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Neurobiologia e spazio simbolico: per un nuovo modello interazionista

Autore


Luca Lo Sapio

Università degli Studi di Napoli Federico II

Dottorando di ricerca in Bioetica presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


  1. La teoria dei tre mondi
  2. Spazio simbolico e materialismo antiriduzionistico
  3. La costituzione dello spazio simbolico: il contributo dell’antropologia

 

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S&F_n. 06_2011


  1. La teoria dei tre mondi

Nel momento in cui il cervello, che è il centro della complessa attività soggettiva e il medium attraverso cui l’individuo può avere un mondo e aprirsi al mondo[1], diventa l’oggetto esplicito di un sapere scientifico, il cortocircuito è inevitabile. Quando il cervello indaga se stesso lo fa attraverso i limiti intrinseci al suo medesimo sistema percettivo e attraverso le griglie concettuali ineliminabili che accompagnano ogni esperienza più o meno strutturata. Il presente articolo intende delineare i tratti per una possibile formulazione di un coerente paradigma di carattere non riduzionista, partendo dall’analisi di alcuni passaggi della teoria popperiana dei tre mondi e del relativo modello interazionista e allargando poi la riflessione ad alcune posizioni dell’antropologia culturale novecentesca. Alcuni elementi dell’interazionismo popperiano, opportunamente modificati, possono ben legarsi a ciò che vorrei suggerire. La teoria dei tre mondi ben si accorda con l’idea che esista una sorta di circolo neurobiologico in cui l’esperienza del soggetto, attraverso le sue strutture cerebrali, si intreccia profondamente con tutto un insieme complesso di oggetti sociali, significati, costellazioni simboliche.

Prima di mostrare in quale punto la teoria Popper-Eccles vada, però, a mio avviso, ripensata, devo esporre brevemente i suoi punti essenziali.

Indipendentemente dal fatto che la biologia sia o meno riducibile alla fisica, gli esseri viventi – piante, animali e perfino virus – appaiono vincolati al complesso delle leggi fisiche e chimiche. Gli esseri viventi sono corpi materiali. Come tutti i corpi materiali sono dei processi; e come alcuni altri corpi materiali (per esempio le nuvole) sono sistemi aperti di molecole: sistemi che scambiano alcune loro parti costitutive con il loro ambiente. Esse appartengono all’universo delle entità fisiche o stati di cose fisiche o stati fisici[2].

 

La descrizione appena riportata corrisponde a quella del mondo 1. Gli esseri viventi intesi come sistemi complessi di natura fisico-chimica che interagiscono con altri sistemi viventi e con l’ambiente attraverso uno scambio di energia, sono gli esseri viventi inquadrati entro un sistema di riferimento completamente immanente.

Accanto a questo mondo 1 abbiamo un mondo 2 in cui si danno l’insieme degli eventi psicologici e spirituali. Popper scrive che:

Accanto agli oggetti e agli stati fisici ipotizzo che vi siano degli stati mentali e che questi stati siano reali, perché interagiscono con i nostri corpi. Un mal di denti è un esempio valido di uno stato che è al tempo stesso mentale e fisico[3].

 

E propone prima facie una griglia interpretativa interazionista[4]. Esisterebbero pertanto degli eventi fisici e degli eventi mentali che sono tra loro connessi, che interagiscono. Tale interazione, in effetti, non viene spiegata adeguatamente da Popper; egli sembra semplicemente constatarne l’evidenza. L’analisi di Popper non si ferma, però, alla rilevazione dell’esistenza del mondo 1 e del mondo 2, ma postula l’esistenza anche di un mondo 3 in cui si danno

i prodotti della mente umana, come i racconti, i miti esplicativi, gli strumenti, le teorie scientifiche (sia vere che false), i problemi scientifici, le istituzioni sociali e le opere d’arte[5].

 

Il mondo 3 potrebbe essere definito il mondo delle ideazioni umane esternalizzate. Dall’analisi degli elementi che Popper inserisce nel mondo 3 si può constatare che si va da idee filosofiche e scientifiche, che sono riconducibili a una dimensione immateriale, a opere d’arte o strumenti tecnici che sono riconducibili a una dimensione materiale (sebbene la differenziazione così proposta sia profondamente rivedibile).

Popper aggiunge, poi, alcune considerazioni (che mi sembrano) interessanti. Egli sostiene che

gli oggetti del mondo 3 sono nostre costruzioni, benché non sempre siano il risultato di una produzione progettata da singoli individui[6].

 

Ora alla luce di quanto detto credo di poter inserire il mio contributo alla discussione. La sussistenza autonoma di una realtà psicologica, soggettiva, irriducibile alla realtà neurofisiologica mi sembra quantomeno discutibile, almeno nei termini in cui Popper e Eccles pongono il problema. Più interessante sarebbe, invece, capire dove può situarsi un elemento di irriducibilità, posta l’assoluta materialità dei processi alla base dell’esperienza soggettiva (stati mentali, qualia, sensazioni soggettive, come il mal di denti di cui parla lo stesso Popper, etc). Ritengo che l’interazione tra mondo 1 e mondo 3 possa essere una chiave di volta per proporre un materialismo antiriduzionistico che salvi uno spazio di ulteriorità rispetto agli stati neurologici che guidano l’esperienza soggettiva (possiamo parlare quindi di una teoria dei due mondi).

Chiaramente se tutto passa per il soggetto, se il soggetto è il medio attraverso cui l’intera realtà si presenta, ovvero si dà a vedere nel suo essere, e se tale processo è riconducibile alla sfera neurobiologica, allora uno spazio di ulteriorità non può essere postulato. Certo possiamo dire che c’è una realtà esterna indipendente dal soggetto che la percepisce, ma non per questo saremmo usciti fuori da un piano immanente perfettamente coerente e intrascendibile.

Cosa diversa è invece sostenere che a partire dalle strutture neurologiche, attraverso cui l’uomo è in grado di elaborare idee, concetti, immagini, si creino le premesse per un interazionismo simbolico; interazionismo simbolico che vede il dischiudersi di uno spazio in cui il soggetto interagisce con le sue stesse produzioni esternalizzate e con quella realtà fisica che è stata investita di un significato sociale più o meno complesso. Si crea così un vero e proprio circolo di ideazione-produzione-trasmissione-ricezione che può essere, per certi aspetti, riguardato come un’altra faccia del circolo neurobiologico.

Le idee esternalizzate con le quali i soggetti entrano in comunicazione acquisiscono una loro autonomia, una loro sussistenza completamente indipendente dalle soggettività stesse che le ricevono e/o che contribuiscono a delinearle.

In questo senso la proposta popperiana può avere una sua validità. Interazionismo simbolico tra mondo 1 e mondo 3. Nel prossimo paragrafo tenterò di strutturare meglio il concetto di uno spazio simbolico che serva da base per la costruzione di una dimensione non riducibile (almeno non riducibile in maniera semplice) al discorso delle neuroscienze, una dimensione che, in realtà, serva anche da base per la morale e per la delineazione di una filosofia delle neuroscienze, che non voglia ridursi a un semplice paradigma epistemologico a supporto delle scienze neurologiche.

 

  1. Spazio simbolico e materialismo antiriduzionistico

La questione che voglio qui affrontare è: come può stabilirsi un’interazione tra mondo 1 (in particolare con quella parte del mondo 1 che è data dalla soggettività umana) e mondo 3 tale da determinare un superamento del materialismo semplice e riduzionistico?

Abbiamo visto emergere che il mondo 1 può essere inteso come il mondo che si struttura a partire dalla proposizione di un piano del tutto immanente. Nello stesso tempo ho cercato di suggerire che il mondo 1 inteso come mondo dei fatti e degli oggetti fisici, della materia, dei corpi è in costante e imprescindibile relazione con il mondo 3. Volendo seguire un’intuizione di Hanson possiamo esemplificare la cosa considerando il caso di Keplero. Hanson scrive:

Immaginiamo che egli si trovi su una collina e che osservi il sorgere del sole in compagnia di Tycho Brahe. Keplero considerava il sole fisso: era la Terra a muoversi. Tycho Brahe seguiva invece Tolomeo e Aristotele, almeno riguardo all’opinione che la Terra fosse fissa al centro e che tutti gli altri corpi celesti orbitassero attorno ad essa. Keplero e Tycho Brahe vedono la medesima cosa quando osservano il sorgere del sole? Vale la pena di soffermarsi sui processi fisici che hanno luogo quando Keplero e Tycho Brahe osservano il sorgere del sole. Il sole emette fotoni identici, i quali attraversano il corpo solare e la nostra atmosfera. I due astronomi hanno una vista normale; perciò questi fotoni attraversano la cornea, l’umore acqueo, l’iride, il cristallino e il corpo vitreo dei loro occhi nello stesso modo, andranno infine a colpire la loro retina. Nelle loro cellule fotosensibili hanno luogo processi elettrochimici simili. La medesima configurazione si disegna sulla retina di Keplero come su quella di Tycho. Essi vedono perciò la medesima cosa. Ma la visione del sole non è la visione d’immagini retiniche del sole. La visione è un’esperienza. […] Che Keplero e Tycho vedano – o non vedano– la medesima cosa non si può sostenere attraverso un riferimento allo stato fisico delle loro retine, dei loro nervi ottici o della loro corteccia visiva: nella visione c’è più di ciò che colpisce il globo oculare[7].

 

Ho riportato questa lunga citazione perché sembra contenere almeno due elementi che si prestano al discorso che sto tratteggiando: il carattere neurofisiologico della visione e, nello stesso tempo, il tentativo di trovare un fattore di irriducibilità al piano fisico. Hanson definisce questo fattore come l’insieme delle caratteristiche significanti che determinano la costituzione di un’esperienza. È evidente che a partire da questa prospettiva lo stesso mondo 1 viene a essere re-inglobato entro i confini del mondo 3 (il piano dell’immanenza è pertanto una costruzione che, pur parlando del mondo 1, si colloca nel mondo 3). La possibilità di una conoscenza neutra che si situi a una sorta di punto zero dell’essere da cui poter riguardare le cose è esclusa. In questo senso la neurobiologia viene a essere una produzione – e la produzione per eccellenza insieme al corpus delle neuroscienze – che va a inserirsi entro lo spazio rappresentato dal mondo 3. Nel caso dell’osservazione di un fenomeno che ricade nel dominio della fisica o delle scienze biologiche il carattere mediato della conoscenza si situa a un livello differente rispetto a quello delle osservazioni condotte nell’ambito delle scienze neurologiche; in queste ultime, infatti, ciò che viene mediato dalla rappresentazione è il soggetto stesso e, ancora più precisamente, ciò che rende il soggetto tale, il suo sistema nervoso e il suo cervello.

Il mondo 3 pertanto definisce una dimensione ontologica che, pur incontrando le singole individualità empiriche, le trascende, andando a costituire quell’orizzonte possibilitante dei significati con il quale ogni individualità particolare deve confrontarsi per comporre il suo spazio esistenziale.

Il quadro, almeno in questa prima approssimazione, sembra essere chiaro. Sono le singole soggettività a operare per la costruzione di quello che ho definito lo spazio simbolico. Tale spazio una volta istituito (chiaramente non si può risalire all’origine della sua istituzione se non speculativamente) acquisisce una sua indipendenza, autonomia, autosussistenza e informa di sé le soggettività stesse, determinando una sorta di presenza irriducibile del simbolico nelle soggettività. Che lo spazio simbolico sia autonomo e abbia una sua indipendenza strutturale possiamo rilevarlo con alcuni esempi specifici. Alcuni vengono dalla matematica. Possiamo pensare che l’invenzione dei numeri naturali cardinali determinò la nascita dei numeri pari e dispari ancor prima che qualcuno (inteso come soggettività empirica) ponesse attenzione a questo fatto. La stessa cosa vale per i numeri primi. Non vi può essere più di un numero primo pari, che è il 2 o non vi può essere più di una terna dispari di numeri primi (il 3, il 5 e il 7) e così via. Lo spazio simbolico può essere inteso come uno spazio di dipendenza indipendente, nel senso che la sua modificazione, la sua evoluzione fattuale dipende dall’intervento di una o più soggettività empiriche ma la sua evoluzione potenziale è già contenuta entro di sé e al di là dei soggetti reali. La sua autonomia è data dal fatto che il suo statuto ontologico, che il soggetto può comprendere e riscontrare, sarebbe dato indipendentemente dall’esistenza concreta di soggetti in grado di aprirsi a esso.

 

  1. La costituzione dello spazio simbolico: il contributo dell’antropologia

Ma soffermiamoci ora sulle modalità reali (non sulle caratteristiche formali e sulla struttura intrinseca) di costituzione dello spazio simbolico. Su questo argomento molto hanno da dirci anche gli antropologi e gli etnologi (a ulteriore dimostrazione che la neurobiologia non può semplicisticamente riassorbire tutti i vari ambiti del sapere). Prenderemo in considerazioni alcuni passaggi dell’opera di Leroi-Gourhan e Clifford Geertz. Quest’ultimo scrive che:

La cultura invece di essere aggiunta, per così dire, ad un animale ormai completo, fu un ingrediente, e il più importante, nella produzione di questo stesso animale. […] Il perfezionamento degli attrezzi, l’adozione delle pratiche organizzate […] il crescente affidamento a sistemi di simboli significanti (il linguaggio, l’arte, il mito, il rituale) per l’orientamento, la comunicazione e l’autocontrollo crearono tutti per l’uomo un nuovo ambiente a cui egli fu obbligato ad adattarsi. Tra il modello culturale, il corpo e il cervello fu creato un effettivo sistema di retroazione in cui ciascuno foggiava il progresso dell’altro, un sistema del quale l’interazione tra l’uso crescente degli attrezzi, la mutante anatomia della mano e l’espansione della rappresentazione del pollice sulla corteccia cerebrale è soltanto uno degli esempi più vistosi. Sottomettendosi alla guida di programmi simbolicamente mediati per produrre manufatti, organizzare la vita sociale o esprimere emozioni, l’uomo determinò, anche se inconsciamente, le fasi culminanti del suo destino biologico. Letteralmente, anche se senza saperlo, creò se stesso[8].

 

Dai passaggi proposti si evince la stretta relazione, postulata dall’antropologo americano, tra la realtà umana, nel suo lento sviluppo filogenetico, e lo spazio simbolico che andava a costituirsi, retroagendo sulla soggettività stessa, intesa come sistema fisico (si parla di corpo e di cervello ). L’individuo come colui che crea simboli, i quali a loro volta retroagiscono sulla soggettività plasmandola a livello cerebrale (nelle fasi della neurogenesi, odogenesi e sinaptogenesi, nonché nelle fasi successive di carattere degenerativo).

«A caratterizzare l’evoluzione della specie umana, dunque, a differenza di quella degli altri esseri viventi che è intraspecifica, è il processo di esteriorizzazione»[9].

Leroi-Gourhan così si esprime su quest’ultimo punto:

Tutta l’evoluzione umana contribuisce a porre al di fuori dell’uomo ciò che nel resto del mondo animale, corrisponde all’adattamento specifico. Il fatto materiale che colpisce di più è certo la liberazione dell’utensile, ma il fatto fondamentale è la liberazione della parola e quella proprietà unica posseduta dall’uomo di collocare la propria memoria al di fuori di se stesso, nell’organismo sociale[10].

 

In questa prospettiva, l’uomo proietta al di fuori di sé ciò che può immaginarsi, a vari livelli di strutturazione e complessità, come progetto, idea, intuizione, etc.

In questo senso il cervello, anche nella sua configurazione neurobiologica, non può essere inteso come luogo chiuso, bensì come centro di proiezione dei significati sul mondo e, ancora più decisamente, centro di introiezione del mondo dei significati, del mondo oggettivato, dello spazio simbolico.

L’uomo, quindi, costruisce lo spazio simbolico, uno spazio che ottiene, nel momento della sua esternalizzazione, un suggello di autonomia e un carattere di assoluta meta-individualità. Partendo da questa riflessione possiamo suggerire alcuni percorsi, che non verranno chiaramente articolati e sviluppati in questa sede. Il primo percorso è quello che viene richiamato dalle ricerche che hanno a che vedere con la cosiddetta “mente estesa”, espressione con la quale si vuole sottolineare il carattere eteroreferenziale di qualsiasi processo cognitivo, che nel suo intimo statuto non può mai essere racchiuso nel mero spazio dei processi intracerebrali[11]. Un altro percorso possibile è quello sulla soggettività eteroriferita, ovvero un’idea di soggettività che evidenzia l’elemento esternale, il contenuto di alterità necessario a configurare un soggetto reale, mai da concepire come qualcosa di autoriferito e autoreferenziale[12].

A questo punto è chiaro che, pur non potendo percorrere la strada che conduce a un modello della soggettività dualistico, possiamo immaginare che l’introiezione e la costruzione della propria individualità attraverso l’incontro con lo spazio simbolico dia la possibilità di fuoriuscire dai ristretti confini di un materialismo riduzionistico al quale tutto infine dovrebbe essere riportato.

 


[1] Intorno a tale problematica abbiamo le riflessioni fatte, forse per la prima volta in maniera lucida e antivedente, da Ivan Pavlov nel testo Teoria dei riflessi condizionati, tr. it. Newton & Compton, Milano 2007 o ancora il testo di M. Solms e O. Turnbull, Il cervello e il mondo interno, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2004.

[2] K. R. Popper, J. C. Eccles, L’io e il suo cervello. Materia, coscienza e cultura, tr. it. Armando editore, Roma 1981, Vol. 1, p. 52.

[3] Ibid.

[4] Ibid, p. 53.

[5] Ibid, p. 55.

[6] Ibid.

[7] N. R. Hanson, I modelli della ricerca scientifica. Ricerca sui fondamenti concettuali della scienza, tr. it. Feltrinelli, Milano 1978, pp. 14-16.

[8] C. Greetz, Interpretazione di culture, tr. it. Il Mulino, Bologna 1998, pp. 61-63.

[9] G. D’Agostino, De homine, in J. P. Changeux, Geni e cultura, Sellerio editore, Palermo 2007.

[10] A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, tr. it. Einaudi, Torino 1977, p. 277.

[11] Cfr. S. Tagliagambe, Il sogno di Dostoevskij. Come emerge la mente dal cervello, Raffaello Cortina, Milano 2002

[12] Cfr. J. P. Changeux, L’uomo neuronale, tr. it. Feltrinelli, Milano 1998. In questo testo si gettano le basi per la teoria dell’epigenesi per stabilizzazione selettiva con la quale Changeux tenta di spiegare come i fattori aleatori (fattori endocrini ed esocrini) incidano nella strutturazione di una soggettività compiuta.

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