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Come si diventa negri? Di che colore sono i negri? Breve viaggio attraverso i romanzi di Richard Wright

Autore


Viola Carofalo

Università degli Studi di Napoli -L'Orientale

Viola Carofalo è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell’Università degli Studi di Napoli – L’Orientale

Indice



  1. Chi sono i negri e – tanto per iniziare – chi è Richard Wright
  2. Prima tappa – L’America della segregazione:la trappola dell’inferiorizzazione e dell’autocolonizzazione
  3. Seconda tappa – Le Memorie del sottosuolo dell’America nera: violenza, paura e fuga
  4. possibile punto d’arrivo – I romanzi di Wright come Bildungsroman del soggetto Nero?

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S&F_n. 08_2012

Abstract



This article wants to follow the path and development of “black subject” in the USA through the novels of the Afro-American writer Richard Wright. Written between the 50’s and 70’s, Wright's novels tell us about the segregation and humiliation inflicted by white men, but also the process of self-colonisation that the Afro-American – no longer slaves, but still not entirely free, neither de iure, nor de facto – subjected themselves to. By telling the stories of young boys struggling with their growing up - from their childhood to the first steps into a violent adulthood - Wright shows – in a way which is never inane and rhetorical, nor blindly optimistic – the need to overcome the old models and racist stereotypes, and builds his own work as a true Bildungsroman of the “black subject”.

 

 


  1. Chi sono i negri e – tanto per iniziare – chi è Richard Wright

Di che colore sono i negri? Come si diventa negri? Per rispondere a questi interrogativi Richard Wright ci offre un biglietto per attraversare gli Stati Uniti, suo Paese natale, e ci invita, per poter osservare meglio come stanno le cose, a prendere posto sul fondo del bus, necessità e abitudine degli afroamericani del suo tempo.

Prima di provare a rispondere alle due questioni poste in apertura iniziamo a conoscere meglio la nostra guida in questo viaggio: Richard Wright nasce nel 1908 a Natchez, nel profondo Sud, e, nonostante ne sia passata di acqua sotto ai ponti, la città non sembra poi tanto cambiata rispetto a quando era il secondo mercato di schiavi, per importanza e volume d’affari, della Nazione. Segregazione, umiliazione, vergogna, ma anche disgregazione familiare e violenza domestica, segneranno i primi anni della sua vita, Wright, come molti della sua generazione, non ha che un sogno: andare a Nord, trovare un posto dove poter finalmente vivere, lavorare, respirare. Intanto legge e tanto, lontano dagli sguardi severi dei suoi familiari ottusi e bigotti, impara a conoscere e ad amare Shakespeare, Hugo, Proust, Dostoevskij, Poe. Arrivato a Chicago all’inizio degli anni Trenta entra in contatto con il Partito Comunista americano, con i circoli letterari e le redazioni dei giornali – Left Front, New Masses – a esso legati. Wright scrive di notte e lavora di giorno, fa il postino, il lavapiatti, l’addetto alle pulizie in un laboratorio medico. Dopo l’ennesimo strappo con gli esponenti locali del Partito – la rottura diverrà definitiva cinque anni dopo con le dimissioni di Wright da ogni incarico – e deluso dalla sua vita a Chicago, si trasferisce a New York dove pubblica, nel 1938, il suo primo libro, la raccolta di racconti Uncle Tom's Children. Seguono alcuni successi editoriali e gli anni “europei” di Wright, gli anni dei viaggi, del trasferimento definitivo a Parigi – caldeggiato, tra gli altri, da Sartre e De Beauvoir – ma anche dell’amore e della speranza per i popoli africani che andavano lentamente affrancandosi dal loro giogo secolare attraverso le guerre di liberazione nazionale.

Muore nel 1960, mentre l’America ancora combatte con gli spettri del maccartismo – del quale pure fu vittima - e l’Africa con quelli del colonialismo, la sua tomba si trova al Père Lachaise, tra quelle di Maria Callas, Balzac, Chopin e Oscar Wilde.

  1. Prima tappa – L’America della segregazione: la trappola dell’inferiorizzazione e dell’autocolonizzazione

Per Wright il colore della pelle è condizione necessaria, ma non sufficiente per essere Neri, il Nero è prima di tutto colui il quale è definito dall’Altro, dal Bianco, in quanto tale; come avviene per l’ebreo, la prima domanda che diviene necessario porsi e se esso esista[1]:

sono stati i cristiani a creare l’ebreo, provocando un brusco arresto della sua assimilazione e addossandogli, suo malgrado, una funzione in cui poi ha eccelso. […] L’ebreo è un uomo che gli altri uomini considerano ebreo: ecco la verità semplice da cui bisogna partire[2].

La principale differenza tra queste due condizioni, tra queste due razze psicologiche[3], quella del Nero e quella dell’ebreo, risiede nell’impossibilità del primo, qualora egli lo desideri, di operare una dissimulazione convincente riguardo alla sua condizione, egli si presenta come diverso già nell’aspetto esteriore, caratteristica che favorisce l’affermarsi dell’idea della naturalità della sua condizione di inferiorità sociale e politica:

un Ebreo, bianco fra i bianchi, può negare di essere ebreo, dichiarare di essere uomo fra gli uomini. Il nero non può negare di essere un nero né invocare in suo aiuto questa astratta umanità incolore: è nero[4].

La barriera della pelle – che lo imprigiona – diviene un promemoria permanente, costituisce una maschera, che, sovrapponendosi al suo volto, ne nasconde per sempre i connotati. Pur essendo stato egli stesso quotidianamente vittima della discriminazione, Wright prova a indagare e a raccontare nei suoi romanzi, prima ancora che l’odio verso i bianchi americani, l’odio degli afroamericani verso la propria gente, il senso di disgusto nei confronti della propria pelle nera, causa di una condizione miserabile e senza via d’uscita. Per fotografare la barbarie razzista, Wright sceglie di mostrare i suoi effetti: il volto del Nero contratto in una smorfia di vergogna e di rabbia, quella maschera di viltà e sottomissione che l’afroamericano si costringe ed è costretto a indossare fuori casa, ma anche la violenza selvaggia che, tra le mura domestiche[5], trasforma il mite ascensorista, l’ossequioso lustrascarpe in una belva senza scrupoli pronta a violentare, ingannare, derubare i suoi.

Rovesciando l’espressione che dà il titolo a uno degli scritti più conosciuti dello psichiatra martinicano Frantz Fanon[6], è dunque possibile parlare a proposito dei personaggi di Wright di maschere nere: la tragicità insita nella costruzione della soggettività del Nero non risiede infatti solo nel suo bisogno di indossare una maschera bianca – nella lattificazione, ovvero nel desiderio di essere assimilati, di acquisire un’identità che piaccia a chi lo domina, al Bianco – ma anche nel fatto che il suo volto nero è esso stesso una maschera: egli ha così difficoltà a costituirsi come entità autonoma per differenza e per negazione. Il Nero sembra poter scegliere solo tra due costumi: o si traveste da Bianco – imitandone le movenze, il modo di parlare, le abitudini – o si traveste da Nero, seguendo alla lettera o addirittura esasperando – per funzionare l’imitazione deve infatti eccedere, esagerare – lo stereotipo che gli è stato cucito addosso. La nerezza, di cui liberarsi o da interpretare, resta in ogni caso una costruzione esterna, al Nero viene richiesto di essere Bianco quanto basta a desiderarne la dominazione e Nero quanto basta a sopportarla. Il Nero è bloccato in questo gioco dell’identità: accanto al processo tramite il quale è fabbricato come Nero dal dominatore bianco, se ne affianca un altro per il quale il Nero, ormai spossessato e cosalizzato, si autocostituisce come Nero. Parafrasando De Beauvoir[7], potremmo dire che dunque, per Wright, nero non si nasce, ma si diventa; questa sua concezione antiessenzialista[8] fa sì che egli inquadri la questione razziale come problema esclusivamente sociale e rifiuti l’idea della superiorità della razza e della cultura bianca, proprio come della cosiddetta anima nera. Sebbene il Nero sia un prodotto culturale, non si costituisca come individuo differente, mancante, a priori, la sua esperienza della sottomissione, della frustrazione e dello spossessamento morale e materiale è però qualcosa di più che esperienza singolare e contingente: appartiene alla sua razza, è intimamente collegata al suo essere al mondo:

quel che Bigger Thomas sente con tanto rancore all’aurora della vita è tale definitiva inferiorità, tale alterità maledetta, che è graffita per sempre sul colore della sua pelle; guarda passare gli aeroplani e sa che il fatto di essere negro gli vieta per sempre il cielo[9].

Volare non è “roba da negri”, sono i bianchi a dirlo, ma è anche il Nero a ripeterlo come un mantra a se stesso e ai suoi.

Oltre a preoccuparsi della colonizzazione del suo immaginario – operata dal Bianco attraverso il suo sguardo performativo e inferiorizzante – mette in guardia Wright nelle sue storie, il Nero dovrà tenere conto anche dell’opera di razzializzazione che egli stesso si impone osservando negli occhi altrui il proprio riflesso. Sono proprio questa autoalienazione e autocolonizzazione a costituire i gangli del meccanismo che lo imprigiona. Richard Wright al suo primo contatto con un gruppo di studenti afroamericani, in American hunger, seconda parte della sua autobiografia[10], osserverà che:

sia parlando, sia agendo, si sforzavano di comportarsi nel modo meno nero possibile, rinnegando le fondamenta razziali e materiali delle loro vite, accettando la loro classe e la loro condizione razziale in modi così obliqui da dare l’impressione che non incontrassero difficoltà di sorta[11].

L’intento di Wright è quello di mostrare nei suoi romanzi la povertà, l’incapacità di agire e l’ignoranza come le conseguenze della dominazione bianca, paradossalmente egli compie questa denuncia raccontando il tentativo malriuscito di occultamento di queste caratteristiche operato dai suoi personaggi: la vergogna che essi sentono e dimostrano nei confronti di una condizione della quale sono vittime incolpevoli non è che il prodotto della loro inconsapevolezza, una doppia violenza che essi si auto-infliggono e che si assomma a quella di chi li domina e li sfrutta.

Come in un gioco di scatole cinesi, nei romanzi di Wright si assiste a un processo di inferiorizzazione multiplo: il Bianco assoggetta in Nero e questi colonizza se stesso. Così a spogliare il Nero della sua umanità non è solo lo sguardo del Bianco, ma anche lo sguardo che egli rivolge ai suoi simili, finendo, involontariamente, per rigirare il disprezzo di cui è oggetto verso se stesso:

odiato dai bianchi, e facendo organicamente parte della cultura che lo odiava, il nero finiva a sua volta con l’odiare in se stesso ciò che gli altri odiavano in lui. Ma l’orgoglio gli imponeva di nascondere l’odio di se stesso, perché il nero non voleva far sapere ai bianchi di essere stato completamente soggiogato da essi, a tal punto che l’intera sua esistenza veniva condizionata dal loro atteggiamento. […] E così, ogni minuto della sua giornata si consumava in una guerra contro se stesso[12].

  1. Seconda tappa Le Memorie del sottosuolo dell’America nera: violenza, paura e fuga

Se l’America bianca è il mondo della segregazione, del rifiuto, dell’inibizione, è un mondo affollato da occhi pronti a osservare, a inquadrare, di sorrisi sprezzanti, di mani solerti che tracciano confini ben visibili, che mostrano i palmi aperti a sbarrare il passaggio, l’America nera è un mondo sotterraneo, invisibile, rovesciato.

In questi due mondi i personaggi di Wright abitano e trascinano le loro vite in preda a una costante e acuta paura, a un terrore paralizzante. La mancanza di riconoscimento da parte dell’uomo Bianco, l’impossibilità di collocarsi stabilmente come soggetto nel mondo, l’inferno generato dallo sguardo altrui, fanno del Nero un essere tremante, timoroso – di qui l’idea che egli sia subdolo e infido – che cammina lungo i muri e non guarda negli occhi il suo Padrone, che desidera essere invisibile – per poter non essere vessato e punito – e al contempo mostrarsi, liberarsi del travestimento animale nel quale è stato e si è nascosto. Questo timore – infinito e indefinito – che non può essere attenuato in alcun modo, che non trova via d’uscita, si trasforma repentinamente in furia; una volta che il Nero abbia percepito che la persecuzione e il castigo ai quali è destinato sono totalmente arbitrari, scollegati da ciò che egli fa e immediatamente riconducibili a ciò che egli è, allora acquisisce la consapevolezza che nessuna condotta mite può più risultare utile, e, di conseguenza, sopportabile. Lo schiavo che non ha più nulla da perdere si rivolta immediatamente, indiscriminatamente, senza cercare giustificazioni o pretesti, così la paura e la violenza generate dalla mancanza di riconoscimento, dalla relazione mancata tra Bianco e Nero, non sono solo effetti della sofferenza, della punizione, ma rivelano l’incapacità di trovare il centro della propria esistenza, derivano da una assoluta mancanza di percezione di sé.

L’intera produzione letteraria di Wright (e in particolare Native Son[13]) è costellata dai ritratti efficaci e crudeli che mostrano come l’individuo dominato – avendo smarrito se stesso, non sentendosi più, non riuscendo a riconoscersi nello specchio offertogli dall’uomo bianco che lo deforma e lo disumanizza – perda di conseguenza ogni consapevolezza dei propri atti, non sia più in grado di comprende l’effetto di gesti che compie gratuitamente, senza scopo, senza possibilità di proiettarli in alcun futuro. Proprio come lo straniero di Camus[14] che uccide senza riflettere, accecato da un raggio di sole, stordito dal caldo, dal rumore, distratto da se stesso, anche Bigger Thomas[15], nel più celebre romanzo di Wright, soffoca la bianca Mary non per una concreta mancanza di alternative, né per desiderio di vendetta, ma solo perché, disabituato a pensare alla possibilità che un suo atto possa modificare in maniera tangibile il corso delle cose: non è capace di misurare la propria forza né di gestire e razionalizzare il proprio terrore;

è Bigger Thomas che ha paura: una paura tremenda […] alla fine Bigger Thomas agisce, agisce per mettere fine alla tensione del mondo. Risponde all’attesa del mondo. […] Il negro è un balocco tra le mani del Bianco. allora, per rompere il cerchio infernale, esplode[16].

E così Bigger si muove nel mondo con passi da gigante, rade al suolo e distrugge tutto ciò che sfiora, ammazza la giovane bianca, la decapita e ne fa a pezzi il corpo per poi arderlo nella stufa, senza cattiveria né intenzione. Al suo spavento sembrano essere mescolate una certa dose di candore, di inconsapevolezza. A provocare il disorientamento del protagonista di Native Son, a farlo sentire minacciato, non è uno specifico atteggiamento o comportamento ostile da parte di quella che diverrà la sua vittima, ma anzi la semplicità e l’amicizia che ella ostenta nei suoi confronti. Bigger Thomas, che ha perduto se stesso, impossibilitato a vivere, terrorizzato dal mondo ed educato alla violenza, reagisce al mondo uccidendo, dilaniando, bruciando.

Native Son si configura così come una sorta di Delitto e castigo in chiave afroamericana, dove ciò che perseguita e destabilizza l’assassino non è la colpa, ma la pelle, non è il gesto sconsiderato di un attimo, ma il destino segnato da un peccato originale marchiato a fuoco sull’epidermide. Il Nero così non compie semplicemente un crimine, egli, più che in ogni altro caso, è il suo crimine:

tutto quanto l’atteggiamento di questo ragazzo negro verso la vita è un delitto! L’odio e la paura che noi gli abbiamo ispirato, e che la nostra società ha intessuto nella struttura stessa della sua coscienza, nel suo sangue e nelle sue ossa, nel funzionamento della sua personalità di ora in ora, sono diventati la giustificazione della sua esistenza. Ogni volta che egli viene in contatto con noi egli uccide. […] Ogni suo pensiero è potenzialmente un omicidio[17].

La figura imponente di Bigger Thomas, proprio come i ragazzini crudeli protagonisti di The Long Dream[18], riempiono con la paura e la violenza il vuoto di un’identità mancata, si caratterizzano e si collocano nel mondo rovesciando i valori impossibili e inaccessibili dei bianchi. Le ultime parole di Bigger, pronunciate prima del processo che decreterà la sua esecuzione capitale, rivelano l’accendersi di un principio di coscienza, il tentativo di dare un senso a un’esistenza ormai sprecata e destinata a essere interrotta solo pochi istanti dopo:

non cerco di perdonare a nessuno e non chiedo che nessuno perdoni me. Non piangerò. Non mi lasciavano vivere e ho ucciso. Forse non è giusto uccidere, e, realmente, io non volevo uccidere. Ma quando penso perché c’è stato tutto questo massacro, comincio a sentire che cos’è che volevo, che cosa sono io…[19].

La violenza è il fil rouge che attraversa i racconti di Wright in quanto rappresenta l’essenza tragica dell’esistenza dell’afroamericano; paura e violenza costituiscono però, allo stesso tempo, anche il punto di avvio di una, sia pur parziale, presa di coscienza del suo posto nel mondo. L’esperienza della morte – il rischio della propria o la visione dell’altrui – rievocata nell’immagine ricorrente del linciaggio (si veda ad esempio Big Boy Leaves Home[20]), è così il limite a partire dal quale il Nero definisce la sua identità, che si colloca sul crinale ambiguo del desiderio dell’omicidio e, assieme, dell’auto-soppressione.

Questo terrore costante, questa guerra, contro se stesso e contro il Bianco, costringe il Nero a una sorta di tranquillizzante – benché instabile e temporanea, in quanto può essere interrotta in ogni momento da uno sguardo del Bianco – condizione di invisibilità, lo porta a rifugiarsi nell’oscurità,

i negri che hanno vissuto al Sud sanno il terrore di venir colti da soli nella zona bianca dopo il tramonto del sole. È in una situazione semplice come questa che si può simboleggiare graficamente la condizione del negro d’America. I bianchi possono trovarsi per strada mentre tornano a casa e passare indisturbati. Ma il colore della pelle di un negro lo mette subito in vista, lo trasforma in un bersaglio inerme[21].

Rendersi fantasmi, invisibili, impercettibili: per l’uomo di colore sempre in fuga dallo sguardo altrui, non c’è niente di più desiderabile. Scomparire, dissimulare, tenere gli occhi bassi, non fare nessun gesto né dire nessuna frase che possa richiamare l’attenzione pericolosa dell’uomo bianco (o, peggio ancora, della donna bianca, le cui urla sono come una sirena che annuncia la morte del presunto aggressore afroamericano, come raccontato in The Man Who Killed a Shadow[22]) è infatti la costante preoccupazione del Nero, l’altra faccia della segregazione messa in atto dal Bianco. Il giovane Richard, raccontato in Black Boy, deve sempre restare in silenzio, spedito come un pacco da una famiglia e da una città all’altra a causa dei problemi economici e di salute di sua madre, non può e non deve dare fastidio ai suoi ospiti, la sua presenza deve essere il meno ingombrante possibile; in Native Son Bigger Thomas uccide la bianca Mary al buio, di fronte alla madre, ignara di quanto sta accadendo a sua figlia perché è cieca; il buio, la notte, fanno da sfondo e proteggono, sia pur temporaneamente, la fuga di Cross Damon in The Outsider che, dato per scomparso in una sciagura ferroviaria, sceglie di non uscire dal mondo delle ombre e provare invece a cominciare, da morto, una nuova vita. Infine il desiderio di nascondersi, di essere al riparo dalla luce e dalla vista dei bianchi, è sintetizzata nella bellissima allegoria di The Man Who Lived Underground[23] lungo racconto che chiude la raccolta Eight Men. La gran parte della storia è ambientata in un ambiente infetto e claustrofobico: le fogne di una grande città nelle quali il protagonista si è nascosto per sfuggire alla polizia, all’uomo bianco. Il racconto è un susseguirsi di incontri e di scoperte terribili, ratti, piccoli corpi senza vita di neonati neri gettati nelle fetide acque di scarico, di tutto un universo sotterraneo di cantine ammuffite, depositi, obitori.

Nonostante l’orrore del suo rifugio, il protagonista indugia nel tornare in superficie, dal suo riparo sotterraneo egli guarda le luci della città, le sue chiese, i suoi magazzini e ogni cosa, vista dal basso, gli sembra tutto sommato meno tremenda e spaventosa:

doveva lasciare quel luogo sudicio, ma lasciarlo significava affrontare i poliziotti che l’avevano accusato a torto. No, non poteva ritornare nel mondo esterno[24].

C’è un’opposizione insanabile tra la città dei bianchi, costruita in superficie, alla luce del sole, e quella dei neri che, continuamente braccati, devono nascondersi, farsi proteggere dall’oscurità, devono cercare, invano, il loro “mantello dell’invisibilità”, il racconto è così un rimando continuo alla vita vera dei bianchi, e alla vita che è già morte, che è vita di scarto, dei neri.

La segregazione – da parte dei bianchi – e l’auto-colonizzazione che egli si impone, fanno del Nero, come abbiamo visto, un soggetto eccentrico, estraneo a se stesso e al mondo. Così la fuga, vista come unica soluzione possibile a un duplice conflitto – quello che si sviluppa tra il Nero e il mondo e quello all’interno del Nero stesso – diviene il minimo comune denominatore tra i vari personaggi che popolano il mondo narrato da Wright. Questa fuga, che non ha meta né direzione chiara, non apre la strada verso la salvezza, ma piuttosto, nella gran parte dei casi, è ricaduta nel nichilismo e nella disperazione. Il piccolo Johnny, in Rite of Passage, fugge via da casa per sottrarsi all’angoscia e al trauma dell’essere separato dalla sua famiglia d’origine – incapace, secondo il parere dei servizi sociali, di provvedere ai suoi bisogni – e finisce per imboccare la via del crimine; l’adolescente Dave, in Who Was Almost a Man, schiacciato dall’idea di dover accettare un lavoro massacrante solo per ripagare una vacca che ha ammazzato a colpi di pistola in un momento di rabbia e di frustrazione – senza una ragione precisa, per la semplice curiosità di usare una pistola, di sentirsi finalmente uomo – salta su un treno che prosegue il suo viaggio nella notte, verso un’ignota destinazione. Lo stesso Bigger Thomas, protagonista del celebre Native Son, braccato dalla polizia per aver ucciso una bianca, fugge senza speranza né meta, attraversando, nell’oscurità, i quartieri fatiscenti dei neri.

Lette di fila, le storie raccontate da Wright sembrano descrivere un’unica disperata corsa verso l’ignoto. Eppure è un’altra la fuga della quale, a proposito di questo autore afroamericano, si tende a parlare più spesso: ovvero il suo stesso tentativo di “evasione” dal mondo nero e dalla scrittura nera[25]. A Wright non si perdona, dopo aver scritto pamphlet sulla razza come The Colour Curtain (1956) o White Man Listen! (1957)[26], di aver scelto di vivere in Europa o, ancor peggio, di aver scelto di parlare nei suoi libri dell’Europa, come nel caso di Pagan Spain (1957)[27]. La questione è certo complessa e non si può liquidare in poche battute, quel che è indubbio è che Wright non si è mai “liberato” delle questioni inerenti la razza, né le ha mai liquidate, in quanto summa del problema dell’oppressione dell’uomo sull’uomo, dell’ignoranza e della superstizione che incatenano e paralizzano[28].

Lo strabismo di questo autore – che parla dell’Europa guardando all’America, e racconta l’America attraverso le suggestioni “europee” dell’esistenzialismo[29] – lungi dall’essere espressione di una forma di auto-colonizzazione, più che invalidarne la riflessione la rende virtuosa e penetrante. Wright, come sottolineerà acutamente Jean-Paul Sartre, non parla né del ne all’uomo universale[30], è consapevole delle sue radici, della sua visione parziale – nera – del mondo, e non si illude di poter interpellare efficacemente i razzisti incalliti del Sud, e nemmeno il pubblico europeo, così distante dal problema della segregazione razziale negli Stati Uniti: si rivolge ai neri per risvegliare la loro coscienza – attraverso il rispecchiamento nelle sue storie ed esperienze di vita – e ai bianchi statunitensi “di buona volontà” per comprometterli, per aprire loro gli occhi, in questo modo, nei suoi racconti,

ogni parola rimanda a due contesti […] Wright, scrivendo per un pubblico diviso, ha saputo mantenere e insieme superare questa divisione: ne ha fatto pretesto per un’opera d’arte[31].

La doppia vista[32] di questo autore gli consente di osservare e analizzare l’estraneità del Nero – la sua stessa estraneità – al mondo bianco aldilà dell’acquisizione formale dell’uguaglianza e dell’inclusione:

il problema si apre non appena il negro ottiene i suoi così detti diritti. Sarà in grado di inserirsi nella società che finora l’ha tenuto in disparte e di vivere come l’americano medio di razza bianca? O conserverà l’antica coscienza di esclusione? Insomma seguiterà a sentirsi un estraneo?[33].

La questione razziale è così questione sociale in senso profondo, riguarda non solo la capacità di accogliere l’Altro, ma di far sì che questi si trovi nella condizione di formarsi in quanto soggetto, di farsi umano[34].

  1. Un possibile punto d’arrivo – I romanzi di Wright come Bildungsroman del soggetto Nero?

Le storie di Wright sono costellate da riti di passaggio brutali e irreversibili, ma l’allontanamento dalla famiglia, dalla comunità, non sono intese semplicemente come forme di emancipazione, ma come denuncia dell’inconsistenza e inadeguatezza di queste. Trascinati nel bosco, separati dai loro congiunti, strappati alle loro – poche – sicurezze, i personaggi descritti da Wright non possono tornare indietro, e, mutati, essere reinseriti nel loro contesto – come avviene nei rituali descritti dagli antropologi – ma sono costretti a proseguire in solitudine. La ciclicità di questi riti, di queste fratture, non ha niente di simbolico, è solo l’effetto di un mondo in cui il Nero è costretto, per provare a salvarsi, a scappare, a rompere col proprio passato. Questa fuga, questo allontanamento, differentemente da quanto accade ai personaggi dei romanzi di formazione propriamente detti, non è quindi presa di distanza dalle proprie vecchie certezze per costituirsi come soggetti autonomi, ma necessità vitale. Non c’è casa, non c’è famiglia o affetto che possano essere considerati tali, tutto è corrotto, trasfigurato dal rapporto di subordinazione e violenza nei quali i personaggi sono intrappolati e, di conseguenza, l’allontanarsi dal proprio punto di partenza, dalla propria infanzia – individuale e collettiva, come uomo e come “razza” – non instaura un processo dialettico tra il vecchio e il nuovo, ma opera una rottura radicale, comporta il rischio di un ricominciamento senza punti cardinali attraverso i quali orientarsi.

Protagonisti delle storie di Wright sono, non a caso, bambini, ragazzi, giovani uomini, alle prese con il passaggio all’età adulta, delle scelte, delle responsabilità, sono individui in formazione, come è in formazione il soggetto Nero che, dopo gli anni della schiavitù, della subordinazione formale, attraversa e lotta contro la segregazione, l’inferiorizzazione subdola e penetrante.

Senza per questo accodarsi o assimilarsi al paternalismo occidentale, Wright, nonostante il suo giustificato pessimismo, descrive l’afroamericano come un soggetto ancora in nuce, che va realizzandosi, e descrivendo il percorso travagliato della costituzione dell’identità nera – in questo la sua capacità di parlarci oggi – racconta contemporaneamente di ogni identità spuria, liminare, contemporanea[35]. Fotografando la faglia tra il prima e il dopo, il passaggio tra un’identità completamente dominata e il momento della sua ribellione e autonomizzazione – sia pure in forme spesso nichiliste e autodistruttive – Wright coglie, nella figura tragica dell’afroamericano e nel suo smarrimento, la possibilità del cambiamento. Alzarsi in piedi e camminare senza meta, sembra dirci, è pur meglio che restare immobili nella fossa che hanno scavato per noi.

Di che colore sono i negri? Come si diventa negri?

Queste domande non mettono solo in evidenza la relatività e la plasticità del colore, la costatazione ovvia che l’interrogazione intorno alla “razza” – proprio come quella riguardante il genere – attenga al sociale più che al biologico, ma un problema di fondo ben più spinoso. La questione cioè della costruzione del soggetto a partire non dalla continuità della sua storia, ma dalle sue fratture, non solo in relazione all’Altro, ma anche in lotta e in opposizione.

Wright racconta un processo di soggettivazione che si mostra nel suo essere attuale e universale per la sua capacità di trascendere e assieme includere la questione razziale, questo processo è tutt’altro che lineare e incruento e il suo esito non può essere dato per scontato in quanto si gioca sul piano della violenza e dei rapporti di forza e non solo su quello, tutto sommato pacificato, della cultura e del dialogo.

Proprio come il Bildungsroman classico, questi romanzi raccontano di una maturazione dolorosa, di un percorso pieno di ostacoli, di un viaggio verso la “vita adulta” che però, nel caso delle opere di Wright, non sempre trova approdo. I protagonisti delle sue storie non portano a temine il loro percorso, vengono ammazzati o ammazzano prima, condannandosi a replicare la spirale di violenza dalla quale sono stati generati. Eppure alcuni sembrano riuscire a spezzare questo cerchio infernale, sia pure troppo tardi, quando tutto è perduto, come Bigger Thomas che inizia a sentirsi, ad avvertirsi come soggetto, quando ormai è lontano dal mondo e dalla vita, chiuso in un carcere in attesa della sua esecuzione. O come Dave[36] che, ritenendo insopportabile la sua condizione, lascia la sua casa nel buio della notte e salta su un treno di cui non conosce la destinazione, senza guardarsi indietro. Who Was Almost a Man finisce – in una sequenza quasi cinematografica – con i binari che si allungano a perdita d’occhio alle prime luci dell’alba: in questa conclusione c’è speranza o solo disperazione? La risposta va cercata oltre le pagine del racconto.

[1] J.P. Sartre, L’antisemitismo. Riflessioni sulla questione ebraica (1954), tr. it. Mondadori, Milano 1982, p. 56.

[2] Ibid., p. 64.

[3] R. Wright, Ho bruciato la notte (1953), tr. it. Mondadori 1973, p. 139.

[4] J.P. Sartre, Orfeo Nero. Una lettura poetica della negritudine (1948), tr. it. Marinotti, Milano 2009, p. 30.

[5] In particolare si veda in proposito R. Wright, Ghetto negro (1963), tr. it. Rizzoli, Milano 1980, cap. I e II.

[6] Si fa riferimento a F. Fanon, Peau noire, masques blancs, du Seuil, Paris 1952. Riguardo al rapporto tra Fanon e Wright cfr. M. Fabre, Frantz Fanon et Richard Wright, in E. Dacy (a cura di), L’actualité de Frantz Fanon. Actes du colloque de Brazzaville (12-16 dicembre 1984), Karthala, Paris 1986, pp. 167-177.

[7] S. De Beauvoir, Il secondo sesso (1946), tr. it. il Saggiatore, Milano 1999; si fa riferimento alla celebre frase «donna non si nasce, lo si diventa», ibid., p. 325. Riguardo a questa analogia tra formazione dell’identità nera e di genere cfr. anche ibid., p. 800.

[8] Cfr. P. Gilroy, The Black Atlantic. Identità nera tra modernità e doppia coscienza (2003), tr. it. Meltemi, Roma 2003, p. 259.

[9] S. De Beauvoir, op. cit., p. 353.

[10] La prima parte, che racconta gli anni dell’infanzia e della giovinezza, è il già citato romanzo autobiografico Ragazzo negro.

[11] R. Wright, Fame americana (1944), tr. it. Einaudi, Torino 1978, p. 34.

[12] Ibid., p. 9.

[13] Id., Paura (1940), tr. it. Bompiani, Milano 1988.

[14] A. Camus, Lo straniero (1942), tr. it. Bompiani, Milano 1947.

[15] Protagonista di Native son.

[16] F. Fanon, op. cit., p. 121.

[17] R. Wright, Paura, cit., p. 395.

[18] Id., Il lungo sogno (1958), tr. it. Mondadori, Milano 1962.

[19] Id., Paura, cit., p. 423.

[20] In Id., Il Big Boy se ne va, in I figli dello zio Tom (1936), tr. it. Einaudi, Torino 1949, p. 17.

[21] Id., L’etica di Jim Crow in carne e ossa. Schizzo autobiografico, in I figli dello zio Tom, cit., p. 17.

[22] In Id., L’uomo che uccise un’ombra, in Cinque uomini (traduzione parziale di Eight Men), tr. it. Mondadori, Milano 1951. A tal proposito cfr. anche M. Fabre, The World of Richard Wright, University Press of Mississippi, 1985, p. 108 sgg.

[23] In L’uomo che viveva sotto terra, in Cinque uomini, cit.

[24] Ibid., p. 117.

[25] Cfr. P. Gilroy, op. cit., pp. 276-278.

[26] Raccolta di saggi e conferenze.

[27] Tr. it. Spagna Pagana, Mondadori, Milano 1962.

[28] Si veda a tal proposito proprio la riflessione sul potere conservatore della religione proprio in Pagan Spain.

[29] Cfr. M. Fabre, The World of Richard Wright, cit., pp. 158 e ss.

[30] J.-P. Sartre, Che cos’è la letteratura? (1948), tr. it. Il Saggiatore, Milano 2009, p. 58.

[31] Ibid., p. 59.

[32] Cfr. R. Wright, Ho bruciato la notte, cit., p. 139.

[33] Ibid., p. 140.

[34] Ibid., p. 149.

[35] Cfr. P. Gilroy, op. cit., p. 278.

[36] Ci si riferisce nuovamente al giovane protagonista di Who Was Almost a Man.

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