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Animalità, umanità, una questione antropologica. Due scene per una nota senza pretese

Autore


Delio Salottolo

Università degli Studi di Napoli - L'Orientale

Indice


  1. Introduzione metodologica. Ancora sulla nozione di vita
  2. Scena n. 1. Il monolito nero, la bestia e la divinità
  3. Scena n. 2. Il professore, la vergogna e lo sguardo dell’animale
  4. Note conclusive (ma, necessariamente, inconcludenti)

 

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S&F_n. 07_2012


Simia quam similis, turpissima bestia, nobis!

Ennio

 

Le meravigliose conchiglie di Voluta e di Conus dell’epoca Eocenica, e le ammoniti elegantemente scolpite nel periodo secondario, sarebbero state create perché l’uomo dopo migliaia di anni potesse ammirarle nei suoi gabinetti?

Darwin

 

His quidam signis atque haec exempla secuti esse apibus partem divinae mentis et haustus aetherios dixere

Virgilio

 

 

  1. Introduzione metodologica. Ancora sulla nozione di vita

Bisogna partire immediatamente da una premessa: da un lato l’indubbia difficoltà di ogni approccio (che si pretenda) filosofico che voglia porre in questione la relazione umanità/animalità oggi, dall’altro la necessità sempre più stringente a partire da almeno due secoli di una riflessione in questi termini. Se non è il caso di richiamare immediatamente, all’interno di questa introduzione, le riflessioni più importanti su questo tema (compito che tra l’altro eccederebbe l’intenzione di questa nota), è però sicuramente il caso di partire da un dato di fatto: l’intero XX secolo, in un modo o nell’altro, ha posto questa questione in maniera radicale, ci ha scavato all’interno, ci ha ragionato dalle prospettive più disparate (dalle scienze alla filosofia, passando per tutte le cosiddette scienze umane), fino a farla divenire una questione spesso decisiva per la stessa posizione e comprensione della differenza umana. In questo senso lo stesso Heidegger non è restato impermeabile a questa “temperie”[1].

In poche parole la questione è stata posta continuamente ma non di certo risolta.

Un primo elemento, allora, che deve essere accettato e sul quale vale la pena di riflettere è il fatto che l’animalità (nella cui definizione si annida già sempre una forma di generalizzazione[2] – dal lombrico allo scimpanzé) è divenuta, nella seconda modernità, sempre più funzionale all’analisi di ciò che l’uomo è; certo non più, però, attraverso una costruzione favolistica o per analogia – dimensione sempre presente da Esopo in poi, la favola degli animali come medium per la rappresentazione dei vizi e delle virtù umane – ma proprio come costruzione scientifica e filosofica del senso della presenza umana all’interno della realtà.

Quello che si vuole sottolineare a mo’ di introduzione è che nella seconda modernità (diciamo – secondo la più comune periodizzazione – a partire dalla fine del XVIII secolo) si è avuta una radicale trasformazione nella rappresentazione dell’umano e della realtà dovuta all’ingresso trionfale e “selvaggio” della nozione di vita, la quale ha condotto l’uomo dinanzi alla sua finitudine, determinata, questa volta, dalla dimensione biologica dell’esistenza umana e dall’organicità delle relazioni ambientali. Ci appoggiamo, seppure en passant non potendo (e non volendo) soffermarci troppo sulla questione, alle analisi di Foucault[3], laddove nota che uno degli elementi decisivi per la comprensione della modernità (e per la comprensione dell’autocomprensione dell’umano all’interno della modernità) è proprio la nozione di vita, intesa come forza invisibile e selvaggia che determina la struttura funzionale della realtà vivente e che non può essere compresa nei termini comuni della scienza esatta; essa può essere analizzata soltanto attraverso un approccio del tutto empirico e fenomenico, insomma rimanendo da un lato sulla superficie di ciò che vive in quanto vive e dall’altro riconducendo tutto il visibile a un invisibile indeterminabile, appunto la forza della vita, che c’è ma non può essere definita. Insomma l’uomo scopre di essere apparso all’interno di una “storia” che lo precede e lo eccede e di cui egli non può rendere pienamente conto; forzando appena la lettera foucaultiana, è possibile affermare che sia Bergson, forma più elevata e moderna del vitalismo metafisico, sia la biologia scientifica più accorta hanno la medesima radice all’interno di una struttura di pensiero fondata su questo mistero determinante, la vita, appunto, nelle sue funzioni e nelle sue relazioni. Si tratta di quel passaggio nella rappresentazione ontologica dell’umano e del reale che, altrove, abbiamo definito in questi termini, dal ciò-che-è al ciò-che-vive[4].

Il taglio che si è deciso di dare a questa breve riflessione è comunque del tutto antropologico, si tratta in poche parole di cercare di comprendere in che modo il pensare l’animale abbia determinato e determini oggi il modo di pensare l’umano. Il compito è sicuramente immenso ma noi lo svolgeremo, senza pretese, attraverso l’ausilio di due scene, fermo restando l’assoluta e inevitabile incompletezza di queste che devono essere lette soltanto come delle brevi note.

 

  1. Scena n. 1. Il monolito nero, la bestia e la divinità

C’è un modo per rappresentare in maniera visiva quello che – almeno da Darwin in poi in maniera sempre più determinante – può essere definito il problema decisivo della relazione umanità/animalità. Si tratta di quello che di volta in volta possiamo chiamare il problema del “passaggio”, dell’“apertura”, del “salto”, della “rottura”, del “tradimento”; in poche parole, avendo Darwin dimostrato una volta e per tutte che noi proveniamo da una “storia” evolutiva che ci lega a tutti gli altri esseri viventi e avendo soprattutto dimostrato che noi partecipiamo insieme al resto della natura di una “storia” fatta di eventi casuali e non guidata da un logos, le domande si strutturano più o meno in questa maniera: in che momento è comparso l’uomo all’interno di questa “assurda” narrazione? e perché? e soprattutto (perché differenza deve esserci!) in cosa consiste la nostra differenza?

La difficoltà consiste nel fatto che più o meno parallelamente all’avvento della nozione di caso e alla riduzione dell’avventura umana a una storia senza senso di cui fanno parte tutti gli esseri viventi, anche i più “bassi” e “meschini”, è accaduto un altro avvenimento epocale: la morte di Dio. Ed è proprio attorno al ripensamento moderno della triade “classica” dio, uomo, animale, che sorge la prima complessità che vorremmo analizzare; e se abbiamo inserito l’”uomo” in posizione mediana non è, ovviamente, nel senso rinascimentale della questione, non vogliamo richiamare alcuna scala dell’essere, ma soltanto il fatto che la prospettiva è sempre umana (forse, troppo umana).

Ma torniamo alla “difficoltà” della differenza. Si potrebbero in questo senso trovare citazioni un po’ ovunque ma noi abbiamo preferito riportare quella che segue, allo stesso tempo per la sua ricchezza e la sua “semplicità” (oltreché per la sua indubbia “bellezza”): «tutto ciò che separa l’uomo dall’animale dipende da questa capacità di piegare a uno schema le metafore intuitive, quindi di risolvere un’immagine in un concetto; infatti nell’ambito di tale schematismo è possibile ciò che non lo sarebbe mai con le prime impressioni intuitive: costruire un ordinamento piramidale secondo caste e gradi, creare un nuovo mondo di leggi, privilegi, sottodivisioni, limitazioni che stia di fronte all’altro mondo delle prime impressioni come ciò che è più solido, più generale, più conoscibile e dunque come ciò che è più perentorio e imperativo»[5].

La tonalità nietzschiana c’è sembrata quella più adatta per introdurre questa prima scena (e questa ha decisamente a che fare con la nietzschiana produzione di metafore e di solidità imperativa). Si tratta del lungo preambolo del film 2001 – Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Indubbiamente (e giustamente) sono stati scritti fiumi di inchiostro su questo film e noi non intendiamo presentare un’interpretazione chissà quanto originale; a noi interessa sottolineare soprattutto un particolare, si tratta (ovviamente) del monolito nero. La scena iniziale di per sé è paradigmatica: si tratta della rappresentazione di un gruppo di ominidi (non ancora “umani”, prima del “salto” – sottolinearlo è necessario) che conducono una vita “animale” in tutto e per tutto, affrontando le difficoltà dell’ambiente e scontrandosi con altri animali e tra di loro. Tutto scorre immutato, la rappresentazione è scarna e asettica, quasi documentaristica eppure in un certo senso assolutamente efficace, straniante. Tutto è giocato sulla duplicità della rappresentazione: umano e non umano, umano e animale, siamo noi oppure no? Avviene poi un fatto inaspettato: di notte compare un monolito nero, il gruppo di ominidi ne viene attratto e, ipnoticamente, si avvicina a esso e lo tocca. Stacco d’immagine. Il mattino successivo, luce bassa e gialla, avviene, inaspettato e lirico, il “passaggio”, l’”apertura”, la “rottura”, forse il “tradimento”: uno degli ominidi “scopre” che l’osso di un animale può divenire uno strumento, uno strumento che è già sempre un’arma, anzi, più precisamente, scopre l’esistenza e il significato della strumentalità che è già sempre (per Kubrick e non soltanto per lui nel XX secolo) violenza. La scena è condotta dal regista in maniera magistrale: l’ominide afferra un osso, strumento che contiene in sé una duplicità irresistibile, un’origine biologica in quanto è pur sempre “parte” di un altro vivente e una prima traslazione metaforica che ne fa uno strumento culturale, dunque scopre l’“utensilità” e con esso il suo potere trasformativo/distruttivo, poi, in una sorta di delirio estatico, prende a usarlo frantumando altre ossa; l’avvento dell’umano, segnato dal mistero del monolito nero e sancito dalla descrizione della violenza, è accompagnato dallo Also sprach Zarathustra di Richard Strauss in un crescendo sempre più lirico e tardo-romantico (il cui protagonista, però, è il primo “scimmione intelligente”[6] – geniale ironia kubrickiana) in cui con repentini stacchi di immagine, tra un colpo e l’altro, compaiono enormi bestie che stramazzano esanimi al suolo. Incipit homo. Incipit la questione del dominio. Kubrick guarda e legge in questi termini la volontà di potenza nietzschiana. A noi interessa, però, sottolineare altro, cioè che la separazione sia avvenuta e che la rappresentazione più consona di questo passaggio sia il mistero solido (perché concreto) del monolito. La visibilità del monolito nero rappresenta l’invisibilità del processo. Avendo l’uomo ormai ammazzato Dio da tempo, la rappresentazione può essere soltanto la più formale possibile, un parallelepipedo. Ma la contraddizione consiste proprio in questo: la rappresentazione del monolito, che sancisce ancora una volta la descrizione della morte di Dio, sancisce per gli ominidi, oramai incamminati verso l’umanità compiuta, la nascita da un lato del problema dell’animalità e dall’altro del religioso e del sacro. L’“ormai uomo”, nel suo nascere, è schiacciato tra il dio e la bestia, le due figure che assume la sua mancanza ontologica. Questo è un punto che certa antropologia ha mostrato chiaramente. E avremo modo di vederlo fra breve.

Ma torniamo alla genesi kubrickiana dell’umano. Immediatamente lo strumento mostra la sua prima funzionalità, ancor prima che strumento della vita, è arma per la morte: il capo del nostro branco di ominidi uccide, in uno scontro per il territorio, un ominide appartenente a un branco avversario. Il circolo è compiuto, il messaggio di Kubrick limpido: l’uomo, in maniera inconsapevole e misteriosa, diviene tale scoprendo l’utensilità, l’utensilità è già immediatamente violenza, la violenza si compie non soltanto verso il mondo (ora “finalmente” strutturatosi nella distinzione rispetto all’io) ma anche nei confronti dell’Altro vivente umano e non. Si tratta né più né meno che della questione del dominio, prima forma della questione dello sfruttamento. Il gioco è fatto, basta lanciare in aria questo primo strumento ed esso può divenire un’astronave. Non c’è bisogno di raccontare altro, il cammino tecnico-progressivo dell’umanità può durare un battito di ciglia.

Il tema fondamentale è allora sempre lo stesso, il problema del passaggio dalla natura alla cultura, ed esso rappresenta uno degli elementi fondanti l’intera modernità filosofica. Senza scomodare le questioni riguardanti lo “stato di natura” (quanto è stato funzionale – ma probabilmente lo è ancora in salsa neoliberista – immaginare la naturalità dell’umano per determinare la necessità di volta in volta dell’assolutismo o della proprietà privata o di chissà cos’altro ancora), basta interrogare ad esempio Lévi-Strauss il quale è piuttosto radicale su questo tema. Analizzando rapidamente quello che egli definisce l’ultimo sogno di uno stato di natura – i sempre suggestivi racconti dei cosiddetti “ragazzi selvaggi” (il “primitivismo” è sempre in agguato per chi rigetta i meccanismi della contemporaneità e studia antropologia – e Lévi-Strauss stesso lo sa benissimo, cedendovi ogni tanto lui stesso) – o gli studi più recenti (recenti per l’epoca ovviamente) sulle scimmie antropomorfe, sostiene che l’unico elemento che possa permettere di distinguere fatti naturali e fatti sociali riguardi l’instaurazione di una norma all’interno dell’insieme di azioni che non sottostanno direttamente a un comportamento istintivo. «Ovunque si manifesti la regola», sostiene l’antropologo, «noi sappiamo con certezza di essere sul piano della cultura»[7]; il che non vuol dire, però, che l’uomo è del tutto un essere di “cultura”, che non condivida nulla con la “natura”, perché in effetti è anche giusto sottolineare che «l’uomo è un essere biologico e contemporaneamente un individuo sociale»[8]. La questione allora per Lévi-Strauss è che «la cultura non è né semplicemente giustapposta né semplicemente sovrapposta alla vita»[9]. Sappiamo poi come l’antropologo abbia risolto la questione – il famoso assunto dell’universalità “naturale” della proibizione dell’incesto e del relativismo “culturale” delle sue forme sociali di istituzione – e sappiamo che probabilmente questa interrogazione, rapida e posta a introduzione della “ricerca”, ha la sua funzionalità nel mostrare che, per studiare l’umano, anche nelle sue forme cosiddette “primitive”, bisogna inserirlo già immediatamente all’interno di un sistema culturale (laddove il termine “cultura” assume ovviamente una vastità maggiore di quella che possiamo intendere noi nell’uso quotidiano). Certo Lévi-Strauss è sicuramente meno nichilista di Kubrick, la cultura per l’antropologo non è per “essenza” violenza, anzi il contrario, ma sicuramente pone anch’egli l’impossibilità di comprensione del “passaggio” e forse, in più, l’inutilità epistemologica di una ricerca in quel senso, ponendosi sempre e comunque già dopo la comparsa del monolito nero, il quale segna una frattura insanabile di cui è impossibile rendere conto. Ma l’insegnamento più importante che ci dà Lévi-Strauss è che quando si parla dell’umano, lo si deve fare sempre in termini culturali e che ogni richiamo a delle presunte “naturalità” è sempre ideologico o funzionale. Ecco, allora, un altro punto che possiamo accogliere nella nostra riflessione (e che Foucault ha appreso bene portandolo alle più estreme conseguenze): la “natura” è sempre una costruzione culturale dell’uomo, non nel senso che non esista, ma che semplicemente esiste in funzione soltanto di quel vivente, l’uomo, che in un modo o nell’altro (il monolito) ha sviluppato determinate strutture per interrogarsi su di essa.

Su questo passaggio è ancora più chiaro (e radicale) Bataille. Nella sua riflessione troviamo esposta in maniera molto limpida una (possibile) genealogia della triade di cui si faceva accenno precedentemente: dio, uomo, animale. Ci troviamo (ovviamente) già nel post-monolito. Anche per Bataille è l’utensilità a segnare la nascita dell’umano: «la posizione dell’oggetto, che non è data nell’animalità, lo è nell’impiego umano degli utensili»[10]. Si ha così la determinazione della prima differenza: l’animalità è il regno del continuo, immanente e non trascendente; l’umanità è il regno del discontinuo (come l’intelligenza, suo “strumento”), sempre trascendente, nel quale la morte ristabilisce la continuità perduta (sempre presente in Bataille una certa tonalità hegelo-kojèviana). Sulla base di questa differenza sorge da un lato l’animalità di cui l’uomo in un primo momento invidia il “prestigio” (nelle grotte di Lascaux e in generale nelle più antiche pitture parietali gli uomini hanno rappresentato quasi esclusivamente degli animali e quando hanno rappresentato l’uomo l’hanno fatto coprendone il volto con maschere animali[11]), e dall’altro l’esigenza di inserire nel piano del mondo inteso come oggettività/utilità elementi che appartengono al mondo come continuità, al mondo non organizzato da una coscienza (soggetto) in oggetto, cioè il sacro, in poche parole il religioso. Insomma quello che si intende dire è che, a partire da una riflessione sull’umanità cosiddetta “primitiva” (se non altro temporalmente più vicina all’apparizione del monolito), il divino e l’animale si sovrappongono all’interno di una dimensione umana che tende a voler fuoriuscire da un lato dalla mera oggettività con la quale “domina” e “sfrutta” il mondo e gli altri uomini e dall’altro dalla mera soggettività con la quale “domina” e “sfrutta” se stesso. Nel sacro si mescolano la bestia e il dio ed entrambi comunicano all’uomo fascino e orrore perché rappresentano il superamento sempre possibile (ma in realtà impossibile) della dicotomia soggetto/oggetto: «senza alcun dubbio, ciò che è sacro attira e possiede un valore incomparabile, ma appare al tempo stesso vertiginosamente pericoloso per questo mondo chiaro e profano in cui l’umanità pone il suo dominio privilegiato»[12].

Ed è anche per questo che si è ricordata la concomitanza tra la “morte di Dio” e la scoperta dell’assoluta animalità dell’umano. Morto Dio, ci rimarrebbe forse l’Animale[13]. Ma in questo senso, forse, insieme a Dio è morto anche l’Animale, nella sua statura puramente simbolica e ideologica, diciamo “favolistica”. E forse anche per questo che è sorto l’animale in tutta la sua statura di mistero e in tutta la sua carica di pungolo teorico. E così la modernità non smette più di interrogarsi e di spiegare non più tanto l’animale a partire dall’uomo ma l’uomo a partire dall’animale[14]. E la necessità dell’analisi dell’animalità sembra essere (evidentemente) divenuta più importante dell’analisi del problema della divinità o, comunque, una chiave di lettura fondamentale per essa.

 

  1. Scena n. 2. Il professore, la vergogna e lo sguardo dell’animale

E dunque siamo giunti al punto in cui l’animale sembra poter rivelare qualcosa di noi stessi, ben più della divinità. Ed ecco allora che possiamo introdurre la seconda scena o, per meglio dire, il secondo gruppo di scene. Questa volta ci siamo appoggiati, per la nostra riflessione, a quello che consideriamo uno dei massimi romanzi degli ultimi anni: Disgrace del Premio Nobel J. M. Coetzee. Può essere utile, seppur in maniera breve, raccontarne la trama: il professore David Lurie viene accusato di violenza sessuale da una studentessa con cui ha avuto una relazione e, a causa di questa denuncia, viene cacciato dall’Università (anche e soprattutto perché non ha voluto ammettere la sua “colpa” e non ha voluto affidarsi ai “servizi sociali” per “normalizzarsi”); decide allora di andare a trovare la figlia che ha scelto di vivere in campagna in un percorso di idealizzazione della vita “naturale”, in più Lucy, la figlia, è anche una convinta animalista ed è tutto questo insieme di cose a costituire il territorio di attrito tra padre e figlia: il professore non accetta che la figlia possa aver fatto quella scelta di vita, che abbia deciso di tornare a una vita contadina e pre-moderna, e non accetta che possa parlare in termini (per lui) deliranti della vita animale (questa la prima affermazione di David: «sono d’accordo anch’io, questa è l’unica vita che c’è. E per quanto riguarda gli animali, è giustissimo trattarli con gentilezza. Ma cerchiamo di non perdere il senso delle proporzioni. Noi apparteniamo a un ordine del creato diverso da quello degli animali. Non necessariamente superiore, ma diverso. Quindi, se vogliamo essere gentili con loro, facciamolo per pura e semplice generosità, non perché ci sentiamo in colpa e temiamo una punizione»[15]). Il primo elemento che determina l’animalismo contemporaneo è appunto il “senso di colpa” e il professore lo coglie immediatamente. Bisogna sottolinearlo già da ora perché rappresenta uno dei temi fondamentali dell’intero romanzo e diviene la chiave di lettura della relazione che lega gli uomini tra di loro e gli uomini agli animali. Nei giorni successivi all’arrivo del professore accade l’evento vero e proprio del romanzo: i due, padre e figlia, che vivono isolati in questa umile tenuta di campagna, subiscono l’aggressione di tre uomini di colore, lui viene picchiato selvaggiamente, gli viene dato fuoco e rimane ustionato in più parti del corpo, lei subisce violenza carnale e rimane incinta. Nonostante ciò Lucy decide di rimanere in quel territorio selvaggio al quale sta dedicando tutta la sua vita e di accettare la violenza e la gravidanza in nome di un “senso di colpa” che viene percepito come una sorta di spirito del proprio tempo, tutto questo pur intuendo che Petrus, il fattore di colore che le dà una mano e che alla fine rileva la sua tenuta, è stato in realtà il mandante della violenza e dello stupro. Il filo rosso fondamentale è dunque il “senso di colpa” occidentale per gli orrori del colonialismo e nel caso sudafricano (il romanzo e lo scrittore sono sudafricani) dell’apartheid. Lucy accetta quanto accaduto come una sorta di punizione e di iniziazione a una possibile vita all’interno di un mondo che non le dovrebbe appartenere, lei bianca nella nera Africa, lei che appartiene ai “bianchi” violentatori della nera e violentata Africa, lei bianca e violentata dalla nera Africa, lei bianca e violentata per poter essere infine accettata. Ma quello che a noi interessa è un altro filo rosso che accompagna come in controcanto quello che abbiamo definito come il tema fondamentale: si tratta, in poche parole, del cammino che compie David Lurie, il professore che ha fondato la sua esistenza sulla cultura e il razionalismo, verso l’animalità, verso una rappresentazione raffinata e commovente della sua relazione con l’animale. Ancora una volta a essere tematizzata è la relazione natura/cultura che assume sempre di più, nella tarda modernità, le sembianze di una relazione animalità/umanità.

L’elemento fondamentale è che soltanto lo stato di disgrace (tradotto con “vergogna” in italiano, ma dalla maggiore ampiezza semantica) in cui David è piombato per l’accusa di violenza gli permette di uscire dal suo mondo preconfezionato e iperrazionale e di immergersi in un mondo Altro. Durante la sua permanenza nella tenuta della figlia, egli comincia a lavorare in una clinica veterinaria, clinica in decadenza, immersa nell’acre odore dell’urina di gatto, in cui una brutta e sgradevole veterinaria (che diverrà, seppur fugacemente, sua amante), lavoratrice volontaria, abbatte gli animali ammalati o in sovrappiù accompagnandoli in maniera dolce e delicata verso la morte, sussurrando parole alle orecchie e facendo sentire l’odore della propria compassione. Ed è proprio questo che gli insegna Bev Shaw, la veterinaria, il fatto che gli animali sentono l’odore dei pensieri; questa immagine ritorna spesso in tutto il romanzo come una piccola e lieve ossessione per il professore che teme che le persone possano riconoscere l’odore spesso marcio dei suoi pensieri. David è scettico ma sempre di più si immerge nell’animalità della sua condizione di disgrace. Anche in questo senso si tratta di un cammino: il professore, seppur perennemente titubante, lui amante dell’alta poesia umana in procinto di scrivere una surreale opera lirica sulle avventure di Lord Byron, si immerge sempre più in quel mondo fatto di campagna, raccolti, vendite ai mercati, cura degli animali, iniezioni letali, chiusura dei cadaveri in buste di plastica, incenerimento dei resti.

La scena è quella con cui si chiude il romanzo.

David ha stretto amicizia con uno di quei cani, ammalato e destinato alla morte: «ogni tanto, quando legge o scrive, David lo libera dalla gabbia e lascia che sgambetti grottescamente per il cortile o venga a sonnecchiare ai suoi piedi. Non lo sente “suo” in alcun modo; è stato attento a non dargli un nome (anche se Bev Shaw lo chiama Zampasecca), ma è consapevole che il cane lo adora. Senza una ragione, incondizionatamente, David è stato scelto; quel cane morirebbe per lui, ne è sicuro»[16]. Ma David è consapevole che quel cane è ammalato e pur potendogli concedere una settimana in più di vita decide di portarlo alla morte, in quella sala di veterinario in cui gli animali senza saperlo entrano per non uscirne mai più: «ciò che il cane non riuscirà mai a capire (“Nemmeno in mille domeniche!” pensa David), ciò che il suo naso non saprà spiegargli, è come sia possibile entrare in una stanza all’apparenza normale e non uscirne mai più […] quella stanza, che non è una stanza ma un buco sul nulla, resterà fuori della sua comprensione»[17].

La maniera attraverso la quale questo romanzo indaga la finitudine dell’uomo contemporaneo, lo stato di disgrace permanente in cui è immerso nella sua relazione con l’Altro, rivela una presa di coscienza fondamentale: uomo o animale che sia, l’Altro che si pone di fronte a noi, a noi occidentali, appartenenti a una tradizione di dominio e sfruttamento, di devastazione e violenza, rappresenta la condensazione di una storia umana fatta di orrori e la presa di coscienza non può che avvenire attraverso un cammino di “senso di colpa” e di “vergogna”. L’animale rappresenta allora anche questo nella contemporaneità, la forma più compiuta del “tradimento” permanente nel quale si dimena l’uomo, un “tradimento” che filosofi contemporanei vedono in connessione con l’intera storia della metafisica o del pensiero politico. L’animale che dunque sono, come suona il titolo di un’opera di Derrida, è la forma più compiuta e matura che assume la presa di coscienza di questo stato di disgrace, ancor di più attraverso il gioco semantico che fa lo stesso Derrida, laddove la forma verbale francese je suis può intendersi sia come “io sono” sia come “io seguo”: in questo senso l’animalità sembra divenire sempre di più un modello da seguire piuttosto che uno stato in cui ci si trova gettati. È comunque da sottolineare il fatto che, su questi passaggi, Derrida resti sempre molto cauto perché sa fin troppo bene ed è fin troppo smaliziato, per non sapere quanto siano state (e possano esserlo ancora) pericolose le teorie “biologiste” dell’umano. Il “seguire” l’animale che “siamo” significa cercare di costruire una nuova modalità di relazione con la realtà tutta.

Lo sguardo dell’animale per Derrida come per il professore David Lurie è un momento particolare di un particolare autosvelamento: «spesso mi interrogo, per vedere chi sono – e chi sono nel momento in cui, sorpreso nudo, in silenzio, dallo sguardo di un animale, ad esempio gli occhi di un gatto, faccio fatica, sì, faccio fatica a superare un disagio»[18]. Lo sguardo del malconcio Zampasecca incontra lo sguardo del gatto di Derrida. Ed è appunto questo l’elemento fondamentale di ciò che l’animale significa per noi, oggi; in primo luogo è uno sguardo ed è uno sguardo Altro per eccellenza. Uno sguardo nel fondo del quale non vi è pudore e, perciò, neanche il senso di colpa o lo stato di disgrace. Anzi seguendo Derrida possiamo determinare il momento della vergogna/disgrace o del pudore della nudità come il momento aurorale (raccontato dalla Bibbia) che segna la nascita dell’umano. Ma ciò in cui riesce questo testo di Derrida dedicato all’animalità, testo postumo che riunisce alcuni intereventi pensati per un uditorio e non per la scrittura e la pubblicazione, è il fatto che, pur aggiungendo una serie di elementi per la decostruzione della storia del pensiero occidentale in vista della percezione dell’animalità, egli non cede mai alla seduzione di un’esaltazione dell’animale fine a se stessa. Anzi l’animale si pone dinanzi allo sguardo di Derrida in tutta la complessità tipica di un mistero. L’incrocio di sguardi tra Derrida e il suo gatto, tra il professore David Lurie e Zampasecca è una riproposizione delicata e sensibile del monolito nero kubrickiano. Ciò che vogliamo dire è che Derrida non attua una critica del riduzionismo a cui è andato incontro l’animalità nella storia del pensiero in vista di un possibile superamento, ma si pone lungo la faglia che separa l’umanità dall’animalità, cercando di descriverla in tutta la sua ricchezza. E come sempre è l’opera di decostruzione a permettere di pensare altrimenti.

Insomma se Derrida sostiene che per comprendere la storia del pensiero occidentale (a partire dall’Antico Testamento fino a Lacan) è fondamentale porre la questione del pensiero dell’animalità, questione irrisolvibile e labirintica dove il genitivo è oggettivo perché a noi reclusa la sua soggettività, in cui il silenzio dell’animale resta la rappresentazione del mistero della nostra origine, non possiamo non citare en passant anche Giorgio Agamben per il quale «il conflitto politico decisivo, che governa ogni altro conflitto, è, nella nostra cultura, quello fra l’animalità e l’umanità dell’uomo»[19].

Il discorso che qui vogliamo fare non è tanto quello di indagare la “complessità” delle affermazioni di Derrida o dell’impostazione di Agamben ma soltanto sottolineare come, alla fine del XX secolo e, oltre, fino agli inizi del nostro XXI secolo, il discorso sull’animalità divenga onnicomprensivo: per Derrida e Agamben risulta essere il problema fondamentale, quello attraverso il quale è possibile leggere l’intero “destino” della metafisica occidentale (e probabilmente la stessa origine della metafisica, come ciò che, appunto, va oltre il mondo fisico, dunque come rappresentazione “tutta umana”) e della “politica” occidentale come quella complessa e sempre cangiante articolazione tra un principio vivente e un principio culturale all’interno dell’umano.

Insomma come Coetzee ha dimostrato che le questioni del colonialismo e dell’apartheid in un modo o nell’altro hanno a che fare con la rappresentazione e la cura dell’animale, così Derrida e Agamben producono lo stesso movimento all’interno del rigore della riflessione filosofica. Quello che si è voluto sottolineare con questa seconda scena è proprio l’emergere nella tarda modernità di un motivo fondamentale. Questo motivo, abbandonate le regioni trascendentali del divino – una volta che gli uomini hanno ammazzato Dio – è rappresentato dall’immanenza assoluta dell’animale, è la descrizione della “gabbia” antropologica in cui si trova l’uomo ormai del tutto impossibilitato a trovare la spiegazione di se stesso, la descrizione, infine, di quella “gabbia” che è la manifestazione del suo essere già sempre schiacciato tra il divino e l’animale, entrambe proiezioni della sua solitudine.

 

  1. Note conclusive (ma, necessariamente, inconcludenti)

A questo punto, alla fine di questo breve percorso, sarebbe opportuno tirare delle conclusioni, per permettere di chiarire quale sia stata la molla che ci ha portato ad affrontare la questione in questi termini. Purtroppo una vera e propria “conclusione” risulta essere impossibile per noi, non tanto perché non ci sentiamo in grado di presentare una chiusura “forte”, quanto perché lo stesso andamento del nostro discorso ci porta a essere piuttosto inconcludenti.

I punti sui quali ci si è soffermati sono essenzialmente due, due come le scene che si sono scelte per rappresentarli.

In primo luogo si è posta la questione del mistero dell’animalità o per meglio dire del passaggio dall’animalità all’umanità, sottolineando come la stessa percezione di questo passaggio abbia permesso all’uomo di produrre il sacro e il profano, il mondo del religioso e del prestigio della bestia e il mondo profano dell’utilitarismo tecnico e dello sfruttamento. Ma, a partire da ciò, si è data anche un’altra indicazione, la contemporaneità tra l’emergere di una questione differente e più densa teoreticamente dell’animale e l’immergersi nel fondo oscuro dei pregiudizi della questione di dio, quella che molto efficacemente è definita “morte di Dio”. Questa contemporaneità permette di cogliere alcuni dei motivi per cui l’animale sembra oramai essere la griglia attraverso la quale ordinare gli elementi in vista di un racconto di noi stessi.

In secondo luogo si è cercato proprio di mostrare in che maniera la questione dell’animale ricopra oggi uno spazio decisivo all’interno della rappresentazione dell’umano e della storia del suo pensiero. L’animale diviene il simbolo della (troppo) umana “vergogna” e del “senso di colpa” che pervade le menti più accorte per gli orrori perpetrati dal razionalismo occidentale attraverso il colonialismo o i campi di concentramento. Si assiste allora a un ritorno all’animale come all’Altro per eccellenza, all’Altro che “siamo” noi (o che dovremmo essere) o che “seguiamo” noi (o che dovremmo seguire) secondo le indicazioni di Derrida, a un ritorno all’animale come a quell’essere che, con il mistero del suo sguardo, ci restituisce il mistero della nostra esistenza. Ma si è voluto anche dire, sebbene per limiti di spazio e di convenienza la questione non sia stata affrontata, che questo ritorno all’animale ha prodotto anche movimenti animalisti (spesso attraversati da forme che verrebbe da definire un po’ ironicamente “fondamentaliste”) che rappresentano un fenomeno di superficie capace di raccontare fino in fondo il nostro “senso di colpa”.

In poche parole quello che oramai si configura sempre più come un “tradimento” (più che un “passaggio” o un’“apertura”) dell’animale dentro e fuori dell’uomo, rappresenta una sorta di nuova forma di “autocoscienza”, l’unica, forse, tipica di questa fase della storia “occidentale”, all’interno della quale nasciamo, cresciamo e sviluppiamo le nostre idee e di cui oramai pretendiamo di conoscerne pienamente lo svolgimento e che, probabilmente, non approviamo più in alcun modo.

 


[1] Cfr. M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo, finitezza, solitudine (1929-30), tr. it. Il Nuovo Melangolo, Genova 2005.

[2] Cfr. J. Derrida, L’animale che dunque sono (2006), tr. it. Jaca Book, Milano 2006.

[3] Cfr. M. Foucault, Le parole e le cose (1966), tr. it. Bur, Milano 2004, pp. 285-302. Per chi fosse interessato alle indubbiamente originali interpretazioni foucaultiane della “storia della biologia” può essere utile confrontare Id., La situation de Cuvier dans l’histoire de la biologie (1970), in Id., Dits et écrits I. 1954-1975, Paris 2001, pp. 898-934.

[4] Ci permettiamo di rinviare a un nostro contributo all’interno del quale, proprio dalla prospettiva della biologia più accorta e in chiave etico-politica, si sono discusse alcune questioni riguardanti la nozione di vita. Cfr. D. Salottolo, La nozione di vita tra epistemologia storica francese e biologia contemporanea. Una nota critica, in «S&F_scienzaefilosofia.it», 3, 2010, pp. 96-105.

[5] F. W. Nietzsche, Verità e menzogna in senso extramorale (1873), tr. it. Newton Compton, Roma 1995, p. 97.

[6] Prendiamo questa definizione dal titolo di un libro che riporta un interessante e sagace dialogo tra Edoardo Boncinelli e Giulio Giorello (cfr. E. Boncinelli, G. Giorello, Lo scimmione intelligente. Dio, natura e libertà, Rizzoli, Milano 2009).

[7] C. Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela (1967), tr. it. Feltrinelli, Milano 2003, p. 46.

[8] Ibid., p. 39.

[9] Ibid., p. 40.

[10] G. Bataille, Teoria della religione (1973), tr. it. SE, Milano 2002, p. 29.

[11] Cfr. Id., Lascaux. La nascita dell’arte (1955), tr. it. Mimesis, Milano 2007.

[12] Id., Teoria della religione, cit., p. 35.

[13] Usiamo la maiuscola per sottolinearne il significato “speculare” a Dio.

[14] Come sostiene giustamente Simondon (cfr. G. Simondon, Deux leçons sur l’animal et l’homme, ellipses, Paris 2004).

[15] J. M. Coetzee, Vergogna (1999), tr. it. Einaudi, Torino 2003, pp. 77-78.

[16] Ibid., p. 224.

[17] Ibid., p. 228.

[18] J. Derrida, L’animale che dunque sono, cit., p. 38.

[19] G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Torino 2007, p. 82.

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