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Ecologismi Scuola Estiva di Filosofia Montecompatri (Roma) 6-7 settembre 2019

Autore


Rosanna Cuomo

Docente di Scuola Secondaria di Secondo Grado

ha conseguito il Dottorato di ricerca in Filosofia presso l'Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


 

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S&F_n. 22_2019

Abstract


Environmentalisms

This contribution is a report of the Summer School of Philosophy in Montecompatri (Rome) - September 6-7, 2019, where philosophers and scholars of different fields raised questions and proposed analysis  and possible answers about environment, in the light of philosophical tradition and new technologies.

 

 

 

Il Centro spirituale “Casa San Silvestro” affacciato sulle pendici dei Colli Albani con la vista che spazia sui Castelli Romani, è stata la cornice ideale per discutere del tema Ecologismi in un settembre mite e indulgente. Fin da subito si è palesata una singolare sinergia tra il territorio, circondato da boschi di castagni e querce, e i contenuti degli interventi circa l’attuale situazione del cambiamento climatico (qualche settimana dopo l’incontro ha avuto luogo la Climate Action Week), dell’inquinamento ambientale globale, del posto che l’uomo occupa nel mondo, interrogandosi sulle possibilità di correzione o di deciso cambiamento di rotta, segno che non è più possibile esimersi dal rimandare non solo la discussione ma anche le pratiche di intervento private e collettive. Apre la sessione dei lavori l’intervento propostoci dal prof. Pecere su un dialogo a distanza tra Immanuel Kant e Alexander von Humboldt. In un articolo comparso nel 2018 («HiN», 36, 2018), V. Duràn Casas mostrava come A. Von Humboldt avesse visitato e misurato la cascata del fiume Bogotà in Colombia (oggi, Salto di Tequendama) appena un anno prima che Kant, nella sua Geografia fisica la menzionasse, a torto, come la più alta al mondo. È una coincidenza fortuita che due autori così agli antipodi abbiano parlato dei medesimi argomenti? Il primo, il prof. Pecere lo descrive come un esploratore, uno scalatore (della vetta del Chimborazo), un esperto in botanica e minearologia, un pioniere che ha attraversato la storia, influenzando Charles Darwin, discorrendo con Thomas Jefferson e con Simon Bolivar (secondo cui Von Humboldt sarebbe stato il vero scopritore dell’America del Sud). Di Kant conosciamo l’immane architettonica del sapere, sebbene in misura minore l’interesse che egli ebbe per la natura e la geografia in generale. L’opera, Geografia fisica per l’appunto, nelle intenzioni precipue del filosofo di Konisberg, doveva essere una propedeutica alla conoscenza dellla natura, anzi del mondo intero inteso come sistema in cui ogni cosa è correlata: la preliminarità di tale disciplina è data, come si legge nell’opera, dal fatto che senza di essa, «l’uomo resta limitato e avvinto». Dunque, non una mera scrittura del territorio, non una classificazione o mappatura e nemmeno un elementare modello cartografico ma l’elaborazione di un nuovo progetto: la correlazione tra i due autori si stabilisce per l’appunto qui. In von Humboldt la conoscenza dell’intero prende il nome di Naturgemälde, tutto il vivente considerato nel suo complesso – foreste, fiumi, vette andine, piante – che deve essere pensato, analizzato e studiato, andando oltre i fenomeni locali, puntando lo sguardo all’interezza delle relazioni che instaura con il territorio circostante (basti ricordare lo studio di Humboldt sulla migrazione delle piante o sulla diversità dei popoli legati all’ambiente geografico). Ma lo sguardo nuovo di questa disciplina che dialoga con le altre, con la sociologia, con la poesia, con l’economia e la botanica, è illuminato ulteriormente dalle tonalità estetico-affettive che la natura scatena nell’occhio osservatore: «Chi non si sente di umore diverso […] a seconda che si trovi alla scura ombra dei faggi, su colline adorne di abeti sparsi o nelle distese erbose dove il vento stormisce tra le foglie ondeggianti delle betulle? […] L’influsso del mondo naturale su quello morale […] dà allo studio della natura, se ci si eleva al punto di vista più alto, un fascino particolare, ancora troppo poco apprezzato». Tale influsso diviene tanto più cogente quando Humboldt, durante i suoi numerosi viaggi, inizia a osservare e annotare, nel suo Personal narrative (1799-1804), come l’operare degli uomini abbia cambiato radicalmente il paesaggio, modificando in alcuni casi drasticamente l’ecosistema: «Quando le foreste vengono distrutte, come succede ovunque in America a causa della fretta imprudente dei coltivatori europei, le sorgenti vengono interamente prosciugate, o diminuiscono drasticamente di numero. I letti dei fiumi, rimanendo asciutti per parte dell’anno, diventano torrenti ogni volta che la pioggia cade abbondante. […] l’acqua che scende sotto forma di pioggia non trova impedimento al suo passaggio: e invece che aumentare progressivamente il livello dei fiumi attraverso filtrazioni costanti, scava violenta ai lati delle colline, portando con sé il terreno smosso e formando queste inondazioni improvvise, che devastano le pianure». Non a torto molti studiosi indiviuduano proprio in A. von Humboldt il padre dell’ecologia, ma perché dall’ecologia si passi all’etica ambientale occorrerà attendere, come ci introduce il prof. S. Pollo, la seconda metà del XX secolo operando un distinguo tra una prima fase (tra gli anni ’60 e gli anni ’80), caratterizzata dalla riflessione sulla disponibilità e finitezza delle risorse, sui concetti di reversibilità/irreversibilità e una seconda fase (dagli anni ‘90 a oggi), contrassegnata dalla dimensione ormai globale delle questioni ambientali e dalla nozione di Antropocene. Se, come afferma proprio in questi giorni il segretario generale dell’Onu A. Guterres alla Cop25, i dati mostrano una situazione apocalittica, quali strade si aprono dinanzi a noi? A poco servirà sottolineare, come fa G. Agamben, il passaggio di consegne escatologiche sulle catastrofi climatiche dalla Chiesa alla scienza (Sulla fine del mondo). Allora, quali possibili vie d’uscita? Il prof. Pollo, provocatoriamente, sulla traccia indicata dal romanzo di G. Morselli, Dissipatio HG, avanza l’ipotesi di un cambiamento di prospettiva, vale a dire imparare a pensaci come non necessari, attuando quell’etica del carattere, dell’abito che sola, forse, può innescare il circolo dell’interiorizzazione di comportamenti virtuosi. Un’etica della responsabilità, in base a quel principio di cui già parlava H. Jonas circa le conseguenze del nostro agire nel mondo. Una riflessione che non può procedere in maniera isolata ma ha bisogno della forza e dell’apporto di diverse discipline: seguendo questo intento è nato, come ci spiega la prof.ssa F. Giardini, nel 2015-2016, all’università Roma 3, il Master in Studi del territorio-Environmental Humanities. Eliminando la vecchia dicotomia tra saperi scientifici e non-scientifici, sulla scia della riflessione nata in ambiente anglosassone, l’Environmental Humanities mette in scena una “esigenza politica e culturale” che deve offrire spazio e voce al territorio visto come fonte di saperi anche diversi tra di loro (urbanistica, architettura, geografia, filosofia morale, ecc.) ma che possono trovare un terreno comune di confronto. La filosofia dell’ambiente (in cui il genitivo è oggetivo), nel valicare la diretta filiazione dalla filosofia morale, rimanda all’esercizio per eccellenza del pensiero filosofico, vale a dire la cura delle e per le parole, che tuttavia diviene e si fa azione, pratica. Certo, la filosofia, nella sua storia, non sempre si è rivolta con sollecitudine alla tutela dell’ecosistema: durante il ‘700 ad esempio l’ambiente inizia a essere considerato come una risorsa, soltanto tuttavia in vista della massimizzazione dei benefici, ma se andiamo indietro nel tempo, ci accorgiamo che il legame tra l’uomo e la natura circostante non è stato idilliaco, anzi la loro comunicazione “necessaria ma impossibile” sembra “rimandata a mai”. Come ci ricorda la prof.ssa F. Gambardella in esordio al suo intervento, nella ricca descrizione del paesaggio che fa da cornice all’incipit del Fedro traboccante di suoni (coro di cicale) e odori (l’agnocasto in fiore, profumatissimo), Socrate tiene a precisare che a differenza degli uomini, gli alberi, la natura – assordantemente silenti – non vogliono insegnare nulla probabilmente perché piante e animali, pur essendo simbioticamente immersi nell’ambiente, mancano di linguaggio. Senza affidare a questa differenza una valenza di tipo morale o un primato di tipo ontologico, l’uomo tuttavia eccede, trascende i gradi dell’organico attraverso la capacità di nominare le cose. Tale trascendimento deriva, si potrebbe dire, da una fragilità che, misurandosi con le forze sovrastanti di una natura ignota e terrificante, dinanzi agli interminati spazi e sovraumani silenzi, ha dovuto trovare un rimedio, per addomesticare, addolcire questo terrore: il racconto, la narrazione appunto. La parola, dunque, è un espediente fortemente simbolico, un talismano attraverso cui l’uomo trova una via di fuga che lo “rende salvo dal nulla” aprendo una dimensione di senso.

Ma, se “poeticamente abita l’uomo su questa terra”, non deve presentarsi frattura tra il suo esistere e l’ambiente in cui opera: come affermava F. Guattari ne Le tre ecologie, occorre che «impariamo a pensare trasversalmente le interazioni tra ecosistemi, meccanosfere e universi di riferimento sociali e individuali». Solo in questo modo – vale a dire facendo interagire la sfera soggettiva, la sfera sociale e quella ambientale – si potrà uscire dalla crisi della nostro tempo: un’ecosofia che sia assieme teoretica e pratica, «nello stesso tempo etico, politica ed estetica».

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