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After birth abortion: why should the baby live?

Autore


Maria Teresa Speranza

Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice



Alcune note su un seminario di riflessione sulle questioni della procreazione a partire dall’articolo di Alberto Giubilini e Francesca Minerva.

Centro Interuniversitario di Ricerca Bioetica di Napoli

Università l’Orientale, Palazzo Giusso, Napoli 17 gennaio 2013

 

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S&F_n. 09_2013

Abstract



After the publication of the paper by Alberto Giubilini and Francesca Minerva, two Italian researchers currently active in Australia, entitled After birth abortion: Why Should the baby live?, published in 2012, there was a great debate among scholars and journalists that induced many people to rethink the current conditions of life and death. The mass media have reported a strong controversy on this topic. Fitting into this heated exchange of views, the University Orientale of Naples, in the presence of the authors of the paper, hosted a seminar organized by CIRB (Centro Interuniversitario di Ricerca Bioetica of Naples) to reflect on post-birth abortion, which was attended by doctors, lawyers and philosophers. The meeting generated an interesting discussion on the main topics of bioethics, but left many unanswered questions.

Sono passati più di trent’anni da quando Michael Tooley, recentemente nominato presidente dell’American Philosophical Association, pubblicò sulla rivista «Philosophy and Public Affairs» un articolo intitolato Abortion and Infanticide. In esso il filosofo, portando alle estreme conseguenze un ragionamento inerente al concetto di persona, sosteneva la tesi dell’equivalenza fisica e psichica tra il feto e il neonato, dunque l’ammissibilità morale sia dell’aborto sia dell’infanticidio. Dirompente fu, com’è immaginabile, l’impatto dell’articolo sulle coscienze. A far discutere filosofi, medici, giuristi e giornalisti è stato principalmente il concetto di persona, definita da Tooley come un «soggetto capace di porre degli scopi». Negando una differenza moralmente rilevante tra i diversi stadi di sviluppo dell’essere umano, dallo zigote al neonato, e affermando la continuità della linea evolutiva della gestazione, il filosofo americano-canadese sosteneva l’indimostrabilità di una soglia che distinguesse la pre-persona dalla persona, non essendo questa sostenuta da evidenze biologiche e psicologiche. Insomma, se il feto non è persona perché non è capace di autocoscienza, non lo è nemmeno il neonato e allora se è lecito l’aborto prenatale lo è anche quello postnatale.

Questa teoria, condivisa anche da Peter Singer e John Harris, tuttora continua a far discutere. Soprattutto se c’è ancora chi si impegna a sostenerla, magari aggiungendo qui e lì qualche contributo personale. È questo il caso di Alberto Giubilini e Francesca Minerva, due ricercatori italiani, attivi rispettivamente presso la Monash University e la University of Melbourne, che nel marzo del 2012 hanno pubblicato sul «Journal of Medical Ethics» un articolo dal titolo After birth abortion: why should the baby live?. Con una serie di sillogismi, gli studiosi affermano che per «persona» deve intendersi «un individuo che è capace di attribuire alla propria esistenza almeno alcuni valori di base come il ritenere una perdita l'essere privati della propria esistenza». Il feto e il neonato, considerati equivalenti, sono, secondo gli studiosi, persone potenziali, non effettive. Essere una persona effettiva, nel senso di «soggetto con diritto morale alla vita», implica la capacità di fare progetti e apprezzare la propria esistenza, ritenendo quindi una perdita l’esserne privati. Riprendendo le argomentazioni toolyane, essi sostengono la legittimità etica dell’aborto postnatale, qualora la nascita del bambino costituisca un problema, di natura psicologica e/o economica, per la madre. L’articolo ha suscitato una forte tempesta mediatica, complice il web e la conseguente rapidità con cui è attualmente possibile condividere le notizie. Testate giornalistiche come Il Fatto Quotidiano, La Stampa, Il Giornale (citiamo solo quelle italiane), oltre a quelle notoriamente di ispirazione cattolica e ai numerosi blog in rete, hanno riportato e commentato quanto è stato affermato dagli studiosi: «Uccidere un neonato è eticamente accettabile in tutti i casi in cui lo è un aborto». Questa la pietra dello scandalo su cui molti, da un anno a questa parte, si sono confrontati, sia nel mondo accademico sia sul web. L’Università Orientale di Napoli, ospitando un seminario di riflessione organizzato dal CIRB (Centro Interuniversitario di Ricerca Bioetica), ha dato agli studiosi l’occasione di esporre la propria teoria confrontandosi con filosofi, medici e giuristi.

Ad aprire i lavori il prof. Lorenzo Chieffi, direttore del CIRB e docente di Diritto Costituzionale presso la Seconda Università di Napoli, secondo il quale la teoria di Giubilini e Minerva deve essere interpretata come un paradosso negativo, con il quale si giunge a negare quanto apparentemente è stato affermato. Una reductio ad absurdum per cui se ammettiamo l’aborto, ammettiamo anche l’infanticidio. Dunque, gli argomenti validi contro l’uccisione del neonato valgono anche contro l’interruzione di gravidanza. Considerando l’argomento sotto il profilo giuridico, è chiaro, sostiene Chieffi, che la difficoltà del giurista nel relazionarsi all’articolo in questione è relativa alla definizione di persona: «Qui vengono messe in discussione alcune categorie che noi ritenevamo ormai consolidate, la prima categoria è quella di persona». La definizione datane da Giubilini e Minerva, ricorda Chieffi, è radicalmente in contrasto con quella giuridica. Infatti, la tutela del neonato imposta dalla nostra codicistica è proprio il presupposto su cui si fonda il concetto di persona umana riconosciuto dal nostro disegno costituzionale. L’art. 1 del Codice Civile stabilisce che la capacità giuridica si acquista al momento della nascita e nel secondo comma specifica che i diritti a favore del concepito riconosciuti dalla legge sono subordinati all’evento della nascita. Quindi, da un punto di vista giuridico, esiste una “soglia” varcata la quale si diventa titolari di diritti, primo tra tutti il diritto alla vita.

Su un terreno ben diverso si sviluppa l’argomentazione degli autori, secondo i quali la nascita non è una linea divisoria oltre la quale si acquisisce il diritto a vivere. Questo diritto, da un punto di vista morale, ci è dato piuttosto dalla capacità di porre scopi, avere progetti e considerare un valore la propria vita. Questa è la fondazione morale del concetto di persona, secondo gli autori dell’articolo, la cui etica però risulta in aperto conflitto con la nostra Costituzione che, nella sezione relativa ai rapporti etico-sociali, considera la cura e la protezione dei figli «diritti naturali prima che giuridici» (art. 29) e stabilisce inoltre il diritto-dovere dei genitori a mantenere, istruire ed educare i figli (art. 30). Addirittura, segnala Chieffi, con l’abrogazione del terzo comma dell’art. 1 del Codice Civile, avvenuta con regio decreto legge il 20 gennaio del 1944, si annulla la distinzione tra chi è degno di capacità giuridica e chi non lo è. Di conseguenza, la nostra Costituzione non riconosce la differenza tra persone e non persone. I padri costituenti, con l’intento di eliminare ogni discriminazione sociale e presupponendo l’acquisizione della capacità giuridica al momento della nascita, stabilirono nell’art. 3 la pari dignità sociale e l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, attribuendo alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli materiali che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Il direttore del CIRB cita inoltre la celebre sentenza 27/25 della Corte Costituzionale, con cui, dopo essere stata investita della questione di legittimità dell’art. 546 del Codice Civile, che vietava l’interruzione di gravidanza, perveniva a un bilanciamento del diritto alla vita e alla salute di chi è già persona (la madre) e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare, statuendo così la prevalenza del primo, il diritto della madre, in assenza di equivalenza tra i due diritti. Infatti il rapporto tra feto e gestante, per la sua natura simbiotica, è assai diverso da quello tra genitore e nato, essendo quest’ultimo, dal punto di vista giuridico, persona, ossia soggetto di diritto, indipendentemente dalla sua capacità di intendere e volere. Il prof. Chieffi prosegue invitando gli autori ad approfondire la questione del bilanciamento dei valori, avendo essi equiparato «il bilanciamento tra i diritti della gestante e i diritti del feto (che non è ancora persona) al bilanciamento tra i diritti dei genitori e quelli del neonato». Denunciando l’inconsistenza assiologica di una tesi che giustifica la soppressione di un neonato per motivi psicologici e/o socio-economici, egli conclude il proprio intervento chiedendo agli autori dell’articolo ulteriori chiarificazioni sul concetto di persona da loro proposto.

Con l’intervento della professoressa Bonito Oliva, docente di Filosofia Morale presso l’Università Orientale e moderatrice del convegno, la discussione si sposta sul terreno dell’etica, richiamandone alla memoria l’etimologia: dal greco oikos, ossia casa, come affermato da Aristotele nell’Etica Nicomachea. Discorrere di filosofia morale infatti implica la possibilità di trattare argomenti con cui possiamo entrare in una relazione di familiarità. Se, come voleva Hegel, la nostra coscienza è qualcosa di pubblico, in quanto essa postula la presenza di altre coscienze in grado di darle la certezza di essere tale, allora non è possibile parlare del rapporto madre-figlio semplicemente nei termini di persona-non persona. Bisogna parlarne da un punto di vista pubblico, ossia dal punto di vista della responsabilità civile. Questa la prima delle questioni sollevate dalla moderatrice del dibattito, la quale, sottolineando l’importanza dell’elemento emotivo-affettivo in gioco, sostiene, citando Stefano Rodotà, l’impossibilità di ridurre la questione alla sola sfera giuridica. «Nel rapporto madre-figlio c’è molto di più», afferma la Bonito Oliva. La seconda questione riguarda la difficoltà di accertare nel nascituro la presenza di malformazioni e malattie nel corso della gravidanza. Secondo l’articolo di Giubilini e Minerva questa è un’altra delle motivazioni che autorizzerebbe la madre a richiedere un aborto post nascita. La domanda della moderatrice del dibattito è: «Siamo sicuri di non ragionare ancora in termini individualistici se consideriamo la vita del neonato come qualcosa di risolvibile all’interno di una sfera privata? In questo modo se ne trascura la dimensione pubblica, quella cui le nostre vite appartengono». Secondo la Bonito Oliva questo individualismo produce una deresponsabilizzazione nel governo delle vite comuni. «Il problema non è forse quello di ragionare nei termini delle responsabilità e degli spazi della vita comune?» domanda la Bonito Oliva. L’ultima questione che solleva riguarda la definizione di persona data dagli autori. Considerare la persona come un soggetto capace di porre scopi e avere aspettative significa appiattire la vita della persona sulla sua attività neuronale. «Come facciamo a stabilire che cosa significa aspettativa, che cosa significa potenzialità, solo sulla base di un tracciato?», questa l’ultima questione posta dalla Bonito Oliva, che passa la parola ad Alberto Giubilini.

Dopo essersi definito un bioeticista laico, Giubilini evidenzia subito la sua difficoltà di trovare un argomento che giustifichi la moralità dell’aborto prenatale e allo stesso tempo sconfessi quello postnatale. «Quando io e Francesca abbiamo riflettuto su questi temi – dice – abbiamo constatato che argomenti convincenti non ce ne sono. Anzi abbiamo trovato un argomento convincente a favore della tesi opposta». Pensare che l’aborto sia permesso solo in determinate circostanze, perché il feto non ha quelle proprietà sufficienti a conferirgli un diritto alla vita prevalente su altri diritti, come quello all’autonomia della donna, implica pensare che nelle stesse circostanze, poiché anche il neonato non possiede quelle caratteristiche, la sua uccisione sarebbe legittima da un punto di vista morale. La tesi dell’equivalenza morale tra l’aborto prenatale a quello postnatale, continua Giubilini, in filosofia non è affatto nuova ed è stata utilizzata sia da chi si professava contro l’aborto, sia da chi ne sosteneva la legittimità anche dopo la nascita. Questa, in sintesi, è l’argomentazione dello studioso, che prosegue precisando la differenza tra la sua teoria e quella di filosofi come Tooley, Singer e Harris, i quali l’hanno elaborata in relazione a neonati affetti da sindrome di Down oppure altre malattie e/o malformazioni. Le patologie, secondo questi filosofi, ridurrebbero la qualità della vita, pertanto, da un punto di vista morale, essi legittimavano l’uccisione del neonato per risparmiargli una vita segnata da difficoltà e sofferenze. Secondo Giubilini invece la qualità della vita non è strettamente connessa soltanto alle condizioni di salute ma anche a quelle socio-economiche. Per questo motivo egli fonda la teoria dell’aborto postnatale su un concetto diverso da quello di «vita degna di essere vissuta». La fonda proprio sul diritto morale alla vita. Un neonato, al pari del feto, moralmente, non avrebbe il diritto di vivere, perché non ha uno sviluppo neurologico tale da permettergli di apprezzare la propria vita e considerare una perdita l’esserne privati. Pertanto, conclude lo studioso, se accettiamo l’uccisione del feto, accettiamo anche l’uccisione del neonato, perché la nascita non è una condizione valida per attribuire al neonato il diritto morale alla vita.

È il turno di Francesca Minerva, il cui intervento comincia rivelando l’incredulità con la quale lei e Giubilini hanno constatato la portata del feedback del loro articolo. Non si aspettavano una così forte risonanza mediatica, né che si accogliesse con tanto clamore una tesi vecchia più di trent’anni. Eppure, sono argomenti che scuotono le coscienze e che fanno indignare. Sono parole che hanno suscitato sgomento e anche reazioni violente. Ma soprattutto, sono parole passate attraverso il web e questo ne ha amplificato l’effetto, di per sé già molto potente. Di questo, “ingenuamente”, i due ricercatori non avevano tenuto conto. Minerva sostiene anche che la violenza delle reazioni suscitate dal paper è stata in parte causata dall’incapacità dei giornalisti di traslare da un linguaggio tecnico-scientifico a uno più comune il significato della tesi proposta, che non ha la pretesa di trarre conclusioni normative in ambito giuridico, perché (fortunatamente) non auspica a un disegno di legge, ma solo in ambito etico ed è solo in questo settore che va considerata la differenza tra persone e non persone. Ciò che l’articolo si proponeva di fare, conclude la studiosa, era indurci a riflettere su una tematica importante, anche mettendo in discussione le nostre certezze.

Prende la parola il prof. Enrico Di Salvo, ordinario di Chirurgia presso la Federico II di Napoli. Si professa cattolico e antiabortista, ma riconosce ai due studiosi il merito «di aver squarciato il velo di ipocrisia» che avvolge la nostra società in relazione al tema dell’interruzione di gravidanza. Se ragioniamo nell’ottica della compliance e giustifichiamo l’aborto da un punto di vista morale per salvaguardare l’interesse della coppia, non ci sono motivi per cui non si debba consentire anche l’infanticidio, pur di proteggere questi stessi interessi. Ricordando la sua esperienza di missionario in Amazzonia, Di Salvo sottolinea il fatto che la pratica dell’infanticidio è presente in numerose culture, di tradizione millenaria e di proverbiale saggezza. Nelle comunità indios la guerra, la fuga dai nemici, la disperazione causavano l’abbandono dei figli che i genitori non riuscivano a portare in salvo. Per sottrarli ai nemici, li seppellivano ancora vivi. Ma nella nostra società a prevalere è una logica individualistica e utilitaristica, che fa della “comodità” l’unico criterio di azione e di scelta. In base al quale si uccide. E se si può uccidere il proprio figlio, la cui nascita costituirebbe un problema, allora si possono uccidere anche i propri familiari, se le loro condizioni di salute gravano sul benessere psichico ed economico della famiglia. È questa la deriva della nostra società, che il Professore denuncia senza mezze misure.

Con l’intervento del prof. Gianluca Gentile, docente di Diritto Penale presso l’ Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, la discussione ritorna su un punto fondamentale della questione in esame: cos’è che ci rende persone, meritevoli quindi del diritto alla vita? Gentile analizza le argomentazioni dei ricercatori e si sofferma sulla distinzione tra fatto e valore, tra piano empirico e piano valutativo, perché giudicare cos’è che ci rende persone implica l’osservazione dei dati di fatto. Ebbene, gli studiosi scelgono quale criterio distintivo della persona la capacità di avere aspettative e formulare progetti. La prima delle obiezioni sollevate dal professore è: «Il fondamento empirico considerato dagli autori è facilmente manipolabile perché presuppone sempre una scelta di valore a monte». Infatti, individuare una determinata qualità o capacità psicofisica come discrimine tra la persona e la non persona dipende sempre da un giudizio di valore, proprio perché è stata scelta quella piuttosto che un’altra. Nella fattispecie si è scelto di usare come discrimine un certo livello di sviluppo neuronale, ma si tratta di una posizione facilmente strumentalizzabile, esposta quindi a numerosi rischi. Si potrebbero scegliere altri criteri selettivi, da cui dipenderebbero altri fondamenti empirici in base ai quali distinguere le persone dalle non persone. La storia ci ha insegnato quali sono i pericoli sottesi all’arbitrio delle scelte di valore. La seconda delle questioni poste da Gentile è relativa alle situazioni di dubbio. Dall’argomentazione di Giubilini e Minerva si deduce che, sul fatto che il neonato sia o meno una persona, avente diritto morale alla vita, si può essere più o meno d’accordo. Non c’è una risposta univoca, è una questione di probabilità. Essi scelgono la percentuale maggiore, quella in base alla quale si stabilisce che, avendo il neonato uno sviluppo cognitivo minimo, egli non può essere considerato una persona perché quasi sicuramente non è capace di autocoscienza. Dato che non esiste uno strumento che misura il grado di coscienza, la questione se il neonato sia o meno una persona non può risolversi se non in termini di probabilità. Ebbene, secondo Gentile, ancora una volta bisogna individuare il giusto rapporto tra fatto e valore, si tratta di fare una scelta. Quindi, dato che su questo argomento non possediamo certezze al di fuori da ogni dubbio, possiamo anche scegliere la percentuale minima di probabilità, quella secondo cui il neonato è una persona, una persona capace di avere coscienza di sé e attribuire valore alla propria vita, essendo dotata di un sistema nervoso. Le argomentazioni di Gentile sono tutte orientate a decostruire il fondamento empirico della teoria in esame, dimostrando che questa si fonda su scelte di valore prive di oggettività e quindi del tutto arbitrarie. Gentile conclude il suo intervento dimostrando una contraddizione presente in un passo dell’articolo di Giubilini e Minerva, quello relativo al concetto di danno. Dare in adozione il neonato, l’alternativa cui immediatamente si pensa scartando l’ipotesi dell’aborto, è considerato dagli autori un danno per la madre, la quale proverebbe dolore pensando che suo figlio crescerà senza di lei e con molta probabilità un giorno si pentirà della sua decisione, ma sarà troppo tardi per tornare indietro. Questo concetto di danno però soffre di una contraddizione insanabile perché viene considerato esclusivamente il punto di vista della madre e non si tiene in alcun conto quello del resto della famiglia cui il neonato appartiene. Ci riferiamo a un bambino ormai nato, non a un feto che vive in rapporto simbiotico con la madre. Il bambino, ormai, è parte della famiglia. Mentre prima della nascita si può far valere, a favore dell’aborto, la tesi per cui la donna ha il diritto di scegliere autonomamente se portare a termine oppure no la sua gravidanza, una volta che il bambino è nato questo argomento non vale più perché la gravidanza è terminata e il bambino nascendo entra immediatamente in una rete di rapporti familiari che non possono essere del tutto ignorati quando si affronta la questione dell’aborto postnatale. Altrimenti si arrecherebbe un danno ai familiari del neonato, perché bisogna considerare la possibilità che il padre voglia tenere il bambino, che i nonni vogliano un nipote e che i fratelli del bambino siano entusiasti della sua nascita. Perché allora conta solo quello che vuole la madre e non conta nulla cosa vuole il resto della famiglia, cui il neonato ormai appartiene?

La parola passa a Maurizio Mori, docente di Bioetica all’Università di Torino, il quale ritiene che la pubblicazione di questo articolo abbia determinato una nuova scansione dell’agenda bioetica, costringendo le coscienze a interrogarsi su un possibile mutamento di categorie. Citando Hegel, Mori ricorda che tutti i cambiamenti culturali sono cambiamenti di categorie e, in relazione al paper, sottolinea che il sintagma ossimorico “aborto post nascita” ci propone un modo diverso di categorizzare il fenomeno. Questo cambiamento categoriale, secondo Mori, si rivela necessario per via della «rivoluzione biomedica che sta cambiando le condizioni del nascere e del morire», per cui risulta indispensabile applicare nuovi parametri cognitivi a una realtà in costante cambiamento. Non è possibile applicare le vecchie categorie a fenomeni nuovi, perché se il mondo cambia deve cambiare anche il nostro modo di interpretarlo. Le condizioni della nascita e della morte grazie al progresso della medicina sono profondamente mutate e questo pone numerosi spunti di riflessione, in primo luogo rispetto al concetto di persona. Mori precisa che, naturalmente, da un punto di vista giuridico, la persona è meritevole di tutela e acquisisce il diritto alla vita sin dal momento della nascita, ma non possiamo non considerare il concetto di persona anche da un punto di vista morale, cosa che implica il tener conto anche dei suoi stati mentali. Se da questi facciamo dipendere il diritto morale alla vita, allora la teoria di Giubilini e Minerva è condivisibile perché parte dal presupposto che la nascita non determina necessariamente stati di coscienza.

Il seminario volge al termine, senza nemmeno sfiorare la dimensione dello scontro tra la metafisica dell’utile e l’ontologia della persona, come fa notare Paolo Amodio, docente di Filosofia Morale presso la Federico II. D’altronde, una battaglia tra due posizioni irriducibili non avrebbe condotto ad alcun risultato e la discussione si sarebbe esaurita nel muro contro muro tra una bioetica laica e una bioetica cattolica. Secondo Amodio, considerare la nozione di utile come l’unico contrassegno etico valido nell’ambito di una bioetica laica significa sminuirne il senso e il valore: «Credo che si possa essere bioeticisti laici senza necessariamente attraversare la strada dell’utilitarismo, ricordo che il CIRB nasceva proprio da questo intento», dice Amodio. È inquietante che la bioetica laica si fondi unicamente su questo contrassegno, anzi, uscire dalla logica dell’utile, della compliance, del bilancio tra costi e benefici, costituisce una sfida interessante per la bioetica, un’opportunità per affrontare concetti come vita e persona uscendo dalla dicotomia classica tra bioetica laica e bioetica cattolica. Anzi, è opportuno, continua Amodio, citando uno stralcio di un’intervista radiofonica a Merleau-Ponty, cominciare a considerare il concetto di vita uscendo dall’univoca prospettiva dell’uomo adulto. Com’è noto, all’animale, al bambino, al primitivo e al folle, il pensiero classico non ha attribuito una particolare attenzione. La conoscenza dei bambini e dei malati è rimasta per lungo tempo a uno stadio rudimentale. I ricercatori ponevano loro domande «da uomini», senza prestare attenzione alle loro condizioni di vita, senza cercare di assumere il loro punto di vista sulle cose. Essi non provavano a comprenderli ma a misurare la distanza che li separa dall’uomo adulto, nel caso del bambino, e dall’uomo sano, nel caso del malato. Occorre infatti ricordare a tal proposito che la ricerca scientifica, priva di qualsiasi empatia, si concentrava nel tracciare un profilo del paziente, facendo della sua caratterizzazione psicofisica una prova dell’anomalia da lui rappresentata. I bambini, in particolar modo, da un punto di vista scientifico non hanno goduto di dignità ontologica prima del XX secolo. Essi venivano considerati delle appendici degli adulti e sottoposti ai loro voleri e i interessi. Soltanto con la nascita della pedagogia sperimentale il bambino venne considerato una persona, dotato di bisogni, aspettative e punti d vista sul mondo.

Ebbene, continua Amodio citando Merleau-Ponty: «Sembra che il pensiero classico sia imprigionato in un dilemma: o l’essere con cui abbiamo a che fare è assimilabile all’uomo e allora è lecito attribuirgli per analogia tratti generalmente riconosciuti all’uomo adulto e sano, oppure essi (animali, bambini, primitivi e folli) non sono altro che una macchina cieca, un caos vivente e allora non esiste alcuna possibilità di trovare un senso al loro comportamento. Tutto nasce dalla convinzione che esista un uomo compiuto in grado di penetrare nell’essere delle cose, costruire una conoscenza sovrana, decifrare tutti i fenomeni, non solo quelli della natura fisica ma anche quelli che ci presentano la storia e le società umane, spiegarli per mezzo delle loro cause e infine scoprire negli accidenti del loro corpo le ragioni che tengono il bambino, il primitivo, il folle e l’animale lontani dalla verità».

Il seminario si conclude con un acceso dibattito, da cui complessivamente emerge la volontà di comprendere il senso, l’utilità, la finalità della domanda: «Perché il bambino dovrebbe vivere?», posta da Giubilini e Minerva. Che sia o meno una provocazione, un paradosso negativo, un tentativo di smuovere le coscienze affrontando l’argomento dell’aborto attraverso categorie nuove, è evidente che si tratta di un argomento che ha lasciato perplessi, inquieti e indignati, non solo perché affrontato in maniera brutale (la sintesi non necessariamente impone mancanza di tatto), ma soprattutto perché non si capisce quale sia il fine cui gli studiosi hanno mirato. Francesca Miranda ha puntualizzato di essere favorevole all’aborto, quindi non voleva usare l’argomento come un paradosso negativo, volto a sconfessarne la legittimità. Nessuno li ha chiamati a pronunciarsi in merito alla questione. Dicono addirittura di aver lavorato all’articolo nei ritagli di tempo e di essere impegnati in ben altri progetti di ricerca. Allora, qual è il senso dell’articolo? Quale il suo scopo? Una rivista scientifica non è un blog, uno spazio dove ognuno può esprimere le proprie idee senza giustificarne la ratio. È chiaro che si tratta della conclusione normativa di un ragionamento concernente il concetto di persona non sotto il profilo giuridico ma sotto il profilo etico. L’etica però non è qualcosa di completamente avulso dalla realtà, quindi non possiamo confinare le parole di Giubilini e Minerva in un orizzonte di senso parallelo rispetto a quello comune. Ci sono delle ricadute, delle conseguenze, sempre e inevitabilmente, quando si parla di vita e di morte, di persona e non persona. Allora, se la filosofia non vuole essere considerata una dimensione autoreferenziale della cultura, deve rendere conto delle proprie posizioni, relazionandosi al contesto storico e sociale in cui vive. Nessuno pensa che l’intento dell’articolo di Giubilini e Minerva sia quello di considerare eticamente legittima una norma giuridica che consente l’aborto post nascita. Ma se non era questo, allora o non si è capito il senso dell’articolo, oppure i due ricercatori non hanno saputo spiegarlo. Peccato, perché il senso del seminario di riflessione era proprio quello di offrire loro la possibilità di farlo.

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