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«Perché un neonato dovrebbe vivere?». Già, perché?

Autore


Cristian Fuschetto

Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice



  1. Limbo con biglietto per l’inferno
  2. L’onestà di un «should live?»
  3. Tesi con un limitato diritto a esistere
  4. Micragnosi orizzonti

 

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S&F_n. 09_2013

Abstract


In a controversial article two philosophers argue about so-called “after-birth abortion”.
By showing that both fetuses and newborns do not have the same moral status as actual persons, and the fact that both are potential persons is morally irrelevant, they argue that “after-birth abortion” should be permissible in all the cases where abortion is, including cases where the newborn is not disabled. In this article the author criticizes the argument presented by the philosophers indicating several weaknesses: a) failure to specify a date from which to consider a fetus as an actual person b) the absolutely illiberal character of a self-styled liberal theory.


  1. Limbo con biglietto per l’inferno

Non occorre essere dei liberali inclini al relativismo per arrivare a intuire che tra nato e nascituro qualche differenza c’è, così come non bisogna arruolarsi tra le schiere dei lefebvriani per giudicare ignominioso l’infanticidio. Insomma, la nascita di un bimbo segna un passaggio importante, obiettivamente rilevante sia per chi difende la sacralità della vita sin dal momento del concepimento, sia per chi è scrupolosamente impegnato a scandirne dei gradienti di qualità. «La nascita è un punto significativo», arriva a concedere persino Peter Singer, spiegando che a partire da questo momento «la madre comincia ad avere con il bambino un rapporto diverso da quello che aveva con il feto; anche le altre persone possono ora rapportarsi al bambino in un modo che prima era impossibile»[1].

Alle ovvietà, che come vedremo poi tanto ovvie non devono essere, il padre della bioetica utilitaristica fa una doverosa precisazione. «Ma non per questo si può dire che la nascita rappresenti il punto in cui il bambino passa improvvisamente dall’assenza di ogni diritto alla vita al possesso di un diritto alla vita, pari a quello di tutti gli altri esseri umani»[2]. Il filosofo australiano fa qui passare anche un altro messaggio: lo status di essere umano con “pieni diritti” non si ottiene automaticamente alla nascita. Occorre qualcosa di più. Occorre, per esempio, essere delle persone, vale a dire degli animali consapevoli della propria esistenza nel tempo e in grado di ragionare[3]. Doti che un neonato molto probabilmente non ha, e infatti la sua opinione è che il neonato rappresenti una sorta di via di mezzo tra il valore attribuito al feto ancora nell’utero nella madre e un bambino più grande. Il neonato non è una persona, non è soggetto di vita morale e pertanto neanche di tutela morale. Che senso ha allora spendersi per la difesa del diritto alla vita di un essere che non è in grado di dare valore alla propria esistenza? Ecco perché la nascita non rappresenta né può rappresentare una differenza di status per il bambino[4]. Resta da capire che cosa sia questo bambino.

 

  1. L’onestà di un «should live?»

Riprendono, e per alcuni versi innovano, il pensiero del loro maestro nonché direttore di dipartimento presso la Monash University di Melbourne, i bioeticisti italiani più trendy del momento, Alberto Giubilini e Claudia Minerva. Il prestigioso «Journal of Medical Ethics» dedica lo scorso maggio un numero monografico al controverso tema Abortion, infanticide and allowing babies to die, forty years on[5] prendendo spunto dal successo anche mediatico di un articolo a firma dei due studiosi italiani pubblicato nella versione online della stessa rivista nel febbraio del 2012. Il titolo del breve elaborato è After-birth abortion: why should the baby live?, ovvero (qui è bene tradurre per non far torto all’impatto semantico del neologismo nonché all’onestà del “should live”): “Aborto post-natale. Perché un neonato dovrebbe vivere?”. L’articolo viene riproposto nel numero monografico accompagnato da un due pagine di chiarimenti sullo statuto morale dei neonati, dove la coppia Giubilini-Minerva oltre a precisare di non aspettarsi tanto clamore per un testo pensato e scritto per rimanere dentro alla comunità degli addetti ai lavori[6], ribadisce la tesi di fondo del proprio ragionamento: non c’è differenza ontologica tra feto e neonato per cui ciò che è considerato lecito compiere, entro date circostanze, contro il primo dovrebbe essere considerato lecito compiere anche nei confronti del secondo. Il che equivale a dire che nei Paesi in cui è legale l’aborto non dovrebbero esserci ragioni per non rendere legale, a parità di condizioni, anche l’uccisione di un neonato. Il bimbo appena nato, in fondo, rispetto al feto (l’essere vivente che la legge e la morale considerano in certi casi sacrificabile) non è altro che la tappa immediatamente successiva. Una tappa, sia chiaro, che si colloca ancora molto al di qua del raggiungimento dell’ideale traguardo del titolo di persona. «Un serio problema filosofico emerge quando condizioni simili, che giustificano l’aborto, si presentano dopo la nascita del bambino. In questi casi, è necessario analizzare i fatti per valutare quando gli stessi motivi per cui si giustifica l’uccisione di un feto possono essere coerentemente usati per giustificare anche l’uccisione di un bambino già nato»[7]. Sussiste dunque un’equivalenza morale tra feto e neonato: i due autori sciolgono la tenue riserva lasciata balenare dal maestro qualche anno prima sullo status morale perlomeno mediano del neonato tra il feto e l’adulto, optando per la sua categorica assimilabilità al primo. E cioè a una non persona. E cioè a un non-soggetto della morale e del diritto. E cioè a un oggetto.

Lo status morale di un neonato è equivalente a quello di un feto nel senso che entrambi mancano di quei propositi che giustificano l’attribuzione del diritto alla vita di un individuo. Sia un feto sia un neonato sono certamente esseri umani e potenziali persone, ma nessuno dei due è persona nel senso di un “soggetto con un diritto morale alla vita”. Noi chiamiamo persona un individuo che è capace di attribuire alla propria esistenza almeno alcuni valori di base come il ritenere una perdita l’essere privati della propria esistenza. Ciò significa che molti animali e persone ritardate sono persone, ma che tutti gli individui che non sono nelle condizioni di attribuire alcun valore alla propria esistenza non sono persone. L’essere semplicemente un essere umano non è una ragione di per sé sufficiente per attribuire a qualcuno il diritto alla vita […][8].

 

 

  1. Tesi con un limitato diritto a esistere

Anche in questo caso i due seguono e rilanciano la linea tracciata dal maestro Singer, tra i primi bioeticisti a negare con franchezza la tesi secondo cui sarebbe moralmente sbagliato sopprimere una vita umana innocente[9]. È interessante notare che Singer arriva a questo assunto dopo aver fatto cenno all’impossibilità di dimostrare il momento in cui il concepito acquisterebbe rango pienamente umano. Secondo la celebre tesi introdotta dalla Corte Suprema degli Stati Uniti nel caso Roe vs. Wade (1873) questo passaggio dovrebbe essere fatto coincidere con quello della “vitalità del feto”, ovvero con il momento a partire dal quale esso potrebbe tecnicamente sopravvivere al di fuori del corpo materno. Va da sé che un principio del genere dipende in toto dalla capacità della scienza medica di provvedere all’esistenza separata del feto e non è da escludere, come appunto già dagli anni ’70 si è fato notare, che possano essere realizzate delle incubatrici così avanzate da anticipare la vitalità del feto al momento stesso del concepimento. Un’altra teoria fa scattare la dignità pienamente umana della vita fetale al momento della “vita cerebrale”: simmetricamente alla definizione di morte cerebrale sarebbe il caso, spiega in particolare Hans-Martin Sass in un articolo inevitabilmente datato, di introdurre anche il criterio di «vita cerebrale»[10], facendone coincidere l’inizio con l’integrazione tra i neuroni della corteccia. Ma c’è anche chi, su questo stesso percorso, ha suggerito di subordinare la conquista della piena dignità umana di un all’inizio dell’attività ondulatoria del cervello riscontrabile attraverso un elettroencefalogramma.

Tutti questi criteri sono tuttavia giudicati dall’autore di Ripensare la vita come dei parametri solo falsamente scientifici, anzi come dei parametri falsamente scientifici, non eticamente vincolanti perché in ogni caso la decisione di fondare la tutelabilità della vita umana a uno di questi canoni è solo frutto di una scelta morale: «si tratta di scelte etiche e non scientifiche»[11] prese di fronte all’evidenza della continuità di un unico processo di sviluppo vitale che dall’uovo fecondato arriva allo zigote e al feto e poi al neonato. C’è una oggettiva continuità di sviluppo e non ci sono ragioni per ritenere più significativo un momento piuttosto che un altro. Singer ragiona in questo caso un po’ come Mons. Elio Sgreccia, tanto per dire. Solo che a differenza di uno Sgreccia egli fa di questa continuità di sviluppo l’occasione per sottolineare che «ciò non ci dice nulla sul significato etico dell’esistenza di un essere individuale umano»[12]. Anzi, fa di più. «Ebbene – dice – anziché accettare queste finzioni dobbiamo riconoscere che il fatto che un essere sia umano e vivente di per sé non ci dice se sia lecito toglierli la vita oppure no»[13].

Bisogna mettere in questione la premessa fondamentale della vecchia etica e cominciare a chiedersi cosa ci sia di moralmente sbagliato nel sopprimere una vita umana. Lo diceva ieri e lo ribadisce oggi a in apertura del numero monografico del «Journal of Medical Ethics», in cui legittima l’eutanasia dei neonati disabili affermando che «Il mero fatto di esistere come essere umano vivo e innocente non è sufficiente per avere un diritto alla vita»[14]. Ora però far valere questo discorso in generale è una cosa, farlo valere nei casi specifici ne è un’altra.

Sostenere la liceità morale e soprattutto giuridica dell’aborto-postnatale implica la necessità di stabile un limite aldilà del quale non è più possibile praticare un trattamento eutanasico selettivo. Ma Giubilini e Minerva cosa fanno? Si dilungano nel chiarire che sia il feto che il neonato sono delle «persone potenziali», che possono «sviluppare, grazie ai loro meccanismi biologici, quelle proprietà che li renderà persone nel senso di soggetti con un diritto morale alla vita», e che questo accadrà nel «punto in cui diverranno capaci di fare progetti e apprezzare la loro vita»[15]. Ma quale sia questo punto non è dato sapere.

Anzi, si dilungano nelle esemplificazioni delle fattispecie.

Se una persona potenziale, come un feto o un neonato, non diventa effettivamente persona, come me e te – precisano – allora non esiste né un’attuale né una futura persona che possa essere lesa, il che significa che non c’è alcuna lesione. Così, se qualcuno ci chiedesse se ci saremmo sentiti lesi nel caso i nostri genitori avessero deciso di ucciderci quando eravamo ancora feti o neonati, risponderemmo “no”, perché loro avrebbero danneggiato qualcuno che non esiste (cioè, il “noi” a cui la domanda viene posta), che significa che non avrebbero leso nessuno. E se nessuno viene leso, la lesione non esiste. Una conseguenza di questa posizione è che l’interesse delle persone effettive supera quello delle persone potenzialmente atte a divenire persone effettive[16].

 

Sì ma qual è il momento a partire dal quale si diventa persone effettive, quando un essere umano vivente diventa capace di fare progetti? Di godere del fatto di esserci? Di immaginare anche semplicemente il prossimo pasto? Questo non è dato sapere.

«Il punto qui», ammettono, è che «è difficile determinare esattamente quando un soggetto inizia o smette di essere una persona». Quindi nel dubbio che si fa? Da un ragionamento che intende esplicitamente fare i conti con la realtà sociopolitica nonché con le legislazioni dei diversi Paesi con regime abortista nasce una proposta di riforma per definizione incapace di intervenire nella realtà effettuale (tanto per rimanere nella terminologia). E hai voglia a dire che si tratta di un caso di scuola, che si tratta di tesi filosofiche tese a rimanere nell’alveo del puro ragionamento. Si parla di fattispecie concrete, di soggetti altrettanto concreti, di sistemi giuridici che consentono di fare o non fare alcune cose e, nel caso, do esplicite proposte tese a riformare i sistemi abortisti in modo da aprirsi a una nuova figura, l’aborto postnatale. Una figura, precisano i due studiosi in forza in Australia, diversa dall’infanticidio e, in questo, distinguendosi in modo originale dal loro maestro e dalla letteratura di settore.

A dispetto dell’ossimoro dell’espressione, proponiamo di chiamare questa pratica «aborto post-natale», anziché «infanticidio» per enfatizzare che lo stato morale della persona uccisa è paragonabile a quella di un feto (su cui l’aborto nel senso tradizionale del termine viene normalmente effettuato) più che a quella di un bambino. Perciò, chiediamo che uccidere un neonato sia eticamente accettabile in tutti i casi in cui lo è l’aborto. Questi casi includono quelli in cui i neonati siano potenzialmente in grado di vivere (per lo meno) una vita accettabile, ma il benessere della famiglia sia a repentaglio. Di conseguenza, la seconda precisazione terminologica è sulla scelta di chiamare la pratica «aborto post-natale», piuttosto che «eutanasia». Questa è legata al fatto che l’interesse di chi muore non è necessariamente il primo criterio di scelta, al contrario di come avviene nei casi di eutanasia[17].

 

Si introduce una novità etico-giuridico-filosofica solo potenziale, perché fino a quando non verrà indicata una soglia credibile a partire dalla quale sia possibile distinguere tra una soggetto su cui si possa praticare l’aborto post-natale e un soggetto su cui questo non sia possibile in quanto persona, la novità non passa nel rango dell’effettività. Per rimanere nell’analogia avanzata dai nostri protagonisti, così come i neonati sono solo persone potenziali a tempo determinato ma incognito, rimangono potenziali sebbene cognite anche le tesi sull’aborto post natale. Di più: siccome le persone potenziali non hanno dignità di pretendere diritti, a maggior ragione non dovrebbero averlo nemmeno le cose potenziali come la tesi dell’aborto post-natale, che è appunto un ragionamento su cose effettive che tuttavia per proprie deficienze («è difficile determinare esattamente quando un soggetto inizia o smette di essere una persona») rimane chiuso nell’alveo delle potenzialità e dunque delle cose che hanno diritto a esistere ma solo fino a un certo punto.

 

  1. Micragnosi orizzonti

Ora, al di là delle finezze terminologiche, qui si sostiene la liceità dell’infanticidio con la sedicente variante “liberale” rispetto ai casi di eutanasia pediatrica[18] che in questo caso possono essere uccisi anche i bambini sani.

Se il criterio come quello dei costi (sociale, psicologico, economico) per i genitori potenziali è una ragione sufficiente per abortire anche quando il feto è sano, se lo stato morale del neonato è lo stesso di quello nascituro e se nessuno di loro ha alcun valore morale in virtù del fatto di essere solo una persona potenziale, allora la stessa ragione dovrebbe giustificare l’omicidio di una persona potenziale quando è appena nata. […] Non asseriamo che l’aborto post-natale sia una valida alternativa all’aborto. Gli aborti nelle prime fasi di vita sono l’opzione migliore, per ragioni sia fisiche sia psicologiche. Ma, se una malattia non è stata scoperta durante la gravidanza, se qualcosa è andato male durante il parto, o se le circostanze economiche, psicologiche o sociali sono cambiate e il prendersi cura della prole diventa un peso insostenibile per qualcuno, allora alle persone dovrebbe essere data la possibilità di non essere costrette a fare qualcosa che non sono in grado di sopportare[19].

 

Il neonato può anche essere sano ma se si rivela un “peso” per chi dovrà sostenerlo allora non c’è ragione per distinguere tra aborto e infanticidio. Parlare di nichilismo o materialismo sarebbe in questo caso un’offesa sia al primo che al secondo. Questa tesi tradisce infatti una sorta di micragnosità concettuale. Non (solo) nel senso che qui abbiamo a che fare con una peraltro dichiarata povertà di pensiero ma nel senso leggermente più metaforico secondo cui qui il concetto è talmente legato alla roba da non riuscire più a emanciparsene. Abbiamo a che fare con un pensiero letteralmente proprietario: chi non è in condizioni di farsi o dirsi soggetto è nelle disponibilità di altri che in quelle condizioni si trovano. Questa fede è talmente forte da mettere in secondo piano il non trascurabile dettaglio per cui il neonato, a differenza del nascituro, non è più nella sfera primaria (come la definirebbe Peter Sloterdijk) del grembo materno. Si tratta di un passaggio di un certo rilevo perché ciò che contraddistingue il feto e non il neonato è il fatto di vivere per il tramite di un’altra persona. È qui che si fonda il conflitto di valori rappresentato dall’aborto, dove la liceità dell’uccisione di una vita trova legittimazione nel fatto che un’altra vita a essa temporaneamente inscindibile (quella della madre) viene giudicata prevalente e quindi degna di maggior tutela. Spostare questo tipo di conflitto su una vita, quella del neonato, che non è più letteralmente in sincrono con quella della madre ma autonoma, a tutti gli effetti individuale, significa avere una visione proprietaria della realtà: tutti gli attori che non hanno la forza di affermare se stessi sono nelle disponibilità di altri. Qui, non occorrerebbe neanche dirlo, non c’è nulla di liberale: favorire la libertà significa favorirne le condizioni di possibilità per chiunque sia nelle condizioni di essere considerato un individuo e non credo che la morte possa rientrare tra questo novero. 

Il neonato, lo dice la parola, ha superato la soglia della nascita, è venuto al mondo, e ogni azione violenta perpetrata nei suo confronti altro non è che l’esercizio di forza chi ha potenza ai danni di chi invece testimonia solo fragilità e bisogno.

 


[1] P. Singer, Ripensare la vita. La vecchia morale non serve più (1994), tr. it. Il Saggiatore, Milano 1996, p. 138.

[2] Ibid.

[3] Cfr. Ibid. pp. 185-186.

[4] Cfr. Ibid. p. 213.

[5] Cfr. «Journal Medical Ethics», 39, 2013, pp. 257-356.

[6] A. Giubilini e F. Minerva, Clarifications on the moral status of newborns and the normative implications, in «Journal Medical Ethics», 39, 2013, pp. 264.  

[7] Id., After-birth abortion: why should the baby live?, in «Journal of Medical Ethics», 2012, doi:10.1136/medethics-2011-100411

[8] Ibid.

[9] Cfr. P. Singer, op. cit., pp. 114-115. Pioneristico in tal senso anche M. Tooley, Abortion and infanticide, in «Philosophy & Public Affairs», 2, 1, Autumn, 1972, pp. 37-65. Testi peraltro citati dagli stessi Giubilini e Minerva.

[10] H. Saas, The Moral Significance of Brain-Life Criteria, in F. K. Beller e R. F. Weir (ed. by), The Beginning of Human Life, Kap, Dordrecht, 1994, pp. 57-70.

[11] P. Singer, op. cit., p. 115.

[12] Ibid.

[13] Ibid., p. 114.

[14] Id., Discussing infanticide, in «Journal Medical Ethics», 39, 2013, pp. 260.  

[15] A. Giubilini e F. Minerva, After birth-abortion, cit.

[16] Ibid.

[17] Ibid.

[18] Si veda l’esaustivo articolo del dott. Verhagen sull’eutanasia in Olanda e sul cosiddetto protocollo Groningen. E. Verhagen, The Groningen Protocol for newborn euthanasia; which way did the slippery slope tilt?, in «Journal Medical Ethics», 39, 2013, pp. 293-295.

[19] A. Giubilini e F. Minerva, After birth-abortion, cit.

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