posta in gioco determinante e che, mai come in questi tempi, l’uso degli strumenti del “sospetto” sia quanto mai necessaria. Prendiamo come esempio lampante di cosa si debba intendere per Antropocene alla moda[15] il saggio The Anthropocene: conceptual and historical perspectives di Steffen, Grinevald, Crutzen e McNeill[16], uscito nel 2011 e tra i più citati, che vede tra gli estensori proprio colui che ha lanciato il termine Antropocene e lo ha fatto balzare agli onori della cronaca, Paul Crutzen[17]. Si tratta di un articolo che rappresenta al meglio come si stia lavorando, dal punto di vista mainstream, intorno a questi problemi, raccontando alla perfezione tutti i limiti teorici, ideologici e politici dell’uso comune di questa nozione. Dividiamo l’analisi dell’articolo in una serie di punti, facenti capo a precise sezioni dell’articolo, cercando di comprenderne i limiti fondamentali:

1) posizione del problema: il soggetto dell’Antropocene non è problematizzato ma è semplicemente dato, è l’anthropos ovviamente, l’umanità in generale, la specie umana, mediante una rappresentazione indifferenziata e naturalizzata («humankind, our own species, has become so large and active that it now rivals some of the great forces of Nature in its impact (…) human activity is largely responsible for this exit from the Holocene (…) humankind has become a global geological force»[18]) – nel corso della trattazione sembra esservi una consapevolezza (neanche questa mai problematizzata nella sua profondità storica, nessun accenno a colonialismo e imperialismo, ad esempio) della differenza di peso tra nazioni ricche e nazioni povere nelle emissioni di carbonio, ma sembra essere fuori dal fuoco del discorso qualunque riflessione sulle ricadute differenziali che il surriscaldamento globale sta avendo e avrà sulle masse di coloro che dovremmo già iniziare a chiamare “dannati del clima”;

2) antecedenti del concetto di Antropocene[19]: si ricostruisce in maniera piuttosto frettolosa una storia della percezione delle potenzialità antropiche nelle sue relazioni con il pianeta (dal concetto di era antropozoica in Stoppani, passando per la definizione di biosfera e noosfera, chiamando in causa a mo’ di suggestione anche l’incolpevole Henri Bergson) – anche qui l’impianto ideologico è particolarmente evidente, si tratta di un elenco di antecedenti che si struttura come un percorso lineare di avvicinamento al concetto di Antropocene, il tutto non solo in maniera a-critica, ma anche senza alcuna analisi approfondita e complessificata di questa storia, è come se la storia delle scienze si svolgesse in un cammino solitario di avvicinamento alla verità, come se non fosse in connessione con tutte le altre forme di espressione umana: ci troviamo dinanzi a un piccolo capolavoro di semplificazione storica e fallacia epistemologica, la scienza come sapere separato, “neutro” e oggettivo, cosa che avrà, come vedremo, importanti implicazioni anche sul versante etico-politico;

3) la storia della relazione tra uomo e ambiente[20]: si va da Homo erectus fino alla rivoluzione industriale creando un flusso “storico”, impregnato di antropodicea[21], che vede dall’invenzione del primo utensile fino al capitalismo fossile un unico vettore, lineare, non complessificante, utilizzando una freccia del tempo che non presenta mai biforcazioni, una lunga e costante cavalcata che – piaccia o non piaccia – non poteva essere altrimenti e che, con una dinamica di finalismo, ha condotto l’umanità (sempre generalizzata e naturalizzata) a doversi confrontare con il suo “potere” più che con il “mondo”[22] – dovrebbe essere inutile ricordare come l’evoluzionismo darwiniano abbia cancellato ogni traccia di finalismo dall’intera “storia naturale” dei viventi umani e nonumani, eppure il bisogno ideologico di antropocentrismo sembra essere ancora troppo forte, così come la “confusione”, che Charles Darwin tentava in ogni modo di eliminare, tra “evoluzione” e “progresso”[23];

4) la storia dell’Antropocene: quando inizia[24] – per delineare il momento esatto di inizio di questa nuova epoca si fa riferimento a un “collo di bottiglia” energetico che “avrebbe bloccato” le possibilità di crescita delle società umane («it was a world dominated by a growing Energy bottleneck»[25]), si tratta già così di una teoria finalistica e per certi versi “deformante” nella misura in cui è come se si presupponesse un’umanità consapevole delle sue potenzialità e dunque anche della necessità del superamento di un “blocco” che evidentemente non poteva essere percepito come tale – si tratta del classico dispositivo di retrospezione a partire da un presupposto del presente; finalmente, poi, sarebbero stati scoperti i “combustibili fossili” che hanno permesso il primo grande balzo in avanti dal punto di vista energetico e, di riflesso, di espansione economica – anche in questa ricostruzione è interessante notare il modo mediante il quale è condotta la narrazione, per cui se è vero che il carbone è l’elemento mediante il quale si può misurare l’impatto antropico negativo sul sistema Terra, è altrettanto vero che le meraviglie della crescita (comunque mai raccontata negli evidenti chiaroscuri né tantomeno come ineguale, ma solo appunto come “positiva” e “progressiva”) non sarebbero potute avvenire in altro modo: si afferma allora semplicemente che l’Antropocene ha avuto inizio con la Rivoluzione Industriale nella sua accezione più ristretta, a seguito del brevetto della macchina a vapore, e il problema non è tanto l’identificazione di questo momento come data periodizzante (nonostante siano molteplici le ipotesi in merito, ma non occorre discuterne in questa sede), ma il percorso e il metodo che ha condotto a questa “identificazione”;

5) la storia dell’Antropocene: la Grande Accelerazione[26] – dopo aver analizzato i motivi per cui per alcuni studiosi potrebbe essere proprio la seconda metà del XX secolo il momento di ingresso nell’Antropocene e aver discusso una serie di indici e grafici che raccontano l’impennata dell’impatto antropico sul pianeta a partire proprio da quel momento, il racconto prosegue con i medesimi difetti, soprattutto perché, ancor di più in questo contesto, la storia è raccontata come un percorso lineare e necessario, a guida occidentale – cosa che è in effetti esatta se venisse problematizzata nei suoi conflitti umani e storici e se non venisse miscelata con un antropocentrismo che sembra acquisire senso soltanto se inteso come centralità dell’uomo bianco e occidentale, vera incarnazione dell’anthropos;

6) la storia dell’Antropocene nel XXI secolo[27]: il terzo momento di questo racconto sarebbe caratterizzato dal balzo in avanti, concretizzatosi tra la fine del ‘900 e gli inizi del nuovo millennio, compiuto da una serie di grandi paesi “in via di sviluppo”; in questo senso gli autori ci tengono a sottolineare come l’ulteriore incremento delle emissioni di quest’ultimo decennio sia dovuto proprio all’impatto di queste nuove economie – a mo’ di esempio, è interessante notare come l’analisi sull’impatto del fosforo e della possibilità del raggiungimento del suo picco, con conseguente deterioramento della sicurezza alimentare “in alcune parti del mondo”, venga letta soprattutto in termini di rallentamento della “crescita” complessiva globale e non nei costi umani e sociali che porterebbe necessariamente con sé: si tratta, in uno scritto che fa della serenità scientifica il proprio registro stilistico, di una rimozione comunque clamorosa[28];

7) una possibile soluzione geo-ingegneristica: in un passaggio tra i più inaspettati (e decisamente “perturbante”) si annuncia come si potrebbe combattere il surriscaldamento globale grazie all’utilizzazione della geo-ingegneria, lanciando nella stratosfera gas che permetterebbero di frenare le radiazioni solari e abbassare le temperature; il problema però è che potrebbe avere costi umani molto elevati, perché si tratta di gas altamente inquinanti – la proposta ha del paradossale nella maniera in cui viene raccontata, si tratterebbe di combattere il surriscaldamento globale con qualcosa che sì raffredda ma inquina e al limite potrebbe ammazzare diverse centinaia di migliaia di persone all’anno: l’ipotesi non viene comunque scartata del tutto ma viene raccontata come un “dilemma” per coloro che devono occuparsi di politiche ambientali, e comunque rientra pienamente nel novero delle molteplici “possibilità” geo-ingegneristiche[29] – ancora una volta a stupire è la “serenità” scientifica con cui viene proposta questa “ipotesi”, mentre il vero problema è il sottotesto fondamentale di questa impostazione e che può essere riassunto nel there is no alternative (TINA) di thatcheriana memoria (la crescita in un modo o nell’altro deve continuare), mediante una forma allo stesso tempo autoritaria e pastorale di gestione del “politico”, omnes et singulatim; si parla infatti genericamente di environmental policymakers (una sorta di super-governo globale dell’emergenza climatica) come coloro che devono avere in mano la “decisione” in un mondo in cui non è possibile e non si deve mettere in discussione il modo di produzione, l’ideologia produttivista e lo specifico essere-nel-mondo moderno, che nel racconto sembra divenire sempre più un percorso destinale – insomma, non sappiamo se l’effetto sia voluto o meno, consapevole o meno, ma leggendo queste pagine si ha l’impressione di trovarsi dinanzi a una narrazione fortemente de-politicizzata e altrettanto fortemente de-politicizzante, l’unica possibilità di intervento è quella della “manipolazione” (sul doppio registro del “dominio” e della “tutela”) a fini produttivisti del sistema Terra, a partire da un super-governo che deve gestire la popolazione mondiale dall’alto, indicando la strada da seguire e cercando “dal punto di vista umanitario” di limitare al minimo il sacrificio inevitabile di molte vite umane;

8) le implicazioni sociali del concetto di Antropocene[30]: l’ultimo paragrafo racconta le possibili implicazioni sociali del concetto di Antropocene, si tratta del paragrafo più breve, una pagina a stento, in cui si presenta uno schema dei planetary boundaries che non dovrebbero essere superati e si parla di “dissonanza cognitiva” (i “negazionisti”) come massimo problema sociale e si paragona la potenza dell’impatto simbolico dell’Antropocene alla rivoluzione darwiniana – di “implicazioni sociali” vere e proprie (accrescimento delle disuguaglianze, differenzalismo nell’impatto e nelle ricadute, necessità di ripensare l’ideologia produttivista, il nodo dei “migranti climatici” e via discorrendo) in realtà non si parla.

Senza soffermarci troppo oltre sull’analisi di questo testo, possiamo immediatamente problematizzare quelli che, a nostro avviso, rappresentano i limiti di questa narrazione mainstream:

1) il richiamo a una certa modernità riflessiva: “il progresso economico e tecnico-scientifico, e di riflesso il progresso morale e umano, sembrava una cavalcata trionfale e senza fine, ma ci siamo resi conto soltanto adesso che ha portato con sé dei problemi di sostenibilità ambientale, che però possiamo e dobbiamo affrontare senza nulla concedere a un arretramento nel nostro percorso finalistico di benessere e dominio/tutela del sistema Terra” – in poche parole, il nodo della “rimozione” ideologica tipicamente moderna come processo epocale, il fatto che, nelle narrazioni dominanti e progressiste della modernità, si tralasci quasi sempre il nodo delle “vite di scarto”[31] che il processo produce (una certa dose di “rifiuti umani” che si accumulano da qualche secolo a questa parte): anche semplicemente dal punto di vista di un’attenta ricostruzione storica, è stato facilmente dimostrato come gli “allarmi” sui cambiamenti climatici – e sugli effetti sociali a essi connessi – abbiano accompagnato costantemente tutto il cammino “trionfale” della modernità matura a partire dagli inizi del XIX secolo[32]; quello che si rischia di tralasciare – nelle ricostruzioni storiche di problemi complessi come questo – è il fatto che una “verità” storica, soprattutto quando si determina in tutti i suoi effetti di organizzazione sistemica, si afferma come tale soltanto quando si trova a essere “dominante” e “vincente” all’interno di un campo di forze teorico-pratiche conflittuali, nel perimetro del quale “verità” differenti “combattono” e gli sconfitti subiscono una dinamica di “rimozione” ideologica anche all’interno delle ricostruzioni che vorrebbero attingere, e soprattutto pretendere, l’oggettività più assoluta[33];

2) il rilancio della distinzione natura/cultura e dell’antropocentrismo nella sua forma più moderna (prometeismo/eccezionalismo): la natura ha i suoi processi e funziona in un certo modo, l’umanità ha i suoi processi e funziona in un certo modo, i processi e le funzioni entrano in relazione ma sempre come elementi esogeni, per cui l’umanità ha il compito di dominare/tutelare la natura, non distruggerla, per continuare a prosperare e a crescere economicamente (dal punto di vista delle politiche economiche è grossomodo ciò che oscilla costantemente tra il “paradigma del dominio”, vale a dire interventi di carattere geo-ingegneristico e biotecnologico, e il “paradigma della tutela”, vale a dire ipotesi di compromesso che vanno sotto la rubrica del green new deal) – tale narrazione, in questo senso, non può essere ecologica per definizione, in quanto scinde i due comparti, umano e natura, e pensa la relazione mediante una dinamica di intervento pastorale da parte di una specie “eccezionale”, in stretta connessione con una ricostruzione ideologizzata dell’impatto antropico sulla natura, in cui il soggetto non è un uomo concreto e storicizzato ma l’uomo stilizzato e naturalizzato, l’anthropos, che ricopre le dinamiche di conflitto tra i differenti gruppi umani; il racconto muove da una storia intesa dal punto di vista antropo-geologico in cui l’uomo, soggetto dell’Antropocene, è allo stesso tempo l’indifferenziata specie umana e l’uomo Occidentale, Bianco, Civilizzato;

3) il positivismo tecno-scientifico: troviamo da un lato una storia lineare di progresso (antropodicea) per la quale l’unica che vale la pena di essere raccontata, perché la più avanzata e dunque paradigmatica, è la storia trionfale dell’Occidente, e dall’altro, e in maniera speculare, una storia lineare della scienza, del tutto separata dalle altre forme di espressione dell’umano, separata sì dalle altre “storie” ma come metro di giudizio per valorizzarle, valutarle, sorvegliarle e punirle[34] – si tratta chiaramente di un duplice errore ideologico: a) immaginare ancora l’esistenza di un tempo lineare di progresso – a questo punto, e dopo i continui “sospetti” che si sono susseguiti già a partire dalla fine del XIX secolo e poi durante tutto il XX secolo, questo richiamo sembra davvero essere fuori tempo massimo: occorre criticare l’idea fondamentale – o sogno dell’Illuminismo[35] – per cui il progresso tecnico-scientifico sarebbe immediatamente progresso umano, individuale e collettivo, e ripensare in chiave davvero (dunque mediatamente) emancipatrice e liberatrice il ruolo della scienza e della tecnica; b) immaginare che la scienza sia un percorso neutro e oggettivo, a sé stante, di avvicinamento alla verità – raccontare ancora, nel XXI secolo, la scienza e la tecnica come strumenti “neutri”, soprattutto dopo l’intera storia del XX secolo, non può che apparire perlomeno naïf se non consapevolmente e colpevolmente ambiguo;

4) la de-politicizzazione della relazione uomo/natura e contemporaneamente l’istituzione di un possibile “geopotere” mediante una specifica “geopolitica”, quest’ultima da intendersi non nel senso tradizionale, ma come estensione di “biopolitica”, una gestione e ri-organizzazione governamentale e securitaria non solo della vita (e della morte, va da sé) umana ma anche del sistema Terra come insieme vivente e nonvivente allo stesso tempo: “tutto il potere agli scienziati”, si potrebbe riassumere richiamando le parole di Isabelle Stengers per la quale gli scienziati sono raccontati e percepiti come i “nostri responsabili”[36] – in questo senso, la gestione della natura (sempre pensata come separata) deve andare nelle mani degli scienziati che sono “puri” e “neutri” (qui si incrocia il problema epistemologico del punto 3 con il problema politico), mettendo pienamente in luce le ambiguità del “politico” nei confronti di un’emergenza epocale: il richiamo a una presunta oggettività e neutralità della scienza rappresenta la forma prediletta di realizzazione di un programma che ha come fondamento il there is no alternative;

5) l’escatologia propria che aleggia all’interno di questa ricostruzione: da un lato un millenarismo che sembra richiamare i fasti del buon Antropocene degli ecomodernisti – “siamo giunti nel millennio del dominio totale dell’umano sull’intero sistema Terra, dobbiamo assumerci le responsabilità di questo dominio”; dall’altro un mood (la cui circolazione è determinante per rendere maggiormente accettabile e funzionale l’intervento dall’alto) che richiama l’atmosfera asfissiante di una concezione del potere che non può che muovere dalla gestione del “tempo della fine” mediante un “potere che frena”[37].

In questo articolo, allora, ci proponiamo di comprendere i motivi ideologici per cui questa narrazione possa funzionare e di provare a porre le basi per un discorso in vista della definizione di alcuni fondamenti possibili per “pensare” una nuova “cosmologia” all’altezza dell’Antropocene: si tratta di un’epoca, la nostra che stiamo vivendo, in cui dovrebbero emergere in maniera ancora più evidente tutte le contraddizioni “teoriche” della modernità e tutte le contraddizioni “pratico-materiali” del nostro sistema economico-politico; il loro venire allo scoperto, però, è accompagnato da una percezione deformata della realtà che possiamo chiamare con Mark Fisher “realismo capitalista”, il quale si fonderebbe su un’estensione del principio del there is no alternative e che sembra ricoprire tutto l’ambito del pensabile. In questo senso, dopo aver analizzato le caratteristiche (e la pervasività) del “realismo capitalista”, si cercherà di comprendere se è possibile ancora provare a decostruire l’immaginario dominante (TINA – there is no alternative) mediante un’estensione, anche filosofico-politica, di quella che Emanuele Coccia chiama “metafisica della mescolanza”[38] e muovendo dalla maniera mediante la quale Donna Haraway ripensa l’originale apporto della biologa eterodossa Lynn Margulis[39]. Se è vero che ci prefiggiamo il compito di ritrovare alcuni possibili elementi per una nuova “cosmologia”, è anche vero che il nostro metodo non può che connettere “cosmologia” e “cosmopolitica”, nella misura in cui una certa descrizione di come è strutturata la realtà rappresenta già sempre una certa prescrizione in vista della prassi: in questo senso, si cercherà di connettere il piano della rappresentazione con il piano materiale delle relazioni tra gruppi umani.

 

  1. «Senza il nuovo, quanto può durare una cultura?»[40]: post-ideologia e “realismo capitalista”

Se c’è un elemento che balza immediatamente agli occhi quando si affronta, dal punto di vista teorico, la questione dell’Antropocene è l’assenza complessiva della pensabilità di un’alternativa: tralasciando l’ottimismo ecomodernista (che si richiama, per certi versi in maniera ideologicamente lineare, alla modernità e alla volontà di portare avanti i fasti del capitalismo globale), le narrazioni dominanti rientrano tutte in un immaginario (eco)catastrofista (“non dobbiamo superare i limiti planetari”, “il mondo è già iniziato a finire”, “la fine del mondo è già avvenuta”, “dobbiamo prepararci a vivere in un mondo infetto”, “occorre mettere in campo immediatamente una praemeditatio malorum”) che rappresenta la forma più avanzata e raffinata, e forse la sua potenza maggiore di riproduzione, del TINA, il there is no alternative, che accompagna costantemente le discussioni sul surriscaldamento globale e l’Antropocene e che ha la sua “origine”, nel senso di provenienza ed emergenza, nella retorica neoliberista anglosassone. Senza richiamare nuovamente la complessità concettuale che abbiamo provato a riassumere nelle prime righe di questo articolo, o la ricostruzione alla moda e mainstream di Steffen&Co., è chiaro che ci troviamo di fronte a un’impossibilità le cui caratteristiche vanno analizzate preliminarmente, per cercare di comprendere qual è il motivo di questo “blocco” allo stesso tempo dell’immaginario e della prassi.

Seguendo alcune indicazioni di Mark Fisher, filosofo non di professione ma pensatore indubbiamente profondo e raffinato, possiamo cercare di delineare, accogliendone alcuni aspetti, quali sono le caratteristiche fondamentali del “realismo capitalista”, definizione che il pensatore predilige rispetto a “postmodernismo”, e di cui vede una pervasività assoluta e per certi versi soffocante.

Innanzitutto, l’impossibilità di pensare (davvero) il nuovo. Muovendo dalla «sensazione diffusa che non solo il capitalismo sia l’unico sistema politico ed economico oggi percorribile, ma che sia impossibile anche solo immaginarne un’alternativa coerente»[41], è possibile affermare che «il potere del realismo capitalista deriva in parte dal modo in cui il capitalismo sussume e consuma tutta la storia pregressa»[42]: da un lato, dunque, si assiste a un’introiezione inconscia a livello culturale della “fine della storia” raccontata da Francis Fukuyama[43], sua paradossale realizzazione non sul piano degli eventi ma sul piano della rappresentazione collettiva degli eventi, dall’altro, per quanto concerne la produzione culturale, la carica rivoluzionaria dell’immaginario (arte, musica, cultura in generale) non è semplicemente incorporata nella logica del consumo (come nelle analisi del postmodernismo) – questo elemento è come se fosse già dato per assodato – ma è libera di tornare a presentarsi soltanto come «estetica congelata»[44]. Il “realismo capitalista” ha come caratteristica determinante la precorporazione («la programmazione e la modellazione preventiva, da parte della cultura capitalista, dei desideri, delle aspirazioni, delle speranze»[45]): l’ideologia, dunque, non è “semplicemente” un velo che ricopre la realtà non permettendo di cogliere la reale struttura materiale delle relazioni, ma è qualcosa che plasma in profondità l’inconscio collettivo e individuale, di fatto strutturando la percezione stessa della “realtà” che diviene fantasma – non è qualcosa che maschera ma qualcosa che forma, non è qualcosa che si manifesta nell’invisibilità ma è qualcosa che non permette la visione, non è qualcosa che reprime ma qualcosa che produce; in questo senso, l’ideologia non necessita più di astuzie o di inganni percettivi, perché è, mediante la precorporazione, già sempre incorporata, raddoppiando così la sua efficacia: le forme di sfruttamento individuale e ciò che ne consegue non è più visto come un elemento esogeno ma come profondamente endogeno, interiore[46], la precorporazione è sempre un’incorporazione che plasma le strutture dell’essere-nel-mondo, è sempre una forma di interiorizzazione naturalizzante.

Un secondo aspetto determinante – e strettamente connesso al primo – è l’appropriazione della categoria del nuovo da parte del “realismo capitalista”, riducendo/annullando lo spazio di pensabilità e immaginazione del nuovo che si oppone. Il suo funzionamento prevede l’incorporazione (o la precorporazione) di una certa dose di (desiderio di) anticapitalismo: se è vero che si è sviluppato una sorta di anti-capitalismo mainstream (soprattutto a seguito della ristrutturazione neoliberista post-crisi 2008), il “realismo capitalista” lavora proprio nel disincanto della relazione tra “credo” interiore e “comportamenti” esteriori – l’atteggiamento cinico, proprio di questa epoca, anche quando si muove sotto il livello di coscienza, fa sì che anche quando crediamo maggiormente negli inganni del capitalismo, non possiamo fare altro che agire come se fosse l’unica realtà possibile: questo anticapitalismo sordo e di fondo non può che muoversi nei confini già sanciti dal “realismo capitalista”, che presenta una piattaforma all’interno della quale è sempre e costantemente presente il nuovo come possibilità già definita dal sistema, mentre ciò che lo mette in discussione sembra presentarsi già-sempre come vecchio. E così ciò che potrebbe mostrarsi in maniera davvero nuova diventa inappropriabile per due dinamiche che si intrecciano: da un lato, è il “realismo capitalista” a mostrarsi continuamente come nuovo, creativo, allo stesso tempo propositivo e consumante immediatamente le sue iniziative, rilanciando costantemente la necessità del nuovo, occupandone la seduzione e il desiderio e di fatto ricoprendo con una patina smagliante quella che è invece la riproduzione del vecchio[47]; dall’altro, è sempre il “realismo capitalista” ad appropriarsi di tutte le lotte che potrebbero definire le coordinate di un reale anticapitalismo, come nel caso della “crisi ambientale”, che, pur essendo intrecciata fortemente con il capitalismo (di fatto, lo ammettono anche Steffen&Co.), sembra poter essere affrontata soltanto con la definizione di strumenti nuovi da parte del Capitale. Se tralasciamo il “negazionismo” nudo e crudo, di fatto oramai squalificato anche nella stessa narrazione dominante, tutti i potenti della terra e le maggiori corporation ammettono che esiste un problema in tal senso, se ne fanno portavoce e occupano lo spazio dell’ambientalismo e del nuovo, con proposte che vanno dagli interventi geo-ingegneristici (e biotecnologici) al green new deal; allo stesso modo, anche coloro che pensano che il Nuovo Regime Climatico non possa essere affrontato con queste tipologie di soluzioni evadono completamente da ogni discorso che possa mettere in discussione profondamente e nelle caratteristiche determinanti il modo di produzione capitalistico: il piano della produzione e della riproduzione materiale semplicemente scompare, sembra che la narrazione ne possa fare a meno[48], proprio perché l’anticapitalismo di sistema ha assunto il sapore del vecchio – non si può non constatare, con estremo stupore, come in molte delle ricostruzioni che hanno per oggetto l’Antropocene, il suo “passato” e il suo “futuro”, la parola/concetto/pratica “capitale/capitalismo” non sia neanche presente.

Un terzo aspetto è la relazione che intercorre tra nuovo e adattamento. Secondo Fisher, se da un lato è decisivo mettere in discussione questa appropriazione del nuovo da parte del “realismo capitalista”, dall’altro «rivendicare il “nuovo” non può significare adattarsi alle condizioni in cui già ci troviamo (…) sappiamo bene che “riuscire ad adattarsi con successo” è la principale strategia dell’ideologia manageriale»[49]. Si tratta di un aspetto decisivo: nelle narrazioni dominanti sul surriscaldamento globale e la crisi ambientale (questione ecologica) e sulle modalità individuali di adattamento a un mondo che sta cambiando e cambierà in maniera radicale (questione psicologica), si insiste molto sulla categoria dell’adattamento, o, per usare un termine maggiormente alla moda, sulla categoria della resilienza. Non si tratta qui di fare una critica della “pratica” in sé stessa (“virtù” che di questi tempi va comunque “coltivata”), o di ricostruirne la storia, occorre invece affrontare la maniera mediante la quale sembra funzionare nel contesto odierno e come forma mediante la quale il “realismo capitalista” pensa il nuovo rispolverando il vecchio. Partiamo dalle definizioni di resilienza che si trovano nell’Enciclopedia Treccani: dal punto di vista psicologico si tratta della «capacità di reagire a traumi e difficoltà, recuperando l’equilibrio psicologico attraverso la mobilitazione delle risorse interiori e la riorganizzazione in chiave positiva della struttura della personalità», mentre dal punto di vista ecologico si tratta della «velocità con cui una comunità (o un sistema ecologico) ritorna al suo stato iniziale, dopo essere stata sottoposta a una perturbazione che l’ha allontanata da quello stato; le alterazioni possono essere causate sia da eventi naturali, sia da attività antropiche»[50]. La resilienza, che sembra portare con sé la potenza del nuovo come risposta a una condizione nuova, viene chiamata in causa come forma di reazione positiva a determinate condizioni ambientali: la resilienza è la capacità di reggere l’urto del nuovo in maniera individuale, lasciando intendere che il problema o il momento fondamentale di esso non sia la maniera mediante la quale è strutturata la realtà, ma soltanto o perlopiù la risposta soggettiva che se ne dà (va da sé che, al di là delle buone intenzioni, il senso di colpa individuale e di sconfitta risulta assolutamente dominante). La resilienza, nel suo modo di funzionare nel discorso pubblico, lascia intendere due cose: la prima è che le condizioni ambientali che producono una necessità di reazione positiva non sono (quasi: non devono essere) oggetto di contestazione diretta, l’ambiente è considerato come qualcosa di esterno all’individuo (per individuo occorre intendere sia, in termini psicologici, la singola persona, sia, in termini ecologici, la singola comunità o sistema ecologico), vale a dire che l’ambiente subisce delle modificazioni, che appaiono necessarie e naturali, e hanno la forma e, soprattutto, la forza del destino – significa che l’ambiente non è né qualcosa che è co-costruito dalle interazioni immanenti e continuate degli elementi che lo compongono, né che è modificabile nel suo andamento: se alla parola “ambiente” sostituiamo l’espressione “modo di produzione e riproduzione” si comprende la fortuna mainstream della pratica della resilienza e ritroviamo un ulteriore dispositivo di funzionamento del “realismo capitalista” che presuppone necessariamente la naturalizzazione (nel senso di “eternizzazione”) delle proprie strutture; la seconda è che l’unica risposta possibile alle perturbazioni destinali dell’ambiente è la coltivazione di una specifica capacità individuale: si tratta della privatizzazione del disagio psichico, in psicologia, e della privatizzazione della responsabilità ecologica, quando si ragiona di surriscaldamento globale e crisi ambientale – Fisher, pur non parlando di resilienza ma semplicemente di adattamento, non può che notare, ragionando sulla salute mentale sempre più in crisi e sulle sempre più diffuse forme di disordini psichici come la depressione, che «anziché accettare la generalizzata privatizzazione dello stress (…) quello che dovremmo chiederci è: com’è potuto diventare tollerabile che così tante persone, e in particolare così tante persone giovani, siano malate?»[51]. Il problema della medicalizzazione della società non è mai così pervasivo come nel qui e ora del nostro tempo: la diffusione sempre maggiore di forme di burn-out conduce da un lato a una privatizzazione della responsabilità dell’insuccesso (che si traduce o può tradursi in senso di colpa), dall’altro a un’incapacità di cogliere le motivazioni ambientali perché considerate destinali, un destino contro cui – per antonomasia – non si può nulla e contro il quale si rischia sempre una sconfitta esistenziale completamente “privata”. Sia in termini psicologici che ecologici, la resilienza (forma raffinata ed eufemistica per “adattamento”) funziona come una forma di precorporazione del vecchio per fondare il nuovo: senza chiamare in causa tutta la complessità della riflessione weberiana sullo spirito del capitalismo[52], il fallimento esistenziale – il “non riuscire” – si traduce nei termini di un fallimento individuale, di un’incapacità psicologica di reggere l’urto del proprio ambiente e del proprio tempo, non essere resilienti significa non appartenere al gruppo dei “salvati” ma a quello dei “dannati”[53]. Inoltre, gli effetti fondamentali, dal punto di vista ecologico, del funzionamento del discorso della resilienza è che, dando appunto per necessario, ineluttabile e destinale il cammino che ci condurrà a doverci confrontare con un pianeta la cui vivibilità sarà molto più complessa, il problema è come adattarsi a un nuovo ambiente, come sopravvivere su un pianeta infetto, o come mettere in campo fin da adesso una giusta praemeditatio malorum, non come pensare/immaginare un nuovo rapporto con il mondo che possa prevedere perlomeno la pensabilità della fine della causa della condizione attuale (il capitalismo) e non solo del mondo[54].

L’analisi di Fisher dunque può aiutare a comprendere la struttura conscia/inconscia e ideologica (nel senso del termine poco più su chiarito) delle principali narrazioni mainstream e alla moda dell’Antropocene:

1) il richiamo a una certa modernità riflessiva è la maniera mediante la quale il “realismo capitalista” de-responsabilizza l’agency degli attori fondamentali che hanno determinato il surriscaldamento globale, aprendo alla generalizzazione dell’umanità come agente unico e indifferenziato e a una relazione con il mondo di tipo destinalesiamo tutti sulla stessa barca è uno dei grandi capolavori concettuali, forte come soltanto gli slogan possono esserlo, di una rappresentazione disincarnata socialmente e re-incarnata individualmente, ancora una volta omnes et singulatim, una maniera allo stesso tempo intellettuale e pop di pensare gli effetti della crisi ambientale, un regime discorsivo perfettamente funzionante e del tutto performativo;

2) il rilancio della distinzione natura/cultura e dell’antropocentrismo nella sua forma più moderna è la maniera mediante la quale il “realismo capitalista” precorporando il vecchio lo traduce nel nuovo: anche se non si tratta più della natura “docile” e “a buon mercato” della modernità (il vecchio), ma di una natura imbizzarrita e che va allo stesso tempo “dominata” e “tutelata” (il nuovo), bisogna mettere in campo forme nuove di dominio/tutela in maniera tale da permettere la riproduzione del vecchio;

3) il positivismo tecno-scientifico e la de-politicizzazione della relazione uomo/natura e contemporaneamente l’istituzione di un possibile “geopotere” mediante una specifica “geopolitica”: si tratta dell’arma mediante la quale il “realismo capitalista” mostra la maniera con la quale il nuovo è già sempre incorporato nel suo percorso, e che se si vuole il nuovo occorre continuare lungo la medesima linea del tempo, progressiva e unilaterale, che ci ha condotto fin qui, rivendicare la nostra storia come una storia di novità: certo, è opportuno qualche aggiustamento, ma sono proprio gli aggiustamenti che possono aiutare a dare il senso del nuovo a ciò che riproduce il vecchio;

4) l’escatologia rappresenta una possibilità per il “realismo capitalista” proprio perché permette la gestione delle “cose penultime” mediante un elastico che va dal millenarismo al catastrofismo, e che soprattutto in un mondo secolarizzato in cui l’Apocalissi non può prevedere un Regno a venire, la stessa carica sovversiva del “pensiero della fine” è completamente spuntata – il nuovo non può essere il radicalmente nuovo, il tutt’altro rappresentato dal Regno, la “rivoluzione” in termini secolarizzati, ma soltanto il parzialmente nuovo della gestione umana e terrestre in tempi di crisi permanente, in cui l’affidamento a un potere forte è, dal punto di vista psichico-individuale e sociale-collettivo, l’epifenomeno dell’impossibilità di pensare un Regno a venire dinanzi a un’Apocalissi di cui si costruisce costantemente l’evocazione.

Gli strumenti concettuali di Mark Fisher non sembrano lasciare via di scampo, nonostante qualche flebile apertura nelle conclusioni del suo pamphlet a un ottimismo della volontà (il pessimismo della ragione è, per così dire, prevalente): eppure, è possibile rinvenire, all’interno della riflessione contemporanea, anche in quella che sembra essere maggiormente permeata di “realismo capitalista”, alcuni elementi che possono permettere di aprire qualche seppur minimo squarcio all’interno delle rappresentazioni collettive che dominano l’immaginario. Si tratta di mettere alla prova il pensiero perché – in tempi di virtuale e di rappresentazione quanto mai mediata della realtà – immaginare nuovi mo(n)di potrebbe comportare immediatamente immaginare nuove pratiche: non si tratta di una sorta di idealismo fuori tempo massimo – vale a dire l’idea che il pensiero nel suo cammino inesorabile e dialettico produca la realtà, anche perché l’eventuale e oramai poco alla moda Spirito trionfante lo si potrebbe rinvenire soltanto a giochi fatti – ma di un nuovo materialismo che superi l’imposizione di un “realismo” fantasmatico e strutturante non solo la “realtà” ma anche e soprattutto la “rappresentazione” della “realtà”, mediante l’utilizzazione di immagini capaci di promuovere (muovere in avanti) immediatamente interventi materiali e concreti, scacciando il fantasma della “realtà” e facendo riemergere il “reale” in tutta la sua potenza metamorfica e trasformatrice.

 

 

  1. «Una cosmologia proteiforme e liminare»[55]

Se è vero che oramai dobbiamo analizzare la realtà che ci circonda a partire dagli iperoggetti, di cui la soggettività sarebbe soltanto un modo di espressione dell’inter-oggettività fondamentale[56], mostrando una buona dose di umiltà nella “gestione” conoscitiva e pratica del “mondo”, essendo molteplici i punti ciechi e inosservabili da parte dell’uomo, è almeno altrettanto vero che il compito della filosofia, nel qui e ora della crisi epocale che stiamo attraversando, deve essere quello di creare immagini e pratiche, partendo dal presupposto ontologico, posto da Emanuele Coccia pensando a partire dalle piante, che «essere significa […] fare mondo»[57]. Nell’epoca dell’Antropocene, la filosofia potrebbe avere, ancora o forse di nuovo, un compito importante, quello di pensare e agire in maniera creativa, di scardinare le false apparenze del “realismo capitalista” a partire dall’imposizione nell’arena delle verità del principio fondamentale per cui «pensare significa sempre impegnarsi nella sfera delle apparenze, non per esprimere un’interiorità nascosta, né per parlare o dire qualcosa, ma per mettere in comunicazione esseri diversi»[58]. Non si tratta evidentemente di rivendicare alla filosofia – o al sapere tout court – una potenza di fare mondo, nel senso tutto moderno di plasmarlo a proprio piacimento, di trasformarlo nella maniera che più ci aggrada, salvo rilevare che la realtà oppone “resistenza” a ogni pretesa di “presa” totalizzante, quanto piuttosto di restituire alla filosofia la sua potenza di mescolanza e metamorfosi, speculare all’agency fondamentale del reale. Dovrebbe essere oramai un dato di fatto che la natura non è semplicemente un oggetto sul quale compiere, dal punto di vista teoretico e pratico, una certa “presa” – cosa che difficilmente può essere ancora messa in discussione, soprattutto ai tempi dell’Antropocene e del surriscaldamento globale –, come del resto dovrebbe essere accolto come un dato di fatto che noi apparteniamo profondamente a quella “mescolanza” universale che è il senso complessivo del reale e della natura, di quel reale e di quella natura di cui non ne rappresentiamo un’eccezione. Questo non significa, però, richiamare ancora una volta il principio del siamo tutti sulla stessa barca: innanzitutto, perché il “tutti” è ancora troppo antropocentrico, esclusivo (nella sua doppia accezione semantica) ed escludente, in secondo luogo perché noi non stiamo al mondo come un passeggero o un naufrago sta su una barca o una scialuppa di salvataggio. “Noi” non occupiamo una posizione privilegiata ma siamo mescolati al/nel mondo, apparteniamo a questa mescolanza, a questo processo metamorfico, e questa affermazione di “modestia” può aprire uno squarcio fondamentale nella rappresentazione ideologica nella quale siamo immersi: la necessità di una “cosmologia” rinnovata, capace di creare un “discorso sul cosmo” all’altezza dei pericoli dell’Antropocene, risiede nel fatto fondamentale di un’intuizione profonda di co-appartenenza e di co-costruzione del reale da parte di tutti i suoi elementi viventi e nonviventi. «Siamo compost, non postumani» afferma sorprendentemente Donna Haraway nel suo Staying with trouble «abitiamo l’humusità, non l’umanità […] le creature, che siano umane o meno, con-divengono insieme, si compongono e decompongono a vicenda, in ogni scala e registro di tempo o di sostanza, in nodi simpoietici»[59]. Restare in contatto con il problema significa che «bisogna essere presenti nel mondo in quanto creature mortali interconnesse in una miriade di configurazioni aperte fatte di luoghi, epoche, questioni e significati», essere totalmente presenti significa sganciare il “presente” dal rapporto retrospettivo con un passato che di volta in volta si manifesta come terribile o paradisiaco, e dal rapporto prospettivo con un futuro che di volta in volta si manifesta come salvifico o catastrofico.

Una filosofia che sia all’altezza della sfida dell’Antropocene deve sviluppare una “cosmologia” che abbia al proprio centro, sempre utilizzando il linguaggio della Haraway, il wordling, il mondeggiare, il farsi comune del mondo, a partire dalla relazione tra viventi e nonviventi; una cosmologia della mescolanza significa che se “essere è fare mondo”, allora non c’è semplicemente la sovrapposizione tra essere e divenire, ma tra essere e con-divenire. La condivisione, la “solidarietà” e la “cooperazione” che compongono il mondeggiare, il con-divenire della realtà vivente e nonvivente deve essere un punto di partenza fondamentale per comprendere il significato profondo che dobbiamo dare al termine “ecologia” e alla sua declinazione “politica”.

Emanuele Coccia, in un libro tanto profondo quanto suggestivo, cerca di costruire una nuova “cosmologia proteiforme e liminare” a partire dalla vita delle piante: si tratta di un progetto che intende innanzitutto descrivere le piante come «la ferita sempre aperta dello snobismo metafisico che contraddistingue la nostra cultura» o anche «il ritorno del rimosso, di cui ci dobbiamo sbarazzare per poterci considerare diversi: uomini, razionali, esseri spirituali» o addirittura «il tumore cosmico dell’umanesimo, i residui che lo spirito assoluto non riesce a eliminare»[60]; ma non solo: si tratta di un progetto che intende ritrovare il filo perduto dell’impegno filosofico dinanzi alla realtà, restituire al fare filosofia la sua attitudine fondamentale di fare mondo, wordling, mondeggiare.

Lo stesso paradigma della “vita” viene messo in discussione, se ragioniamo a partire dalla vita delle piante, a tal punto che non si può non rilevare che «la vita si definisce innanzitutto come qualcosa che circola tra i viventi» e questo circolare metamorfico è dovuto al fatto che «la vita delle piante è una cosmogonia in atto, la genesi costante del nostro cosmo»[61]: il meccanismo dell’autotrofia – il fatto di trasformare in vita la luce, la materia e l’aria, ciò che costituisce il mondo per gli animali umani e nonumani – è il motivo per cui sono fondamentalmente loro, le piante, a fare mondo; l’organismo animale è formato completamente da materiale organico creato dalle piante, il 90% della biomassa del pianeta è formato da piante, la maggior parte degli oggetti e degli strumenti che utilizziamo deriva dalle piante, tutta la vita animale superiore si nutre dello scambio gassoso delle piante: «il nostro mondo è un fatto vegetale, prima di essere un fatto animale»[62].

Dal punto di vista epistemologico, e poi di fatto ontologico, le piante mettono in crisi quello che è l’assunto fondamentale delle scienze biologiche e naturali degli ultimi secoli, non scardinato fino in fondo neanche dalla rivoluzione darwiniana e dalla sua comprensione odierna, vale a dire la rappresentazione di una priorità dell’ambiente sul vivente; sono i viventi – e innanzitutto le piante – a co-creare l’ambiente in cui vivono, per cui la relazione di adattamento (dunque, anche la resilienza) è qualcosa di molto più complesso e imbricato, si tratta di una vera e propria co-costruzione, nonché di una complessificazione del rapporto tra contenente e contenuto: «quando c’è vita, il contenente riposa nel contenuto (e quindi è da esso contenuto) e vice versa»[63] – in questo senso, respirare rappresenta al meglio questa esperienza, così come l’avevano intuita gli antichi quando, per definire il senso complessivo di ciò-che-è, la razionalità del cosmo, hanno parlato di pneuma, soffio vitale, respiro vivente della realtà.

Donna Haraway, appoggiandosi agli studi della biologa eterodossa Lynn Margulis, lavora a questa cosmologia mediante la definizione, in termini (per così dire) filosofici, di una serie di concetti biologici. Innanzitutto, si parla di simpoiesi, il fatto fondamentale che «le creature si penetrano a vicenda, si riavvolgono l’una attorno all’altra e l’una attraverso l’altra […] e così definiscono degli ordini simpoietici altrimenti noti come cellule, organismi e assemblaggi ecologici»[64]: gli studi di Lynn Margulis avrebbero dimostrato che l’inizio della “vita complessa” non si ha semplicemente mediante un “salto” che sfugge alla pre(te)sa conoscitiva, ma mediante una vera e propria simbiogenesi – le cellule eucariotiche si sono originate come una sorta di comunità di entità preesistenti che hanno iniziato a interagire tra loro, incorporandosi. Questa teoria non è stata accolta nell’immediato, anzi ha suscitato molte perplessità nella comunità scientifica, soprattutto perché sembrava mettere in discussione la pervasività del dispositivo darwiniano della “selezione naturale” (nonostante si ammetta che soltanto grazie a quest’ultima è stato possibile che questa dinamica simbiogenetica “si fissasse”): le prove accumulate negli ultimi tre decenni sembrano però confermarne la validità, anche perché al momento è ritenuta essere l’unica spiegazione plausibile nella discontinuità esistente tra il mondo dei procarioti e quello degli eucarioti. Tre sono gli aspetti fondamentali che questa teoria può proporre alla riflessione filosofica: innanzitutto, la messa in crisi del concetto stesso di “individuo” biologico, proiezione tipicamente moderna delle relazioni tra agenti all’interno di un immaginario che muove dall’atomizzazione sociale e dall’utile come unico movente dell’azione comune[65]; in secondo luogo, il fatto fondamentale che il meccanismo che guida la vita e la sua evoluzione non è tanto la “lotta” quanto la “cooperazione” e la “solidarietà”; in terzo luogo, la questione determinante della co-costruzione della natura da parte degli esseri viventi e del loro ambiente, che fa saltare alcune analogie tra biologico e sociale per quanto concerne l’adattamento[66].

Gli elementi che dobbiamo tenere presenti in vista della possibilità di pensare/immaginare una cosmologia all’altezza dell’Antropocene, capace di muovere rappresentazioni e pratiche, sono i seguenti.

Innanzitutto, una nuova rappresentazione del mondo e della natura per cui «il mondo non è l’insieme logico di tutti gli oggetti, né una totalità metafisica di esseri, ma la forza fisica che attraversa tutto ciò che si genera e si trasforma» e la «natura non designa quel che precede l’attività dello spirito umano, né ciò che si oppone alla cultura, ma ciò che permette a ogni cosa di nascere e di divenire»[67] – potrebbe per certi versi sembrare un ritorno a un’età pre-scientifica dagli accenti profondamente greci, un ricorso a una mitologia “primitiva” con un certo gusto per l’esotismo dell’arcaico, un tentativo di superare la distinzione tra natura e cultura non in avanti, cercando nuove ibridazioni, ma con una capriola all’indietro, uno sguardo malinconico nei confronti di un passato perduto, e invece si tratta di costruire una nuova rappresentazione del “cosmo” che è allo stesso tempo un ingiunzione e un compito per l’azione: «per conoscere il mondo» dice sempre Coccia «occorre scegliere a quale grado di vita, a quale altezza e a partire da quale forma vogliamo osservarlo e, dunque, viverlo»[68] – si tratta a nostro avviso di un’ingiunzione fondamentale per quanto concerne quella che possiamo chiamare una politica ecologica o cosmopolitica: l’azione che collettivamente occorre mettere in campo è quella a partire da un posizionamento decentrato, che non veda più l’anthropos al centro, mezzo e fine dell’intero processo della realtà, ma l’intero sistema di co-costruzione, in cui il “tutti” deve essere declinato nei termini di una promozione di collaborazione tra viventi umani, viventi nonumani e realtà nonvivente: non si tratta di “tutelare” qualcosa che chiamiamo “natura” (e che ci appare sempre estraneo), si tratta di pensare un intervento immaginifico e politico che rovesci contemporaneamente la visione di una realtà divisa tra umano e nonumano, e una politica economica che muove dall’umano per ritornare all’umano, sfruttando la proiezione naturalizzante sul mondo e sugli stessi uomini, “scarti” funzionali al Capitale.

Occorre, dunque, mettere in campo una cosmologia (e cosmogonia) vivente, che muova da una storicità che non appartiene più soltanto all’umano (se per “storia” deve intendersi “costruzione” del mondo, allora i viventi lo costruiscono da sempre) e che presenta una serie di “epoche” che si pongono sul lunghissimo periodo: la prima si ha con l’azione dei primi organismi capaci di fotosintesi, i cianobatteri, i quali si muovevano in un ambiente privo di ossigeno e che con la loro azione hanno dato avvio, nell’arco di circa un miliardo di anni, all’accumularsi di ossigeno a formare l’atmosfera – l’atmosfera che rappresenta la possibilità stessa del nostro mondo; contemporaneamente, questa “epoca” è caratterizzata dalla simbiogenesi e dalla cooperazione che ha portato alla nascita della vita complessa: le cellule eucariotiche non sono altro che la fusione di due organismi precedenti, che, “collaborando” (scambiandosi materiali genetici), hanno dato vita alle cellule complesse, che hanno goduto di un vantaggio evolutivo notevole, tale da fissarsi mediante la “selezione naturale” – questa prima epoca ha avuto presumibilmente la durata di circa due miliardi di anni; la seconda “epoca” è segnata dall’avvento delle piante vascolari, grazie alle quali l’atmosfera si è stabilizzata: «grazie alle piante, la terra diventa definitivamente lo spazio metafisico del respiro (…) la fotosintesi è un grande laboratorio atmosferico di trasformazione dell’energia solare in materia vivente»[69]. Le caratteristiche tipiche del vivente sarebbero dunque da un lato la cooperazione e dall’altro l’immersione in un fluido, che, nel caso della vita sulla terraferma, è rappresentato dall’atmosfera; se la cooperazione è ciò che ha dato avvio alla “vita” stessa nelle sue forme complesse, l’immersione rappresenta una forma di azione e compenetrazione tra vita e ambiente: «il soggetto e l’ambiente agiscono l’uno sull’altro e si definiscono a partire da questa azione reciproca»[70] per cui «se ogni vivente è un essere nel mondo, ogni ambiente è un essere-nei-viventi»[71]. È proprio in questo senso che l’immersione fa saltare anche la distinzione tra “essere” e “fare”, dal momento che il vivente, proprio in quanto è, fa il mondo attraversandolo: ogni organismo rappresenta una maniera specifica di “fare mondo”.

Riassumendo, è possibile affermare che, a qualunque livello o “punto di vita” originario ci si ponga, batteri (Lynn Margulis) o piante (Emanuele Coccia), gli elementi decisivi di questa cosmologia sono: 1) “essere è fare mondo”, 2) “essere è cooperazione”, 3) “essere è immersione”. L’immersione fondamentale come forma-di-vita, il “fare” mondo e non “subirlo” come pressione ambientale e la cooperazione come manifestazione primaria della vita, possono rappresentare i primi elementi per cercare di scardinare il “realismo capitalista” dell’Antropocene: certo, si potrebbe ritenere che la trasposizione sul piano delle relazioni umane di questa rappresentazione biologica sia di carattere analogico (la funzione della biologia nella modernità ha avuto proprio questa funzione, anche nelle forme peggiori, come il darwinismo sociale), ma è anche vero che la costruzione di un nuovo immaginario deve sempre passare per un conflitto tra regimi discorsivi, occorre che una visione divenga prevalente e, per certi versi, vincente per potersi affermare come definitivamente vera – e questa visione ha un potenziale di verità e un potenziale politico decisamente emancipativo e che tiene conto di tutte le problematizzazioni contemporanee, dallo sfruttamento capitalistico old style dell’industria meccanizzata ai neo-sfruttamenti individualizzanti del “capitalismo cognitivo”, passando chiaramente per l’emergenza totalizzante del surriscaldamento globale.

Se affidarsi a un tipo di lavoro filosofico, che richiama per certi versi quello dei filosofi pre-socratici, può aprire la strada a puntualizzare alcuni aspetti di una possibile “cosmologia” all’altezza dell’Antropocene e delle sue contraddizioni immanenti, allora il passaggio dalla teoresi alla prassi – e dunque alla politica – potrebbe muovere proprio da queste intuizioni: ci rendiamo conto che queste conclusioni potrebbero rivelarsi naïf, e che bisognerebbe sempre fermarsi, per “dovere” scientifico, alla pars destruens, l’unica davvero argomentabile, ma delineare alcuni profili in vista di una pars costruens rappresenta quello che potremmo definire il vero “bisogno” da coltivare in tempi di Antropocene, in tempi di rassegnazione al peggio, in tempi in cui il “realismo capitalista” ha già annunciato da tempo la fine delle alternative, in tempi in cui tutt’al più ci tocca coltivare la virtù della resilienza.

Innanzitutto, allora, occorre volere la fine della natura così come è stata “costruita” nell’immaginario moderno per iniziare a volere la fine del capitalismo e del suo “realismo” ideologizzato: la rappresentazione di una natura come oggettiva e quantificabile, a disposizione della presa umana anche quando “imbizzarrita”, l’idea di una separazione netta tra natura e cultura come fondamento del dominio e dello sfruttamento della natura da parte dell’uomo e dell’uomo da parte dell’uomo, l’immaginario di una tecno-scienza neutra, non situata né liberatoria, ma prometeica e schiavizzante, il there is no alternative come disattivazione della potenza dell’avvenire, tutto questo deve essere de-costruito, e questo processo di de-costruzione può avvenire solamente a partire da una “cosmologia” rinnovata che ci restituisca un’immagine della natura come processo complesso di co-costruzione e co-evoluzione, come imbricamento fondamentale tra realtà viventi e nonviventi, come solidarietà e cooperazione tra viventi nella costruzione del mondo comune – nella natura nessuna specie è eccezionale e non esiste individualismo dal punto di vista biologico, la tecno-scienza e la cultura come specifico milieu umano devono essere messe al servizio di un programma di liberazione universale oltre sfruttamento e dominio, centrale deve essere la coltivazione di alternative e una rappresentazione dell’avvenire come aperto, un giusto equilibrio tra spontaneismo e organizzazione. La solidarietà deve essere pensata come esigenza cosmica, il fare-mondo in una collaborazione orizzontale deve essere pensato come processo universale: dal punto di vista politico, significa mettere in campo un progetto per una rinnovata ecologia-mondo, una strutturazione rinnovata del rapporto tra viventi umani e viventi nonumani, tra viventi e nonviventi, che vada al di là dei paradigmi del dominio e della tutela; significa ovviamente non avere timore di rinnovare una pratica del conflitto, perché evidentemente ce ne sarà bisogno: volere la fine di una configurazione epocale, di un’ecologia-mondo che annulla la potenza dell’avvenire, significa dover mettere in campo tutti gli strumenti, significa che l’alternativa la si deve costruire all’interno di un campo polemico: la verità è forse una questione di potere, ma il potere è sicuramente una questione di verità, e la lotta è il suo strumento decisivo.

Un secondo elemento – a partire dal volere la fine della natura così come è stata costruita nella modernità – è dunque lavorare alla creazione del radicalmente nuovo nella rappresentazione del mondo e dell’uomo e nella co-costruzione del mondo e dell’uomo: il primo passo è definire le responsabilità proprie del percorso congiunto di modernità riflessiva e sviluppo del modo di produzione capitalistico nel deterioramento della situazione attuale; il secondo passo conseguente è far saltare l’immaginario del siamo tutti sulla stessa barca, mostrando allo stesso tempo le contraddizioni fondamentali dell’intero percorso della modernità e la cattiva coscienza del there is no alternative.

Terzo e ultimo elemento è far saltare ogni principio che muova da una rappresentazione di carattere escatologico: come abbiamo visto, il tempo dell’Antropocene si gioca tra il millenarismo della gestione delle “cose penultime” e il catastrofismo che congela l’azione possibile di trasformazione e costruzione del nuovo; non è più tempo di “rinvio” né di “attesa” o di “preparazione al peggio”, si tratta piuttosto di una chiamata alla costruzione del radicalmente nuovo: la storia non è finita e le alternative sono sempre un passo più in là della visibilità, ma sono presenti e attive – trasformare il mondo è l’attività propria di ogni vivente, nell’immersione fondamentale del mondeggiare, e lavorare su questa immagine cosmologica, accompagnata dalla cooperazione e dalla immersione come caratteristiche ontologiche fondamentali, può significare lavorare su una serie di pratiche trasformative del reale che tengano conto del presupposto fondamentale della comune appartenenza a un’immersione che non prevede né soggezione né sfruttamento, ma cooperazione e solidarietà, allo stesso tempo rispetto e costruzione della meraviglia del tutto.


[1] Sono due visioni concettuali, opposte e conflittuali, che si richiamano all’eco-socialismo: da un lato John B. Foster parla di “frattura metabolica” nel rapporto uomo-ambiente, dall’altra Jason W. Moore parla di “passaggio di stato”. Per la “critica” di Moore a Foster cfr. J.W. Moore, Ecologia mondo e crisi del capitalismo. La fine della natura a buon mercato, tr. it. ombre corte, Verona 2015, in particolare il saggio Frattura metabolica o cambiamento metabolico? Dal dualismo alla dialettica nell’ecologia-mondo capitalista, pp. 138-160; per una risposta puntuale di Foster cfr. l’intervista In Defense of Ecological Marxism: John Bellamy Foster responds to a critic, consultabile online su: https://climateandcapitalism.com/2016/06/06/in-defense-of-ecological-marxism-john-bellamy-foster-responds-to-a-critic/ (link consultato il 19 marzo 2020).

[2] Sulla questione della storia si è interrogato e continua a interrogarsi Dipesh Chakrabarty, cfr. (almeno) D. Chakrabarty, The Climate of History: Four Theses, in «Critical Inquiry», 35, 2009, pp. 197-222, Id., Postcolonial Studies and the Challenge of Climate Change, in «New Literary History», 43, 2012, pp. 1-18, Id., Anthropocene Time, in «History and Theory», 57, 2018, pp. 5-32.

[3] Si tratta delle posizioni prometeico-eccezionaliste degli ecomodernisti da un lato (cfr. http://www.ecomodernism.org/italiano – link consultato il 19 marzo 2020) e dall’altro della proposta di Donna Haraway (cfr. D. Haraway, Chthlucene. Sopravvivere su un pianeta infetto (2016), tr. it. Nero, Roma 2019).

[4] Una critica a una certa moda della “modernità riflessiva”, in riferimento proprio alle questioni del surriscaldamento globale, del clima e dell’Antropocene si trova in C. Bonneuil, J.-B. Fressoz, L’événement Anthropocène. La terre, l’histoire et nous, Editions du Seuil, Paris 2016.

[5] Su queste questioni ci permettiamo di rinviare al nostro D. Salottolo, L’esperienza allargata. Riflessioni sull’Antropocene, in «S&F_scienzaefilosofia.it», 21, 2019, pp. 50-75.

[6] Ci riferiamo da un lato alla collapsologie (cfr. P. Servigne, R. Stevens, Comment tout peut s’effondrer. Petit manuel de collapsologie à l’usage des générations presente, Editions du Seuil, Paris 2015) e dall’altro ad alcuni spunti di etica ambientale applicati alla questione dell’Antropocene (cfr. G. Pellegrino, M. Di Paola, Nell’Antropocene. Etica e politica alla fine di un mondo, DeriveApprodi, Roma 2018).

[7] All’interno delle posizioni più riconosciute sull’Antropocene sembra potersi cogliere sia un mood escatologico sia, in senso più specifico, un’attitudine catecontica, un posizionarsi nel “tempo della fine” e un’invocazione di un “potere che frena” (quest’ultima espressione è tratta ovviamente da M. Cacciari, Il potere che frena, Adelphi, Milano 2013).

[8] Per una critica di carattere postcoloniale cfr. S. Barca, L’Antropocene: una narrazione politica, in «Riflessioni sistemiche», 17, 2017, pp. 56-67; il siamo tutti sulla stessa barca è uno dei refrain della narrazione mainstream, ma per una versione per certi versi bizzarramente postcoloniale del medesimo ritornello cfr. B. Latour, Tracciare la rotta. Come orientarsi in politica (2017), tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano 2018.

[9] Per le questioni connesse alla fortuna del termine “Gaia” per descrivere il nuovo pianeta Terra dell’Antropocene cfr. I. Stengers, Au temps des catastrophes. Résister à la barbarie qui vient, La Découverte, Paris 2013, e B. Latour, Face à Gaïa. Huit conférences sur le Nouveau Régime Climatique, La Découverte, Paris 2015.

[10] Ci riferiamo allo strano elastico che si crea tra la rappresentazione di una “responsabilità individuale” che, nei casi degli effetti del cambiamento climatico, non può essere trovata, ma su cui si fonda la nostra idea fondamentale di “morale”, e la rappresentazione di una “responsabilità collettiva”, per gli stessi motivi sfuggente e inafferrabile.

[11] Si tratta dei due “paradigmi” (per così dire) che si contendono la narrazione dominante dell’Antropocene: quello del “dominio” è proprio degli ecomodernisti, mentre quello della “tutela” proprio degli ecocatastrofisti – si tratta del travaso dei due elementi fondamentali del racconto biblico all’interno delle questioni dell’etica ambientale e dell’ecologia (l’uomo come destinatario della creazione sulla quale può e deve dominare o l’uomo come pastore della creazione che deve essere oggetto di rispetto e salvaguardia in quanto effige del Signore).

[12] Nel corso del saggio analizzeremo la questione TINA (there is no alternative) e la neutralizzazione del conflitto e dell’immaginario con M. Fisher, Realismo capitalista (2009), tr. it. Nero, Roma 2018.

[13] Sulla decrescita cfr. S. Latouche, Come si esce dalla società dei consumi. Corsi e percorsi della decrescita (2010), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2011 (ma se ne sarebbero potuti scegliere molti altri dello stesso autore); sull’accelerazionismo di “sinistra” cfr. N. Srnicek, A. Williams, Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro (2015), tr. it. Nero, Roma 2018; per la versione “oscura” e “(neo)reazionaria” si può iniziare consultando il blog http://www.xenosystems.net/.

[14] Segnaliamo, a titolo di esempio perché in realtà le definizioni sono oramai innumerevoli, Capitalocene, Chthulucene, Plantationocene, Oligantropocene, Negantropocene, Tecnocene, Trumpocene, ognuna volta a mettere in luce una caratteristica, considerata determinante, del nuovo tempo. Ci permettiamo di rinviare al Dossier Umano troppo (poco) umano? in «S&F_scienzaefilosofia.it», 21, 2019, pp. 7-198.

[15] «Antropocene alla moda: un modo specifico di pensare le origini e l’evoluzione della crisi ecologica moderna […] ha funzionato non solo in ragione della sua plasticità, ma anche perché ben si adatta a una visione di popolazione, ambiente e storia governata dall’uso delle risorse (alimentari e non) e astratta dalle classi e dagli imperi (tra le altre cose)», J. W. Moore, Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nell’era della crisi planetaria (2016), tr. it. ombre corte, Verona 2017, p. 30.

[16] W. Steffen, J. Grinevald, P. Crutzen, J. McNeill, The Anthropocene: conceptual and historical perspectives, in «Philosophical Transactions of The Royal Society» 369, 2011, pp. 842-867.

[17] Cfr. P.J. Crutzen, E. F. Stoermer, The Anthropocene, in «IGPB Newsletter», 41, 2000, e in italiano soprattutto Id., Benvenuti nell'Antropocene. L'uomo ha cambiato il clima, la Terra entra in una nuova era, Mondadori, Milano 2005.

[18] W. Steffen, J. Grinevald, P. Crutzen, J. McNeill, The Anthropocene: conceptual and historical perspectives, cit., pp. 842-843. Si tratta soltanto della prima pagina dell’articolo, chiaramente anche nella prosecuzione si parla quasi esclusivamente di umanità in generale.

[19] Ibid., pp. 843-845.

[20] Ibid., pp. 845-847.

[21] Utilizziamo questo termine giocando semanticamente con il concetto di “teodicea”: si tratta della narrazione della storia umana in cui il “male” presente e commesso dagli uomini è fondamentalmente giustificato perché funzionale alle necessità del progresso e alle sue magnifiche sorti.

[22] Tra l’altro, non si trova alcun riferimento a quella che possiamo definire una “storia della tecnica”, né una riflessione sul rapporto tra natura e tecnica nella vicenda umana.

[23] L’assenza programmatica di finalismo nella riflessione darwiniana è l’elemento che non riesce a essere accolto dal nostro sistema di pensiero; si tratta di un dato di fatto oramai accettato pressoché universalmente dalla comunità scientifica, eppure nel modo di procedere anche scientifico della riflessione sulle tematiche connesse all’Antropocene – quando si tratta di narrare la condizione del presente e delineare scenari per il futuro – sembra che non si riesca ad accoglierlo neanche a distanza di più di 150 anni: le motivazioni sono complesse e di carattere ideologico. A titolo di esempio e per chiarezza espositiva cfr. S. J. Gould, Questa idea della vita. La sfida di Charles Darwin (1977), tr. it. Codice Edizioni, Torino 2015.

[24] W. Steffen, J. Grinevald, P. Crutzen, J. McNeill, The Anthropocene: conceptual and historical perspectives, cit., pp. 847-849.

[25] Ibid., p. 848.

[26] Ibid., pp. 849-853.

[27] Ibid., pp. 853-860.

[28] «Without careful management of phosphorus production and distribution in an equitable and long-term manner, a deterioration of food security in some parts of the world, as well as diminishing supplies of petroleum, could slow the Great Acceleration significantly in the near future», ibid., p. 854.

[29] «The geo-engineering approach based on this phenomenon is to deliberately enhance sulphate particle concentrations in the atmosphere and thus cool the planet, offsetting a fraction of the anthropogenic increase in greenhouse gas warming. The cooling effect is most efficient if the sulphate particles are produced in the stratosphere, where they remain for one to two years. Near the ground, the cooling effect of sulphur particles comes at a substantial price as they act as pollutants affecting human health. According to the World Health Organization, sulphur particles lead to more than 500 000 premature deaths per year worldwide. Through acid precipitation (“acid rain”) and deposition, SO2 and sulphates also cause various kinds of ecological damage, particularly in freshwater bodies. This creates a dilemma for environmental policymakers, because emission reductions of SO2, and also most anthropogenic organic aerosols, for health and ecological considerations, add to global warming and associated negative consequences, such as sea level rise. According to model calculations by Brasseur & Roeckner, complete improvement in air quality could lead to a global average surface air temperature increase by 0.8°C on most continents and 4°C in the Arctic. Needless to say, the possibility of adverse environmental side effects must be fully researched before countermeasures to greenhouse warming are attempted», ibid., p. 858.

[30] Ibid., pp. 860-862.

[31] Il riferimento è chiaramente a Z. Bauman, Vite di scarto (2004), tr. it. Laterza, Roma-Bari 2007.

[32] «Dell’Antropocene esiste già un racconto ufficiale: “noi”, la specie umana, avremmo in passato e inconsciamente distrutto la natura fino ad alterare il sistema Terra. Verso la fine del XX secolo, un pugno di “scienziati del sistema Terra”, di climatologi, di ecologi, ci hanno infine aperto gli occhi: ora noi sappiamo, ora noi abbiamo coscienza delle conseguenze globali dell’agire umano», cfr. C. Bonneuil, J.-B. Fressoz, L’événement Anthropocène, cit., p. 12. Si tratta di un libro molto importante perché, con profonda sapienza storica, ricostruisce il percorso della rimozione ideologica del problema ambientale; la metodologia seguita è quella della “polemica delle idee”, lo scontro tra visioni che accompagna ogni epoca, e che vede una vincere sull’altra, e la vincente divenire “verità”.

[33] È chiaro che, dal punto di vista epistemologico e politico allo stesso tempo, andrebbe discussa anche la questione sul “come si costruisce l’oggettività e la percezione dell’oggettività”: si tratta di un problema di grande portata che non possiamo affrontare all’interno di questo saggio, pur permanendo, in molte sue parti, come sottofondo e sottotesto.

[34] Ci riferiamo ai problemi politici connessi all’epistemologia, in questo senso non smettiamo mai di invocare quell’«elettroshock epistemologico» di cui parla Donna Haraway in vista di «conoscenze, quelle parziali, localizzabili, critiche, che sostengono la possibilità di reti di relazioni chiamate in politica solidarietà e in epistemologia discorsi condivisi», cfr. D. Haraway, Saperi situati: la questione della scienza nel femminismo e il privilegio di una prospettiva parziale, in Id., Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo (1991), tr. it. Feltrinelli, Milano 2018.

[35] Cfr. T. Todorov, La paura dei barbari. Oltre lo scontro delle civiltà (2008), tr. it. Garzanti, Milano 2009.

[36] Cfr. I. Stengers, Au temps des catastrophes, cit.

[37] Cfr. nota 7.

[38] Cfr. E. Coccia, La vita delle piante. Metafisica della mescolanza (2016), tr. it. il Mulino, Bologna 2018.

[39] Cfr. D. Haraway, Chthulucene, cit., pp. 89-141.

[40] M. Fisher, Realismo capitalista, cit., p. 28.

[41] Ibid., p. 26.

[42] Ibid., p. 30.

[43] Ci riferiamo ovviamente a F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo (1992), tr. it. Rizzoli, Milano 1992.

[44] M. Fisher, Realismo capitalista, cit., p. 37.

[45] Ibid., p. 38

[46] Ci riferiamo alla riflessione del filosofo di origine coreana Byung-Chul Han: cfr. (almeno) B.-C. Han, Nello sciame. Visioni del digitale (2013), tr. it. nottetempo, Milano 2015, Id., Psicopolitica (2014), tr. it. nottetempo, Milano 2016. Si tratta di una riflessione che, nell’inquadrare alcune dinamiche di trasformazione delle società contemporanee, sia dal punto di vista materiale che “simbolico”, non è esente da alcuni limiti, uno dei quali lo sottolineiamo perché è al centro di questo nostro studio, l’impossibilità, che si legge in controluce nelle opere del filosofo, del superamento dell’attuale condizione. Si tratta di una rappresentazione per certi versi “apocalittica”, la diagnosi di un “male” per cui non è possibile trovare una cura. Insomma, anche nei suoi libri, per certi versi molto acuti nel rilevare alcune contraddizioni del presente, si ritrova il solito adagio nostro contemporaneo del TINA (there is no alternative).

[47] «Il realismo capitalista comporta che ci sottoponiamo a una realtà infinitamente plastica, capace di riconfigurarsi come e quando vuole (…) qui la “realtà” assomiglia alle infinite opzioni di un documento digitale, dove nessuna decisione è definitiva, le revisioni sono sempre possibili, e ogni attimo pregresso può essere richiamato in qualsiasi momento», M. Fisher, Realismo capitalista, cit., p. 110.

[48] Ci riferiamo, solo per portare un esempio, a un certo sconcerto che prende la lettura di un’opera come Chthulucene di Donna Haraway, dove, nonostante la seduzione di un immaginario originale e accattivante (alcuni degli aspetti del quale riprenderemo più avanti nell’articolo), la proposta non prende in considerazione, neanche negli aspetti più sci-fi e di previsione immaginifica, il piano sostanziale delle relazioni materiali tra gli individui. Si tratta proprio di una rimozione: non si accetta certo il sistema odierno di organizzazione della produzione e della riproduzione, semplicemente non se ne parla.

[49] M. Fisher, Realismo capitalista, cit., p. 70.

[50] Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/resilienza/ (link consultato il 20 marzo 2020).

[51] M. Fisher, Realismo capitalista, cit., p. 56.

[52] Cfr. (ovviamente) M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-1905), tr. it. BUR, Milano 2005.

[53] Certo, oggi c’è una grande “comprensione” morale per chi soffre di disturbi psichici, in termini di medicalizzazione e necessità di normalizzazione, ma l’ordine del discorso del “realismo capitalista” non può che leggerlo, al di là delle intenzioni, se non come un “disturbo individuale”.

[54] Sul tema della concezione del mondo e del rapporto al mondo nell’epoca dell’Antropocene ci permettiamo di rinviare a D. Salottolo, Considerazioni sulla nozione di mondo e di rapporto al mondo nell’epoca dell’Antropocene: saggio sulla filosofia del XXI secolo, in «S&F_scienzaefilosofia.it», 22, 2019, pp. 200-250.

[55] E. Coccia, La vita delle piante, cit., p. 145.

[56] Cfr. T. Morton, Iperoggetti (2013), tr. it. Nero, Roma 2018.

[57] E. Coccia, La vita delle piante, cit., p . 54.

[58] Ibid., p. 136.

[59] D. Haraway, Chthulucene, cit., p. 140.

[60] E. Coccia, La vita delle piante, cit., p. 11.

[61] Ibid., p. 19.

[62] Ibid., p. 18.

[63] Ibid., p. 20.

[64] D. Haraway, Chthulucene, cit., p. 89.

[65] Su questo aspetto, determinante sia dal punto di vista “biologico” che “cosmologico”, cfr. S. F. Gilbert, J. Sapp, A. I. Tauber, A Symbiotic View of Life: We Have Never Been Individuals, in «The Quarterly Review of Biology», 87, 2014, pp. 325-341. Si sottolinea che «the zoological sciences are also finding that animals are composites of many species living, developing, and evolving together» per cui la teoria della simbiogenesi sta trasformando «the classical conception of an insular individuality into one in which interactive relationships among species blur the boundaries of the organism and obscure the notion of essential identity», ibid., p. 326. L’articolo è di particolare rilievo perché dimostra come questa teoria, e le scoperte connesse a essa, possa mettere in crisi tutta una serie di paradigmi di “individualità” dominanti in biologia: anatomical individuality, developmental individuality, physiological individuality, genetic individuality, immune individuality, evolutionary individuality.

[66] Il filosofo Michel Serres nel 1990 segnalava, con un dolceamaro sapore di utopia e inattualità, che era necessario «aggiungere al contratto esclusivamente sociale la stipulazione di un contratto naturale di simbiosi o di reciprocità in cui il nostro rapporto con le cose lascerebbe dominio e proprietà per l’ascolto ammirativo, la reciprocità, la contemplazione e il rispetto, in cui la conoscenza non presupporrebbe più la proprietà, né l’azione il dominio, e l’una e l’altra non presupporrebbero i loro risultati o condizioni stercorarie», M. Serres, Il contratto naturale (1990), tr. it. Feltrinelli, Milano 2019, p. 54.

[67] E. Coccia, La vita delle piante, cit., p. 29.

[68] Ibid., p. 32.

[69] Ibid., p. 52.

[70] Ibid., p. 53.

[71] Ibid., p. 54.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *