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Dove gli opposti si attraggono. la matematica tra sapere scientifico e sapere umanistico

Autore


Ivano Zanzarella

Università di Bari-Conservatorio di Bari

si è laureato in Logica e Filosofia della Scienza presso l’Università di Bari e diplomato in Organo e Composizione presso il Conservatorio di Bari. Attualmente completa gli studi di epistemologia e di matematica presso la Ruhr-Universität di Bochum

Indice


1.Scienza e matematica: ragioni di un rapporto necessario

2. Scienza e matematica: critica della necessità di un rapporto

3. Matematica e sapere non-scientifico

4. Una prova empirica

5. Un confronto tra la scienza e l’arte

 

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S&F_n. 22_2019

Abstract


Where Opposites Meet: Mathematics Between Science And Humanities


The connection between science and mathematics is often considered necessary and insoluble. Therefore, a relationship between mathematics and humanities or arts is deemed exceptional or sometimes unnatural. Nevertheless, on the basis of historical, ontological and epistemological researches it can be noted that it’s impossible to warrant the immediate identification between mathematics and sciences on a deeper level than the practical one. Given the instrumentality and then the unnecessity of this connection, the relationship between mathematics and not-scientific disciplines is undeniable, even if the mathematics in the explicit formalisms which we know doesn’t appear in them. It’s possible to demonstrate this relationship not only with philosophical argumentations, but also whit empirical verifications, e.g. in the music and in particular in the music of J. S. Bach. Such an epistemological thought finally leads to the question on the possibility of knowledge in the art in comparison to the epistemological characteristics of the Galilean and Post-Galilean science.

 

  1. Scienza e matematica: ragioni di un rapporto necessario

Circa alla metà del secolo scorso, lo scienziato e scrittore inglese Charles Percy Snow guardava alla realtà culturale del tempo come divisa tra due vere e proprie culture differenti: la cultura scientifica e quella umanistica.

Noi oggi non possiamo che constatare la permanenza – se non l’accentuazione – di questa dicotomia. Sapere scientifico e sapere umanistico ci appaiono infatti sempre molto differenti per molti aspetti: sono differenti i soggetti che in essi operano e le istituzioni che li “materializzano”, sono diverse le loro finalità, i loro linguaggi, così come le loro caratteristiche epistemologiche intrinseche. Tra queste però, una in particolare ha assunto fin dall’inizio una grande rilevanza: il legame con la matematica. È nella matematicità del sapere scientifico che si coglie infatti in maniera più evidente la differenza che questo tipo di sapere ha con il sapere umanistico.

La nostra domanda è quindi: perché la matematica possiede un rapporto privilegiato con il sapere scientifico piuttosto che col sapere umanistico?

Storicamente, uno degli eventi più clamorosi che segnarono davvero l’inizio dell’età moderna, dopo quello della scoperta dell’America, fu certamente il radicale cambio del paradigma scientifico annunciato prima da Niccolò Copernico nel 1543 e poi da Galileo Galilei. Fino ad allora i metodi della conoscenza scientifica si erano basati in gran parte sulla teoria qualitativa di Aristotele, che spiegava ad esempio il moto attraverso le qualità intrinseche dei corpi e degli elementi di cui erano composti. Le debolezze di questo approccio, soprattutto per problemi legati all’ambito dell’astronomia, iniziavano però a essere evidenti già alla fine del ‘400. Così, si iniziò a sviluppare progressivamente un nuovo paradigma scientifico, in cui fu proprio la matematica – quindi la quantità e non più la qualità – a dimostrare di essere capace di rappresentare la nuova “anima” del rapporto intellettuale tra l’uomo e il mondo, del desiderio di conoscenza umano. A partire dalle sensate esperienze e necessarie dimostrazioni di Galilei, la matematica inizia quindi a rappresentare il linguaggio in cui viene codificato ogni tipo di sapere che pretende di dire sensatamente qualcosa sul mondo. Essa diventa una componente epistemologica fondamentale di quella che attraverso i secoli si andrà identificando sempre più nettamente come una “scienza” in sé unita e coerente[1].

Col passare dei secoli, il rapporto tra la matematica e la scienza si è caratterizzato come sempre più necessario e insolubile, tanto che oggi nessuna teoria scientifica verrebbe presa davvero sul serio se non formulata secondo la concettualità e la razionalità della matematica[2].

È dunque da indagare, dove siano le ragioni di una tale necessità, che, come abbiamo pocanzi appreso, ha radici storiche.

Una prima giustificazione della necessità del rapporto tra la matematica e la scienza è stata offerta, sul piano filosofico, da Galilei stesso. La tesi ontologica galileiana, avendo le sue radici nel pensiero pitagorico e platonico, è ancora al centro di una buona parte dell’attuale pensiero filosofico-matematico. Secondo Galilei, è l’Universo stesso a essere in sé matematico, cosicché solo una scienza che ha nella matematica il suo linguaggio più proprio può comprenderlo e spiegarlo[3]. La matematica viene interpretata in questo senso come il punto in cui si congiungono la possibilità che l’uomo ha di comprendere il mondo e la Verità stessa di quest’ultimo, che è appunto di natura matematica.

Un’ulteriore e significativa fondazione filosofica della necessità del rapporto in questione è stata data poi molto più tardi dal Neopositivismo. Essa viene giustificata in questo caso sottolineando il suo carattere pressoché esclusivo: la razionalità matematica – nello specifico la logica[4] o il linguaggio fisico-matematico[5] – diventa, insieme all’esperienza, uno dei criteri di demarcazione tra sapere scientifico e sapere non-scientifico. In altre parole, il sapere che non è formulato matematicamente, non può dirsi scienza, non può dire cioè di conoscere qualcosa e può rimanere valido, diremmo, solo come narrazione o (se pretende davvero di conoscere qualcosa) come insensata metafisica.

Questo è dunque lo sfondo filosofico generale che ha accompagnato la nascita e lo sviluppo della scienza occidentale per come noi oggi ce la immaginiamo sempre: una scienza matematizzata ovvero quantitativa, oggettiva e oggettivante, in grado di restituirci quella che dovrebbe essere indubbiamente la Verità delle cose. La conseguenza è che ovviamente tutto quel sapere che non ha in sé un legame con i principi della matematica, non ha nulla a che fare con la conoscenza della realtà.

 

  1. Scienza e matematica: critica della necessità di un rapporto

È tuttavia questo rapporto tra scienza e matematica davvero un rapporto così immediato, necessario ed esclusivo, un rapporto insomma di quasi identità?

La risposta a questa domanda non può che essere a nostro avviso negativa. Primariamente infatti, come visto precedentemente nella nostra breve disamina storico-scientifica, la presunta necessità di questo rapporto è appunto storica, per cui non “assoluta”, per così dire.

In secondo luogo, le varie giustificazioni filosofiche che nel tempo sono state date di questo rapporto appaiono sì in alcuni punti vantaggiose e condivisibili, ma nel complesso incapaci di rendere pienamente ragione del legame così “misterioso” tra matematica e scienza (o conoscenza della realtà in generale).

Prendiamo la prima tesi, quella di Galileo. È indubitabile che l’approccio ontologico galileiano abbia contribuito in larga misura allo sviluppo della scienza occidentale, specie nell’ambito della fisica. Pensare l’Universo nei termini di grandezze matematizzabili ha permesso ad esempio a Newton di formulare le sue leggi sulla gravitazione universale e, di lì, alla meccanica classica di svilupparsi fino a pieno Ottocento. Un discorso analogo si potrebbe fare con la meccanica quantistica, laddove le grandezze non sono più continue, ma discrete. Il “sostrato ideologico” di un Universo pensato come immanentemente matematico (e che non può essere altrimenti) permette ai fisici non solo di progredire nella ricerca sui fenomeni quantistici, ma addirittura di mantenere una certa continuità con la scienza del passato dopo una nuova rivoluzione scientifica, in cui il paradigma newtoniano viene praticamente cancellato a favore di una nuova concezione del mondo fisico.

Rimane tuttavia una considerazione molto semplice da fare su questa tesi ontologica. Non si è ancora data, fino a oggi, una teoria scientifica o filosofica che possa confermarla totalmente con assoluta certezza, dicendo insomma che la quantità matematizzabile rappresenta senza dubbio la vera ontologia dell’Universo, ragion per cui la scienza, che afferma di conoscerlo veramente, deve parlare necessariamente la sua stessa «lingua»[6]. La convinzione che la matematica possa rappresentare la vera ontologia dell’Universo si costruisce come tale, come vera e propria ideologia, sulla base dei successi che la scienza ottiene grazie all’applicazione della matematica alla realtà, quindi completamente a posteriori dell’attività scientifica. Saremmo dei poveri tacchini, in termini russelliani, se credessimo davvero che, siccome la matematica ha sempre funzionato quale mezzo per descrivere la realtà, allora il rapporto tra matematica e realtà non possa essere mai messo in discussione e possieda anzi qualcosa di assolutamente necessario sul piano ontologico. Tramite una forma di induzione di questo genere, basata sui continui successi del metodo matematico, non si può affatto giustificare la correttezza della tesi galileiana. Questa tesi si risolve quindi in realtà in una forma di strumentalismo che, come consuetudine, è stato ereditato dagli scienziati di generazione in generazione, nella mancanza spesso - sottolineando soprattutto la situazione dei tempi moderni - di una riflessione (e formazione) filosofica significativa a proposito dei fondamenti della scienza stessa, che porta a scambiare i successi pratici di un metodo con affermazioni ontologiche.

Del resto, è poi all’interno della filosofia matematica stessa che tale tesi ontologica, che si definisce realista, viene avversata da correnti, soprattutto formaliste e nominaliste, che non ritengono invece gli enti matematici dotati di una sussistenza ontologica propria e concreta. Da questa prospettiva, ovviamente, esse si pongono dunque contro la fondazione della necessità del rapporto tra scienza e matematica su basi ontologiche[7].

Venendo infine alla tesi (di matrice neopositivista) della matematica o della logica[8] come criterio di demarcazione e di individuazione della conoscenza vera, si può dire che essa offra certamente dei criteri solidi per l’individuazione dei caratteri che una buona scienza dovrebbe avere. Ciò ci sembra in realtà qualcosa di molto positivo, soprattutto in un’epoca come la nostra, dove proliferano continuamente teorie che si arrogano scientificità dal nulla, zichicche, fake news o strampalate affermazioni pseudoscientifiche. A livello prettamente epistemologico tuttavia, non si può affermare, con buona pace dei neopositivisti, che da sola la matematica sia una condizione necessaria della scientificità di una scienza. Essa ne è infatti, insieme ad altre variabili epistemologiche, solo una condizione sufficiente[9]. Ciò può essere provato guardando da un lato alla storia della scienza, dall’altro all’epistemologia di teorie e discipline attualmente riconosciute come scientifiche, anche se poco o nient’affatto matematizzate. Si prenda ad esempio il caso della fisica qualitativa di Aristotele. Benché oggi nessuno ne affermerebbe più la scientificità (giustamente), sta di fatto che essa è stata considerata per secoli, fino all’età moderna, l’unico paradigma scientifico possibile[10], nello stesso modo in cui noi oggi non riusciamo a pensare ad esempio a una fisica non- o post-einsteiniana; tutto questo non avendo la matematica e la quantità come suoi caratteri epistemologici principali. Il fatto che essa sia stata poi sostituita da un paradigma scientifico che si è dimostrato più di successo e magari per alcuni anche più “vero”[11] (in generale, quello quantitativo attuale), non toglie il fatto insomma che per secoli essa sia stata considerata in sé propriamente come scientifica. Allo stesso modo, si prenda il caso della teoria evoluzionistica di Darwin, attualmente ritenuta teoria scientifica. Della matematica essa presenta solo quei caratteri metodologici e assiologici legati alla sua razionalità (coerenza, consequenzialità, ecc.) che si ritrovano in realtà in ogni sapere sulle cose in senso lato, persino nella scienza aristotelica. In essa la matematicità non rappresenta una condizione necessaria perché venga considerata una teoria scientifica. È questo in realtà il caso di tutte le scienze dell’ambito medico-biologico. Queste, pur nella quasi totale assenza di “leggi” matematiche paragonabili ad esempio a quelle della fisica, vengono tuttavia considerate scienze a tutti gli effetti.

Le considerazioni intorno al rapporto tra matematica e scienza, in particolare con riferimenti alla storia, all’ontologia e all’epistemologia, ci hanno tutte portato alla conclusione che di questo rapporto non si può affermare la necessità, né ontologicamente, né epistemologicamente, piuttosto invece la contingenza legata alla storicità.

In ultima analisi si pone dunque la domanda: su cosa bisogna allora ritenerlo fondato? Per quanto ci si possa sforzare, dare una risposta definitiva a questo interrogativo è impossibile. Un rapporto del genere risulta essere infatti un vero e proprio mistero inspiegabile e, come diceva il fisico e matematico ungherese Eugene Paul Wigner[12], addirittura irragionevole. L’unica strada percorribile diventa così, a nostro avviso, l’approfondimento della nozione di “efficacia” introdotta da Wigner stesso nel suo saggio. “Efficacia” è un termine che appartiene a un campo semantico connesso a sua volta con la già introdotta categoria della strumentalità. Uno strumento è efficace (o meno) nell’eseguire la funzione per la quale è stato concepito e scelto per essere utilizzato. Così, si deve ritenere in ultima analisi che il rapporto tra matematica e scienza si basi primariamente su ragioni di ordine pratico e strumentale come la sua efficacia nella descrizione quantitativa della realtà [13], nell’impossibilità di fondarlo a un livello più profondo di questo.

La scienza quantitativa e matematizzata è efficace non solo sul piano epistemologico, riuscendo cioè a produrre spiegazioni della realtà sorprendentemente accurate, ma anche sul piano meramente materiale. Questo tipo di scienza, che è l’unico valido al quale tutti noi riusciamo a pensare, è quello che ci fa vivere una vita piena di comfort, in cui non bisogna temere di venire improvvisamente decimati da una peste bubbonica o rinunciare a comunicare quotidianamente e in tempo reale con i propri cari dall’altra parte del mondo. Ciò accade ovviamente attraverso le applicazioni tecnologiche di questa scienza, che, in un grande circolo virtuoso, tornano a giustificare la scienza stessa nella sua efficacia. A ragione di tale efficacia sul piano materiale, è persino il senso comune quindi a legittimare la scienza nel suo carattere matematico-quantitativo, semplicemente a partire dal fatto che una scienza definita altrimenti – come al senso comune è noto già da una conoscenza minima della storia degli ultimi duemila anni – non può portare a un miglioramento materiale dell’esistenza così profondo come quello cui assistiamo oggi. Rimane il fatto però che, la matematicità della scienza poggia unicamente, anche in questo caso, non su un fattore in qualche modo necessario, ma ancora su una nozione pratica.

 

  1. Matematica e sapere non-scientifico

L’impossibilità di fondare il rapporto tra matematica e scienza in modo necessario produce notevoli conseguenze a livello epistemologico. Se la matematica non appartiene unicamente alla “cultura scientifica”, non si può negare un rapporto di essa con la “cultura umanistica”. Questo sarà certamente differente dal punto di vista quantitativo rispetto al primo - la scienza è notoriamente più matematizzata rispetto all’arte - ma simile dal punto di vista qualitativo - dunque basato anche qui su una nozione pratica, come quella di efficacia. Anche nell’arte la matematica può rappresentare infatti una sorta di strumento grazie a cui costruire ed esprimere oggetti e concetti estetici, allo stesso modo in cui essa è nella scienza uno strumento di esplicazione e descrizione della realtà.

La matematica è allora uno strumento la cui applicazione ha forme, coefficienti di efficienza e utilità diversi a seconda di come viene adoperato, ma che, sulla base di questa sua dimensione strumentale, può rappresentare un’interfaccia di dialogo tra diverse forme di sapere.

Contro la tesi di un rapporto tra la matematica e il sapere non-scientifico ci sono molti argomenti, i quali poggiano soprattutto sul carattere inevidente di questo rapporto. Uno di questi riguarda ad esempio il formalismo matematico, soprattutto laddove si abbia una concezione nominalista della matematica, in cui cioè si fa coincidere la totalità del suo apparato semantico-concettuale con la sua sintassi, ovvero il formalismo mediante cui viene espressa. A partire da questi presupposti, è logico affermare che un rapporto ad esempio tra matematica e arte è impossibile perché nell’arte manca la presenza nonché la possibilità del formalismo matematico. Ciò pare tuttavia confutabile considerando in questo caso da un lato la storia delle arti – in più occasioni infatti il formalismo matematico è stato chiaramente utilizzato nella costruzione e ideazione delle singole opere[14] – e dall’altro alcune argomentazioni di ordine storico, epistemologico e logico. In primo luogo, il formalismo matematico in uso oggi non esiste da sempre ed è un prodotto storico frutto del progressivo adattamento dei concetti matematici a una modalità di espressione univoca e semplice da usare. Gli stessi sistemi di notazione matematica sono stati molti e diversi tra loro nel corso dei secoli e solo a partire dal XVIII secolo possiamo iniziare a riconoscere una matematica il cui aspetto formale somiglia a quello della matematica attuale. In secondo luogo, il formalismo matematico attuale non è l’unico modo di espressione della matematica. Non escluso che esso possa un giorno essere rimpiazzato da un sistema (formale o non) che per potenza, chiarezza e semplicità supera quello attuale[15], si può ad esempio ritenere la stessa natura, in un’epistemologia della fisica “capovolta”, un linguaggio capace di esprimere tra tanti tipi di concetti anche concetti matematici, un linguaggio fatto di gravi che cadono, moti planetari, fenomeni quantistici, ecc.. In terzo luogo, infine, è stato un grande logico e matematico del secolo scorso, Kurt Gödel, con i suoi teoremi di incompletezza a dimostrare come non ci sia una perfetta coincidenza tra il lato semantico della matematica (almeno in riferimento ad alcune sue parti) e il linguaggio formale con cui viene espressa[16], come il primo non possa essere ridotto al secondo[17].

Il formalismo non è allora una condizione necessaria della presenza della matematica in un certo sapere. Come convintamente afferma lo storico della matematica Morris Kline:

La matematica è più di un metodo, di un’arte e di un linguaggio. Essa è un corpo di conoscenza avente un contenuto che serve allo studioso di scienze fisiche e sociali, al filosofo, al logico e all’artista; un contenuto che influenza le dottrine di statisti e teologi; che soddisfa la curiosità dell’uomo che scruta il cielo e di quello che medita sulla dolcezza dei suoni musicali. […] Nel suo aspetto più generale la matematica è uno spirito, lo spirito della razionalità, è questo spirito che sfida, stimola, rinvigorisce e guida le menti umane al pieno esercizio di se stesse. È questo lo spirito che cerca di influenzare in modo decisivo la vita fisica, morale e sociale dell’uomo, che cerca di dare una risposta ai problemi posti dalla nostra esistenza, che si sforza di comprendere e controllare la natura e che si esercita nell’esplorazione e nel consolidamento delle più profonde e somme implicazioni di conoscenze già ottenute[18].

 

È anche a ragione di questa capacità pervasiva della matematica, con ragioni diremmo dunque anche antropologiche, che non si può negare del resto il rapporto tra la matematica e il sapere non scientifico.

 

  1. Una prova empirica

Oltre che attraverso argomentazioni filosofiche è possibile giustificare il rapporto tra la matematica e il sapere non-scientifico verificandolo empiricamente direttamente ad esempio nell’arte, in particolare nella musica. Nell’età antica e medievale la musica era considerata una disciplina speculativa di carattere matematico in cui si studiavano i suoni come rapporti matematici e nella quale si iniziavano addirittura a proporre quelle idee sulla quantità e sul continuo che sarebbero poi state al centro della riflessione matematica nei secoli a venire[19]. Nell’età moderna, con i progressi della scienza fisica, cambia la concezione della musica cosicché non più rapporti matematici astratti bensì osservabili fisiche (vibrazione, intensità, ecc.) iniziano a rappresentare la nuova ontologia del fenomeno sonoro[20]. La matematica assume nei confronti della musica, considerata nella sua fisicità, la stessa valenza che inizia ad avere nei confronti di qualsiasi altro oggetto fisico, ovvero una valenza esplicativo-descrittiva e strumentale. In questo periodo, der resto, fu lo stesso sviluppo in matematica delle equazioni differenziali a offrire ad esempio un valido strumento alla fisica per studiare e modellizzare la propagazione delle onde sonore e il fenomeno della vibrazione.

Il profondo legame che da sempre teneva unite la matematica alla musica dal punto di vista produttivo e creativo[21] nonché teorico-musicale non fu tuttavia cancellato o ridotto da questo nuovo approccio scientifico al fenomeno musicale e si arricchì anzi di nuovi spunti. È proprio a partire dall’età moderna che si consolidano infatti il sistema tonale, la teoria dell’armonia e della musica così come li conosciamo oggi, impensabili senza la concettualità matematica che li sottende. Il ruolo svolto dalla matematica in questo processo è identico dal punto di vista teorico e strutturale a quello svolto dalla stessa nelle scienze. Inoltre, la matematica inizia a costituire una componente importante nella poetica degli artisti e dei compositori stessi. L’esempio più significativo a tal proposito è quello della musica mathematica[22] del compositore tedesco Johann Sebastian Bach[23]. Nella sua opera, specie la produzione incentrata sul contrappunto degli ultimi anni, la definizione leibniziana della musica[24] sembra proprio trovare una concretizzazione. Un numero, un ordine di razionalità, un concetto matematico diventano sensibili a una percezione uditiva, assumendo un’ulteriore essenza di tipo estetico; il suono inizia a essere considerato unicamente nella sua idealità e non più nella sua dimensione fisica, diventa rarefatto e immateriale[25]; la musica, ormai lontana da finalità terze come la liturgia, la pedagogia o il diletto, assume l’unico scopo di provare «l’autonomia, autosufficienza e validità del linguaggio dei suoni»[26]. È così che la musica di Bach diventa speculazione, in cui elementi di ragione non vengono solo percepiti come tali nella loro astrattezza, ma anche come espressioni sensibili del “bello”.

Prendiamo ad esempio dal Musikalisches Opfer[27] il Canon 5. a 2[28]:

 

 

Qui è utilizzato il concetto geometrico di trasformazione isometrica, più in particolare di traslazione, per la costruzione della seconda linea canonica (detta conseguente, dal segno ) una quinta sopra a partire dalla prima (detta antecedente, nella partitura quella in chiave di tenore). Possiamo illustrare grazie a un grafico frequenza-tempo[29] il procedimento:

Questo canone è ancora più interessante, come fanno notare gli studi di Tony Philips ed Eric Altschuler[30], per la presenza di un altro concetto matematico, attinente questa volta all’ambito della tipologia, quello dello spazio topologico definito come toro o toroide.

Ogni partitura musicale possiede sostanzialmente due dimensioni, la frequenza dei suoni, che si sviluppa verticalmente e la durata, che si sviluppa orizzontalmente. Ora, il canone che stiamo analizzando presenta una circolarità (infinita) sia nella dimensione della durata che in quella della frequenza. Ogni iterazione delle linee canoniche conduce, per il modo in cui esse sono state strutturate, non solo a una nuova interazione uguale alla prima, ma di un tono più alta rispetto a essa e così via fino a ritornare al tono di partenza per poi ricominciare all’infinito a distanza di un’ottava[31]. Possiamo utilizzare un cilindro per semplificare il concetto con delle illustrazioni[32]:

 


Circolarità rispetto alla dimensione della durata

 

Circolarità rispetto alla dimensione della frequenza

 

Dalla composizione di queste due dimensioni si ottiene quello che in topologia si definisce toro o toroide, che quindi diventa la struttura topologica attraverso cui il canone diventa matematicamente intelligibile. Ciò è verificabile anche attraverso la costruzione della toroide come spazio quoziente di un quadrilatero i cui lati opposti vengono posti per “incollamento” come equivalenti:

 

Immaginando che su questo quadrilatero venga rappresentato in tutta la sua estensione il discorso musicale realizzato dal canone, si può notare l’equivalenza esistente tra la prima e l’ultima iterazione tanto nell’ordine della frequenza (lati B del quadrilatero) quanto in quello della durata (lati A del quadrilatero). Per il grande sforzo immaginativo richiesto può essere d’aiuto un’illustrazione:

 

Un siffatto quadrilatero equivale a uno spazio quoziente che, nella fattispecie, corrisponde allo spazio topologico del toro piatto, che qui proviamo a rappresentare, consci dell’impossibilità di questa operazione avendo a disposizione solo uno spazio bidimensionale:

 

 

In questo canone si rappresenta dunque un concetto matematico così complesso, e, che Bach ne fosse consapevole o meno nei termini in cui ne siamo consapevoli noi ora, rimane tuttavia il fascino del pensiero che un concetto matematico del genere possa essere espresso - a addirittura ascoltato - nella musica[33].

 

  1. Un confronto tra la scienza e l’arte

Si può partire dal rapporto tra l’arte e la matematica per riflettere sulle diversità tra l’arte e scienza nei confronti del problema della conoscenza. Il fatto che nell’arte rientri la matematica come possibilità, nelle forme della sua concettualità specifica o come semplice kleiniano spirito di razionalità - in una proporzione con la componente meramente estetico-edonistica decisa ovviamente di volta in volta dall’artista - ci apre a considerare gli interrogativi: esistono possibilità di conoscenza nell’arte o attraverso l’arte e, se sì, di che tipo? sono queste comparabili con quelle offerte dalla scienza?

La scienza occidentale galileiana e post-galileiana fonda su due presupposti epistemologici complementari, resi operativi anche grazie alla matematica: l’oggettivizzazione e l’esclusione sistematica della soggettività dal processo di conoscenza. La scienza conosce la realtà considerando di questa soltanto il lato oggettivo-quantitativo indipendente dall’osservatore, il soggetto che conosce o il lato soggettivo e qualitativo delle cose non ricadono all’interno del suo interesse e non svolgono alcun ruolo epistemologico. Nonostante questo tipo di impostazione epistemologica sia stata negli ultimi decenni posta in grande difficoltà dagli sviluppi della fisica quantistica e della neurobiologia, non si può ancora parlare di una nuova rivoluzione scientifica che abbia portato la scienza odierna ad acquisire un nuovo modo di funzionare[34]. In questo senso, la conoscenza scientifica è una conoscenza prospettica e parziale, perché delle cose non restituisce una verità che tiene conto sia della dimensione oggettiva che di quella soggettiva; all’interno di essa alcuni problemi, come quello della coscienza, che ha nella soggettività la sua principale caratteristica, diventano addirittura paradossi insolubili.

L’arte, d’altro canto, pur rendendosi espressione come abbiamo visto di istanze razionali e di tensioni intellettuali, le quali la pongono davanti al problema della conoscenza - soprattutto nel merito della conoscenza della soggettività, secondo le riflessioni estetiche di molti autori[35], non si limita alla considerazione delle cose da una prospettiva oggettiva - sarebbe altrimenti semplice imitazione o traduzione “in linguaggio umano” della realtà - ma si rivolge all’in sé delle cose, quell’in sé che non si lascia codificare da nessun linguaggio o contenere da una definizione e che diviene in essa unicamente oggetto di contemplazione. L’opera d’arte è ciò in cui «un ente […] viene a stare nella luce del suo essere»[36], in cui il suo essere «giunge alla stabilità del suo apparire»[37]. L’arte riesce ad arrivare insomma dove la scienza ammette i suoi limiti; essa non produce una conoscenza ontica e oggettiva delle cose, ma si rende capace di esprimerle nel loro essere, nella dimensione ovvero in cui non c’è contrapposizione bensì sintesi di soggetto e oggetto, i quali concrescono machianamente in quella che è davvero la “Verità” della realtà nella quale ci troviamo a vivere, una verità in cui la frattura tra uomo e mondo coltivata dall’inizio della filosofia e ampliata poi dalla scienza trova una ricomposizione in quello che si potrebbe definire un husserliano Lebenswelt.

Queste le due principali differenze gnoseologiche tra scienza e arte. Quale sapere venga prima, sia più autentico, più comprensivo o più vero dell’altro non costituisce propriamente un tema della presente indagine, soprattutto perché per un’indagine di questo genere servirebbe avere prima una chiara e certa ontologia da cui partire e, come abbiamo visto sopra nel contesto della tesi galileiana, una tale tesi, che sia inoltre formalmente perfetta e unanimemente accettata, si rivela ancora mancante.

Per concludere, pare interessante considerare un’idea che, specie in riferimento alla dicotomia delle culture, assume una grande importanza e attualità: l’idea che la matematica, a ragione della sua capacità pervasiva, che la rende capace di rapportarsi in modo qualitativamente identico tanto al sapere scientifico quanto a quello non-scientifico, possa costituire un criterio di unità del sapere, oltre che un’interfaccia di dialogo tra le sue diverse componenti. È importante infatti continuare a riflettere sul tema dell’unità delle culture[38], sulla base anche del peso sociale ed educativo che oggi esso riveste e, una riflessione effettuata per tramite del pensiero matematico, sembra costituire davvero un approccio ricco di spunti positivi.


[1] Della scienza come cultura unitaria pare essere convinto lo stesso Snow in C. P. Snow, Le due culture (1959), tr. it. Feltrinelli, Milano 1977, p. 9.

[2] Cfr. M. Livio, Dio è un matematico, tr. it. BUR Rizzoli, Milano 2009, p. 9.

[3] G. Galilei, Il Saggiatore, a cura di L. Sosio, Feltrinelli, Milano 1992, p. 60.

[4] O. Neurath, Wissenschaftliche Weltauffassung - der Wiener Kreis, con R. Carnap e H. Hahn, Veröffentlichungen des Vereins Ernst Mach, Wien 1929.

[5] O. Neurath, Physikalismus, in «Scientia: rivista internazionale di sintesi scientifica», 50, 1931, pp. 297-303.

[6] G. Galilei, op. cit., p. 60.

[7] Cfr. G. Lolli, Filosofia della matematica. L’eredità del Novecento, Il Mulino, Bologna 2002.

[8] Non che qui si considerino le due discipline in sé epistemologicamente coincidenti (cosa la cui impossibilità è stata per altro verificata, ad esempio, da B. Russell), bensì equivalenti unicamente nel ruolo giocato nei confronti della conoscenza.

[9] Cfr. R. P. Feynman, The Meaning of It All: Thoughts of a Citizen Scientist, Penguin, London 1998, p. 21-24.

[10] T. S. Kuhn, The Structure of Scientific Revolution, The University of Chicago Press, Chicago 1962.

[11] Nonostante, come pensava lo stesso Khun, nel cambio di paradigmi cambi la concezione stessa della verità, per cui non è possibile esibire quello che è, in effetti, il concetto di verità all’interno di un paradigma come se fosse la “Verità”.

[12] E. P. Wigner, The Unreasonable Effectiveness of Mathematics in the Natural Sciences, in «Communications on Pure and Applied Mathematics», XIII, 001-014, 1960.

[13] Cfr. A. Einstein in M. Solovine, Letters to Solovine 1906-1955, Carol Publishing, New York 1993, pp. 7-8; R. P. Feynman, The Meaning of It All: Thoughts of a Citizen Scientist, Penguin, London 1998; F. Nietzsche, La gaia scienza, (1882) tr. it. Adelphi, Milano 1973; J. von Neumann, Method in the Physical Sciences, in The Unity of Knowledge, ed. L. G. Leary Doubleday & Co., New York 1955, p. 157.

[14] Laddove non è lo stesso formalismo matematico o la matematica in sé a diventare oggetto di predicazione estetica, ovvero “arte” in senso lato, come in P. Dirac, B. Russell e tantissimi altri autori.

[15] Tentativi a questo proposito si sono del resto già avuti, cfr. S. Wolfram, A New Kind of Sciences, Wolfram Media, Champaign-Illinois 2002.

[16] K. F. Gödel, Über formal unentscheidbare Sätze der Principia Mathematica und verwandter Systeme, in «Monatshefte für Mathematik und Physik» I, 38, 1, 1931, pp. 173–198.

[17] Cfr. F. P. Feynman, The Character of Physical Law, Cambridge-MIT 1967, p. 171; J. H. Poincaré, The relations of analysis and mathematical physics, in «Bulletin of American Mathematical Society», 4, 6, 1898, pp. 247-255; H. R. Hertz (cit. in F. Dyson, Mathematics in the Physical Sciences in The Mathematical Sciences, Committee on Support on Research on Mathematical Sciences (ed.), Cambridge-MIT 1969.

[18] M. Kline, La matematica nella cultura occidentale (1953), tr. it. Feltrinelli, Milano 1976, p. 21.

[19]Cfr. L. Borzacchini, Incommenusability, Music and Continuum: A Cognitive Approach, in «Archive for History of Exact Sciences», 61, 2007, pp. 273-302.

[20] Ibid.

[21] Si veda a questo proposito l’opera di molti compositori medievali e rinascimentali.

[22] Definizione ripresa da A. Basso, Frau Musika. La vita e le opere di J. S. Bach, EDT, Torino 1983, vol. II.

[23] Cfr. D. R. Hofstadter, Gödel, Escher, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante (1979), tr. it. Adelphi, Milano 1984.

[24] «Musica est exercitium arithmeticae occultum nescientis se numerare animi», in G. W. von Leibniz, Lettere a C. Goldbach, Hannover, 17 aprile 1712, in KORT I, p. 241.

[25] Le ultime grandi opere di Bach sono, infatti, tutte prive della destinazione strumentale, ciò a riprova del fatto che l’esecuzione «non fa parte della loro natura sostanziale» Cfr. A. Einstein, La musica nel periodo romantico (1950), tr. it. Sansoni, Firenze 1952.

[26] E. Fubini, L’estetica musicale dal Settecento a oggi, Einaudi, Torino 1964.

[27] L’opera fu scritta nel 1747 dopo l’incontro tra Bach e il sovrano di Prussia Federico II il Grande di cui è il thema regium al centro dell’opera. La stessa fu presentata come contributo annuale alla Korrespondierende Societät der Musikalischen Wissenschaften di L. C. Mizler, presso cui Bach era affiliato, i cui membri dovevano essere esperti in filosofia, matematica e musica.

[28] J. S. Bach, Musikalisches Opfer BWV 1079, ed. in facsimile in C. Wolff (a cura di), Neue Ausgabe sämtlicher Werke VIII/1, Bärenreiter, Kassel 1974.

[29] L’idea di costruzione del grafico è stata ripresa da F. Russo, La musica algoritmica e l’Offerta Musicale di J. S. Bach, Delta 3, Grottaminarda 2004, in cui è presente una classificazione algebrico-geometrica dei canoni dell’Offerta Musicale.

[30] E. L. Altschuler & T. Phillips, The sound of topology: two-dimensional manifolds in Bach, in «The Musical Times», 156, 1933, pp. 57-64, 2, London Winter 2015; T. Phillips, Surface Topology in Bach Canons, II: The Thorus, in «Feature Column, American Mathematical Society», May 2017 (http://www.ams.org/samplings/feature-column/fc-2017-05).

[31] Per la nostra indagine matematica l’ottava (fisica) di riferimento tuttavia non ha importanza, interessandoci il lato “concettuale” delle progressioni armoniche. Sul tema cfr. T. Phillips, op. cit.; R. N. Shepard, Circularity in Judgements of Relative Pitch, in «The Journal of the Acoustical Society of America», 36, 2346, 1964, pp. 2346-2353; D. Deutsch, The paradox of pitch circularity, in «Acoustics Today», July 2010, pp. 8-15.

[32] Tutte le illustrazioni che seguono sono state ideate e realizzate autonomamente dall’autore.

[33] Cfr. D. R. Hofstadter, op. cit.

[34] Cfr. T. Nagel, What is it like to be a bat?, The Philosophical Review, Duke University Press, Durham USA 1974 (riflessione critica attraverso il problema della mente e della coscienza); E. Husserl, La Crisi delle Scienze Europee e la Fenomenologia Trascendentale (1954), tr. it. Il Saggiatore, Milano 1965; O. Rey, Itinerari dello smarrimento. E se la scienza fosse una grande impresa metafisica?¸ Ares, Milano 2013; W. K. Heisenberg, Fisica e filosofia (1958), tr. it. Il Saggiatore, Milano 1961.

[35] Cfr. M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti (1935-36), tr. it. La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 21-22.

[36] Ibid.

[37] Ibid.

[38] Cfr. P. K. Feyerabend, Contro l’autonomia. Il cammino comune delle scienze e delle arti (1967), tr. it. Mimesis, Milano-Udine 2012.

 

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