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Human Enhancement Technologies. Verso nuovi modelli antropologici Parte I

Autore


Luca Lo Sapio

Università degli Studi di Napoli Federico II

Dottore di ricerca in Bioetica presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice



  1. Enhancement: alcune definizioni preliminari
  2. Una questione mal posta

 

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S&F_n. 09_2013

Abstract


This paper deals with the important topic of human enhancement and tries to focus the question under a new perspective. The international debate is focused around two main theoretical positions: bio-conservatorism and techno-enthusiasm. We seem to be forced to choose one or another conception in order to understand the relationship between human beings and technology. The first part of the paper analyzes different authors trying to circumscribe the principal features of each one. We can notice two main paradigms which are incapable to rightly understand the phenomenon we are considering. The relieves emerging in the first part will be suitable to prosecute the analysis in the second part of the work.

 


Il presente lavoro rappresenta la prima parte di una più corposa riflessione, il cui prosieguo verrà presentato nel prossimo numero di S&F_. Il tema in oggetto, l’enhancement, verrà analizzato prima sotto il profilo descrittivo (nelle pagine che seguono), cercando di dare voce e definizione teorica alle due principali cornici concettuali entro cui il dibattito internazionale si snoda. Nella seconda parte, ci sarà, invece, un approfondimento maggiormente orientato in senso critico e volto al rinvenimento di una prospettiva problematizzante, lontana dagli inquadramenti di carattere dicotomico cui siamo abituati.


  1. Enhancement: alcune definizioni preliminari

The rise of modern science and technology has radically transformed the relation between human beings and nature. Nature which for millennia had seemed all powerful and immutable, has suddenly become an object for control and manipulation, something that can be systematically shaped to human ends[1].

 

Rapporto tra human beings e nature: alterazione, modificazione radicale, ibridismo permanente, registro della metamorfosi, questa la dimensione logico-concettuale entro la quale si articola il dibattito intorno allo human enhancement. Certamente bisogna sottolineare fin dalle prime battute che «nell’accostarci al tema dell’enhancement ci imbattiamo innanzitutto in un problema di definizione»[2]. E, aggiungeremmo noi, in un altrettanto delicato problema di attribuzione. Parlare di enhancement ci costringe, infatti, a mettere sul tappeto le diverse Weltanschauungen soggettive e i differenti paradigmi interpretativi della vita. «Enhancement can be defined as something which makes our lives better. This is clearly desirable and an intrinsic good»[3] secondo Haley e Rayner, che seguono il registro dell’accettazione, su base eudaimonistica delle pratiche di enhancement sull’uomo. «Queste procedure […] suscitano tante domande fondamentali sul senso della nostra esistenza di esseri corporei, condizionati e contingenti» secondo la prospettiva, maggiormente cauta e prudenzialista di Stephan Kampowski[4]. E ancora Michael Gazzaniga, nell’ultimo capitolo del suo testo Human, si intrattiene a lodare le magnifiche sorti e progressive dell’uomo che si emancipa dalla sua transeunte condizione di essere vincolato alla biologia[5]. Potremmo continuare a lungo con citazioni, assai precise e circostanziate, che richiamino al corifeo di personaggi pro-enhancement o all’altrettanto corposo manipolo di avversari senza se e senza ma o di preoccupati studiosi del fenomeno in esame (li chiameremo bioconservatori, sfrondando, però, il termine dall’accezione negativa e polemica assegnata a esso da Nick Bostrom)[6]. Nello studio commissionato dal parlamento europeo sulla natura e le conseguenze teoriche e pratiche dell’enhancement, giunto a termine nel 2009, si dà una definizione dalla quale, in una certa misura, per la sua sobrietà, ci sentiamo di poter partire.

The umbrella human enhancement refers to a wide range of existing emerging and visionary technologies, including pharmaceutical products: neuroimplants that provide replacement sight or other artificial senses, drugs that boost brain power, human germline engineering and existing reproductive technologies, nutritional supplements new brain stimulation technologies to alleviate suffering and control mood, gene doping in sports, cosmetic surgery, growth hormones for children of short stature, anti-ageing medication, and highly sophisticated prosthetic applications that may provide specialized sensory input or mechanical output. All these technologies signal the blurring of boundaries between restorative therapy and interventions that aim to bring about improvements extending beyond such therapy[7].

 

L’enhancement ha, quindi, a che vedere con l’apertura, ormai divenuta strutturale, capillare ed extra-terapeutica, dell’uomo alla galassia delle bio-tecnologie. Esso sarebbe, pertanto, un fenomeno originale, del tutto estraneo alle dinamiche culturali e tecnologiche dell’uomo pre-moderno e segnerebbe, di fatto, il punto di rottura, il breaking down della comune percezione dell’uomo come ente dotato di una propria natura fissa, stabile, precisamente rintracciabile. Lo scopo di questo saggio è mostrare come le posizioni invalse in materia di enhancement siano, quasi tutte, inficiate da pre-giudizi, pre-supposizioni, idee non verificate, errori concettuali che minano alla base la possibilità stessa di sviluppare un dibattito pacato e lucido sull’argomento. Tali pre-giudizi, pre-supposizioni, errori concettuali e quant’altro consistono nell’indebita differenziazione tra naturale e artificiale (indebita se proposta come spia di uno iato impareggiabile) o, ancora, nell’idea che enhancement sia un semplice sinonimo di potenziamento, implementazione (prestando il fianco a coloro che si richiamano a esso in funzione di utopici progetti trans-umanisti). Seguendo la scia tracciata da questi marcatori concettuali è giocoforza impostare la questione dell’enhancement sulla base di un, a nostro avviso, poco proficuo discorso sulla continuità o non continuità delle vecchie tecnologie con le nuove tecnologie rispetto al loro impatto sul sòma, oppure sul problema del superamento o meno delle barriere materiali costituite dal corpo, nella sua azione di limite strutturale dell’individuo. L’obiettivo ultimo di questo saggio è mostrare come l’uomo, per la sua stessa condizione – e intendiamo qui condizione come termine sintetico sotto al quale vanno riportate dimensione biologica, sociale ed esistenziale – sia costituzionalmente e da sempre un ente-enhanced. Si tratterà di vedere, allora, in quale specificazione peculiare si realizza l’attuale enhancement umano (ad esempio nei termini di un auto-direzionamento consapevole e di livello differente rispetto al passato, del “destino” biologico della nostra specie[8]) e in quale senso il termine enhancement, lungi dall’essere un semplice passepartout della contemporaneità, o una semplice parola tecnica, usata in contesto medico o bio-medico-ingegneristico, possa essere riguardato come cifra antropologica e strumento ermeneutico per la comprensione della complessiva dimensione della conditio humana.

 

  1. Una questione mal posta

Nella ridda di posizioni che rinveniamo entro le maglie del dibattito sull’enhancement possiamo, come, in parte, già accennato precedentemente, distinguere due macro-aree paradigmatiche. La prima è costituita dai cosiddetti bio-conservatori, pensatori per i quali gli interventi enhancing (per lo più essi si riferiscono a interventi che eccedono lo stretto ambito della terapia[9]) vanno evitati per ragioni di ordine morale (essi renderebbero impossibile conservare un criterio forte per la riconoscibilità etica tra i soggetti), politico-sociale (creerebbero disparità sociali irrecuperabili), biologico (genererebbero situazioni mutageniche non prevedibili) e bio-enhancement-entusiasti, per i quali, invece, le possibilità dischiuse dalle nuove tecnologie saranno in grado di mettere capo a un’emancipazione generale dell’umanità dalle pastoie della carne (alias del corpo) e dalle insufficienze di un organismo strutturalmente deficitario. La nostra posizione, al contrario, è che sia la prospettiva dei tecno-entusiasti sia quella dei bio-conservatori pecchi sostanzialmente nell’impostazione complessiva della problematica. Analizzare alcuni degli argomenti di autori dei due schieramenti teoretici ci aiuterà a gettare luce su questi punti di inciampo. Uno dei pensatori più influenti del dibattito filosofico contemporaneo, Jürgen Habermas, nel 2001 ha messo mano a un libello nel quale ha espresso la sua avversione e contrarietà a qualsiasi intervento il cui scopo ultimo fosse quello di produrre miglioramenti positivi in seno al soggetto ricevente[10]. È necessario, quindi, tracciare le linee portanti della riflessione habermasiana.

Finché la filosofia credette di poter conoscere la totalità della natura e della storia, s’illuse anche di possedere un quadro generale in cui collocare la vita degli individui e delle comunità. La struttura del cosmo, la natura dell’uomo, gli stadi della storia terrena e celeste offrivano “dati di fatto” normativamente impregnati, in grado di illuminare ciò che si riteneva una vita giusta[11].

 

Questo il punto di partenza dell’analisi del filosofo tedesco, lo scenario di una realtà post-metafisica nella quale «il pluralismo delle visioni del mondo e la progressiva individualizzazione degli stili di vita»[12] è la “norma”. Di fronte a questo scenario alla filosofia non rimane che, per certi versi, la nuda possibilità di una “descrizione formale” delle modalità entro le quali tali indirizzi e condotte di vita si esplicano. Essa si ritira, quindi, e legittimamente, in una sorta di astensione giustificata, riprendendo le parole impiegate da Habermas. Questa astensione, questa

astinenza cozza però contro i propri limiti, non appena si affrontano questioni riguardanti l’etica del genere. Non appena sia complessivamente messa in pericolo l’autocomprensione etica dei soggetti capaci di azione e di linguaggio, la filosofia non può più esimersi dal prender posizione su questioni di contenuto. Questa è la situazione cui siamo arrivati oggi. Il progresso delle scienze biologiche e lo sviluppo delle biotecnologie non consentono solo di estendere possibilità già familiari, ma rendono anche possibile un nuovo tipo di interventi. Ciò che si presentava prima come una natura organica data oggi viene a cadere nella sfera della programmazione intenzionale […]. Viene cancellato il precedente confine tra la natura che noi siamo e la dotazione organica che noi ci diamo»[13]. E prosegue, poco più oltre, scrivendo che «ciò che però diventa oggi manipolabile è qualcosa di diverso, ossia quella contingenza finora indisponibile del processo di fecondazione per cui non potevamo prevedere il combinarsi delle due serie cromosomiche[14].

 

Quello che immediatamente emerge dalla lettura di questi passaggi (approfonditi e sviluppati con variazioni sul tema nell’articolazione complessiva del volume habermasiano) è che le nuove tecnologie del Bìos rendono oggi disponibili interventi sulla natura intima del soggetto, attraverso i quali si può alterare la datità originaria e casuale (liberamente risultante dalla combinazione delle due serie cromosomiche) dell’individuo. Se il secondo punto in esame può essere accettato, entro certi limiti, e all’interno di una prospettiva teorica precisa, il primo risulta fortemente discutibile, in particolare alla luce dell’evidente problematicità legata a qualsiasi idea antropologica di carattere essenzialista e fissista. In effetti la visione habermasiana, se depuriamo l’ermeneutica dell’ànthropos da riferimenti espliciti o impliciti all’ontologia, risulta teoreticamente debole. Se l’ontologia è abbandonata non si può, poi, pur entro un registro discorsivo differente, sostenere che le pratiche di manipolazione genetica intaccherebbero una datità originaria che ha da essere preservata. O l’uomo ha un’essenza fissa, determinata, precisamente stabilita oppure esso è il prodotto provvisorio di agenti naturali (le forze della selezione) che lo fabbricano e lo costruiscono[15]. Più oltre, nel corso della sua breve opera, Habermas addurrà altre argomentazioni, tra le quali una in particolare sembra poter avanzare una prospettiva empiricamente più credibile e fondata. Le pratiche di manipolazione genetica metterebbero capo a un processo di strumentalizzazione del soggetto che creerebbe un dis-equilibrio sociale non recuperabile[16]. Il paradigma teoretico di Habermas, questo va rilevato con chiarezza, vive al di fuori di una cornice concettuale di stampo metafisico, cosa che non può dirsi, ad esempio, della proposta filosofica di Hans Jonas. Nel pensiero di quest’ultimo le problematiche della vita, della natura umana e della sua persistenza sulla terra si intrecciano a un’impostazione ontologicamente fondata, per la quale ciò che va tenuto in considerazione primariamente, è la necessità di assicurare la conservazione della specifica forma di vita dell’ànthropos[17]. Dai riferimenti che abbiamo proposto possiamo evincere una preliminare serie di argomentazioni che attingono la loro ragion d’essere dalla morale e dall’ontologia (una certa forma di riflessione ontologica). Vediamo ora come si sviluppa il discorso anti-enhancement in Fukuyama, Sandel e Leon Kass. Fukuyama esamina le problematiche relative all’enhancement nel testo L’uomo oltre l’uomo. Le conseguenze della rivoluzione biotecnologica. Qui egli rintraccia almeno tre motivi strutturati per il rifiuto delle pratiche biotecnologiche di carattere enhancing. Il primo, religioso, non sarà oggetto della presente trattazione. Il secondo e il terzo, invece, poiché legati maggiormente a una dimensione filosofica verranno discussi. Fukuyama si fa portavoce, in prima battuta, dei

timori che il progresso futuro delle biotecnologie possa implicare costi imprevisti o conseguenze negative a lungo termine che potrebbero eccedere i benefici presunti. Mentre i danni paventati dagli oppositori delle biotecnologie per ragioni religiose sono spesso intangibili (per esempio, la minaccia alla dignità umana rappresentata dalla manipolazione genetica), i danni utilitaristici sono, in genere, più facilmente riconoscibili, in quanto possono assumere la natura di un costo economico, oppure di un danno al benessere fisico delle persone. L’economia moderna ci fornisce un quadro di riferimento chiaro per stabilire se una nuova tecnologia avrà effetti positivi o negativi[18].

 

È indubbio che l’opportunità di avere una vita più lunga possa apparire assolutamente desiderabile, ma le tensioni sociali che emergerebbero da ciò, unitamente a tutta un’altra serie di fattori, determinerebbero verosimilmente, questa la posizione del filosofo americano, costi sociali incalcolabili.

Nelle società più democratiche e/o meritocratiche esistono meccanismi istituzionali che consentono la rimozione dei capi, leader e amministratori delegati per raggiunti limiti di età, ma i termini della questione non cambiano. Il problema fondamentale è il fatto che le persone che si trovano in cima a una gerarchia sociale di solito non vogliono perdere il proprio status, e spesso fanno uso della propria notevole influenza per proteggerlo[19].

 

Squilibri sociali, difficoltà nel ricambio generazionale, imprevedibili effetti sulla qualità della vita a lungo termine sono, pertanto, solo alcune delle paure teoriche che Fukuyama lega agli sviluppi delle pratiche enhancing. Infine un’argomentazione di natura morale. Se, questo il punto di vista di Fukuyama, non è sostenibile che le biotecnologie favorirebbero, senza margini di dubbio, il sorgere di disparità sociali e il declino del senso di solidarietà tra individui, è, però, molto probabile che l’impiego di queste tecnologie farebbe scemare la possibilità di un riconoscimento paritario tra persone, sotto il profilo ontologico. Gli individui non si potranno riconoscere tra di loro come soggetti che dispongono di una medesima natura[20], la qual cosa determinerebbe, giocoforza, l’impossibilità, de facto, di attribuire a tutti i diritti fondamentali e una piena rilevanza morale.

La posta che le biotecnologie mettono in gioco non riguarda un semplice calcolo utilitaristico di costi e benefici derivanti dalle tecnologie mediche del futuro, ma la stessa base del senso morale umano, che ha rappresentato una costante fin dall’inizio della storia dell’uomo. Può essere che, come diceva Nietzsche, il superamento del senso morale sia scritto nel nostro destino, ma se questo è vero dobbiamo accettare senza ipocrisie le conseguenze dell’abbandono dei nostri concetti morali di bene e male e riconoscere, come ha fatto il filosofo tedesco, che questo passo possa condurci verso territori ignoti. Per intraprendere l’esplorazione di questo continente sconosciuto dobbiamo capire le teorie moderne a proposito dei diritti e del ruolo giocato dalla natura umana nei nostri ordinamenti politici[21].

 

  1. Sandel, membro del President’s Council on Bioethics, propone una riflessione altrettanto interessante sull’argomento che stiamo analizzando.

I progressi della genetica – scrive Sandel – ci consegnano una promessa e una difficoltà. La promessa è che forse potremmo presto curare e prevenire un gran numero di gravi malattie. La difficoltà è che il recente sapere genetico può metterci in condizione di manipolare la nostra natura, di migliorare i nostri muscoli, la nostra memorie e in nostro umore; di scegliere il sesso, la statura e altri tratti genetici dei nostri figli[22].

 

«Il disagio che proviamo nei confronti dell’enhancement si spiegherebbe con la nostra difficoltà di accettare un mondo dominato dal desiderio di padronanza sulla natura»[23]. Padronanza sulla natura che metterebbe capo a una situazione di erosione della nostra «considerazione del carattere di dono delle possibilità e delle realizzazioni umane» e finirà «fatalmente col cambiare tre caratteristiche chiave del nostro paesaggio morale: l’umiltà, la responsabilità e la solidarietà»[24]. Le considerazioni di Sandel ci sembrano molto interessanti, in particolare con riferimento a quella che, con qualche concessione retorica, possiamo definire la possibile psicologia dei soggetti enhanced ed enhancing. Il filosofo americano scrive: «Il miglioramento mi preoccupa come stile di pensiero e modo di essere»[25]. La dissoluzione del sentimento solidaristico, responsabile e umile che contraddistingue gli esseri umani (quantomeno dovrebbe contrassegnare le loro condotte soggettive) determina la delineazione di un mondo peggiore. «Quale che sia il suo effetto sull’autonomia del figlio, l’impulso a cancellare il contingente e padroneggiare il mistero della nascita sminuisce il genitore progettante e corrompe l’essere genitori come pratica sociale governata da norme di amore incondizionato»[26].

Vale la pena, ora, accennare le obiezioni all’enhancement avanzate da Leon Kass. Secondo quest’ultimo le biotecnologie «deformerebbero la struttura profonda di quella che consideriamo la naturale attività umana», inoltre esse «non migliorerebbero affatto le nostre vite e soprattutto non ci renderebbero più felici», infine bisogna richiamare l’attenzione sul «senso di disgusto che noi proveremmo nei confronti delle tecnologie migliorative: questo sentimento sarebbe sufficiente a mostrare la loro inutilità»[27].

Se spostiamo il nostro focus teoretico sulla fazione dei bio-enhancement-entusiasti ci imbatteremo in una altrettanto ricca sequela di argomentazioni da porre a un attento vaglio critico, al fine di far emergere la problematicità insita in esse. Parliamo di problematicità nella misura in cui tale atteggiamento ci preclude la possibilità stessa di comprendere adeguatamente il tema dell’enhancement. Se Habermas è inquietato dalla possibilità che un riconoscimento etico di genere possa venir meno a causa dell’impiego massiccio delle tecniche bioingegneristiche, o ancora, se Sandel ritiene gli interventi di enhancing migliorativo lesivi del sentimento di solidarietà e di umiltà dell’uomo, troviamo agli estremi opposti i sostenitori di una visione perfezionistica della natura umana, per la quale è auspicabile che, quanto prima, e quanto più capillarmente possibile, le nuove tecnologie vengano utilizzate per superare le pastoie e le criticità limitanti nelle quali è costretto il nostro corpo transeunte. Molti di questi autori si raccolgono sotto il vessillo teoretico del transumanesimo.

Transhumanism is a way of thinking about the future that is based on the premise that the human species in its current form does not represent the end of our development but rather a comparatively early phase. We formally define it as follows: 1) The intellectual and cultural movement that affirms the possibility and desirability of fundamentally improving the human conditions through applied reason, especially by developing and making widely available technologies to eliminate aging and to greatly enhance human intellectual, physical and psychological capacities; 2) the study of the ramifications, promises and potential dangers of technologies that will enable us to overcome fundamental human limitations, and the related study of the ethical matters involved in developing and using such technologies[28].

 

Come possiamo ravvisare dal brano di Bostrom proposto, il transumanesimo si presenta come una coerente corrente di pensiero nella quale trovano sistemazione le aspirazioni tecnofile di molti pensatori e appassionati di sviluppo tecnologico. Essa pone l’accento sulla desiderabilità della combinazione uomo-macchina in vista di un oltrepassamento dell’attuale conditio umana, percepita come insufficiente e, soprattutto, non definitiva. Prendiamo qui in considerazione il transumanesimo, e alcune sue specificazioni, in quanto movimento che esprime in modo netto e radicale posizioni presenti, con sfumature e accenti diversi in una molteplicità di autori contemporanei[29]. «La missione transumanista è quella di utilizzare eticamente la tecnologia per espandere le capacità umane, per avere menti migliori e vite migliori, in pratica quella che si chiama in termine filosofico eudaimonistica o scienza della massimizzazione della felicità»[30]. La mission transumanista, ripresa e approfondita dalla scuola estropiana, per la quale bisogna giungere a un punto tale nell’utilizzazione delle bio-tecnologie che non resti, praticamente, più nulla dell’essere umano tradizionale[31], si può leggere come una sorta di parabola neo-illuminista, in cui il pensiero, sorretto dalle energie più elevate (razionalità, ottimismo pratico, etc.), perviene a una condizione di purezza e superamento dei vincoli e delle deficienze alle quali l’organismo è costretto e avvinto. Ma c’è qualcosa di più nel progetto utopico di questi autori e nel loro gergo paragnostico. Una sorta di escatologia filtrata dal mezzo tecnologico che presenta non pochi punti di criticità. A. Clarke nel 1962 scriveva, profeticamente,

può la sintesi tra uomo e macchina rimanere stabile, o la componente puramente organica del binomio è destinata a divenire un impaccio dal quale liberarsi? Se si rivelasse vera la seconda ipotesi – e ci sono secondo me buone ragioni per crederlo – non avremmo nulla di cui dolerci e certamente nulla di cui temere[32].

 

Questo sembra uno degli interrogativi tipicamente trans-umanisti. Uomo/macchina, Organico/inorganico, Naturale/artificiale, tutte coppie che la tradizione occidentale ha considerato oppositive, inconciliabili. Il transumanesimo e la sua ala neo-gnostica più quotata, il movimento estropiano, credono di poter risolvere tali oppositività in un dissolvimento tecno-guidato, al termine del quale, innanzitutto, l’uomo nella sua forma presente, verrà superato, e la dicotomia tra organico e inorganico sgretolata dalla preminenza di quest’ultimo, riguardato quale artefice di un cambio di passo ontologico nella parabola evolutiva di ànthropos. Ciò che, più opportunamente, dovrebbe emergere è il fatto che le nuove tecnologie non si muovono entro il registro del superamento dell’organismo, dell’abbandono della selettività naturale, della preminenza della macchina sulla carne (all’interno di un futuristico progetto guidato dalla singolarità tecnologica), bensì nel quadro più complesso, variegato e articolato della perfusività, dell’ibridismo, della riterritorializzazione della carne, tutto questo proprio portando a compimento quel tragitto, al termine del quale le categorie tipiche della metafisica occidentale escono dissolte, frantumate, scomposte intimamente. Volendo rapidamente sintetizzare quanto detto possiamo rintracciare nell’attuale dibattito internazionale sull’enhancement (qui ci riferiamo specificamente a quella forma di enhancement che non viene applicato in chiave meramente terapeutica – quindi correttiva -) due macro-aree paradigmatiche: quella dei bio-conservatori e quella dei favorevoli senza se e senza ma alle pratiche di potenziamento e implementazione corporea. I bio-conservatori, per lo più, adducono contro l’enhancement argomentazioni di ordine morale (potenziare l’uomo ingenera una situazione per la quale risulta poi impossibile o molto complicato conservare criteri forti di riconoscibilità tra gli uomini, e questo sotto vari punti di vista), politico-sociale (l’enhancement genera squilibri sociali irrecuperabili), economico (esso presenta costi incalcolabili, ad esempio, per la tenuta del sistema previdenziale) psicologico e antropologico (nel senso che non è possibile prevedere cosa accadrà ai soggetti enhanced sotto il profilo psicologico e antropologico lato sensu). Tutte queste argomentazioni possono essere ricondotte a un atteggiamento di tipo conservativo verso l’esistente, per il quale all’uomo è assegnata una natura che non deve essere modificata radicalmente ma tutelata e preservata. Lo schieramento dei bio-enhancement-entusiasti, invece, sostiene fieramente che le nuove tecnologie segnano un punto di assoluta rottura e discontinuità tra il “vecchio ànthropos” e il “nuovo ànthropos” tale da consentire, finalmente, o a breve, un salto ontologico, un cambio di passo dell’umanità verso lidi di speranza ed emancipazione dal dolore e dalle catene del corpo (alias della carne). Ma tale divisione paradigmatica favorisce realmente la comprensione delle dinamiche della modernità, consente, quindi, davvero di capire quello che sta accadendo attorno a ognuno di noi? O non è piuttosto di intralcio, di ostacolo alla nostra attività ermeneutica? Nella seconda parte di questo saggio, approfondendo alcune delle notazioni critiche emerse in questa prima parte della trattazione, sosterremo alcune tesi il cui obiettivo è di mettere in crisi l’idea che per parlare di enhancement abbiamo bisogno di schierarci a favore della conservazione dell’attuale forma di vita dell’uomo o del suo superamento per mezzo dell’impiego massiccio delle nuove tecnologie.

 


[1] G. Kahane, J. Savulescu, Ruud ter Meulen, Enhancing human capacities, John Wiley & Sons, New York 2011, p. 5.

[2] F. Giglio, Enhancement: definizione e questioni aperte, in Migliorare l’uomo? La sfida etica dell’enhancement, a cura di S. Kampowski e D. Moltisanti, Edizioni Cantagalli, Siena 2011, p. 15.

[3] P. Haley, S. Rayner, Unnatural selection: the challenges of engineering tomorrow’s people, Earthscan, Oxford 2009, p. 179.

[4] S. Kampowski, Quattro implicazioni etiche ed antropologiche della medicina oltre la terapia, in Migliorare l’uomo?, cit., p. 61.

[5] M. Gazzaniga, Human. Quel che ci rende unici (2009), tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2009, p. 407 sgg.

[6] Cfr. N. Bostrom, In difesa della dignità post-umana, in «Bioetica», 13, 4, 2005, pp. 33-46.

[7] STOA, Human enhancement study, p. 6.

[8] Cfr. G. Stock, Riprogettare gli esseri umani. L’impatto dell’ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie (2002), tr. it. Orme editori, Milano 2004.

[9] Va qui accennato che risulta quantomeno difficile, se non epistemologicamente infondato, proporre e avallare una distinzione di carattere nettamente disgiuntivo tra terapia e intervento puramente migliorativo, e questo per molteplici ordini di ragioni.

[10] Cfr. J. Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale (2001), tr. it. Einaudi, Torino 2002.

[11] Ibid., p. 5.

[12] Ibid., p. 6.

[13] Ibid., pp. 14-15.

[14] Ibid., p. 16.

[15] Cfr. C. Fuschetto, Darwin teorico del postumano. Natura, artificio, biopolitica, Mimesis Edizione, Milano-Udine 2010.

[16] J. Habermas, op. cit., p. 54 sgg.

[17] Cfr. H. Jonas, Il principio responsabilità (1979), tr. it. Einaudi, Torino 2002, pp. 24-28. Dello stesso autore è interessante analizzare Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità (1981), tr. it. Einaudi, Torino 1997.

[18] F. Fukuyama, L’uomo oltre l’uomo. Le conseguenze della rivoluzione biotecnologica (2002), tr. it. Mondadori, Milano 2002, p. 127.

[19] Ibid., p. 92.

[20] M. Balistreri, Superumani. Etica ed enhancement, Espress Edizioni, Torino 2011, p. 67.

[21] F. Fukuyama, op. cit., p. 141.

[22] M. Sandel, Contro la perfezione. L’etica nell’età dell’ingegneria genetica (2007), tr. it. Vita&Pensiero, Milano 2008, p. 22.

[23] M. Balistreri, op. cit., p. 85.

[24] M. Sandel, op. cit., p. 89.

[25] Ibid., pp. 97-98.

[26] Ibid., p. 87.

[27] M. Balistreri, op. cit., p. 115.

[28] N. Bostrom, The transhumanist FAQ, in D. M. Kaplan, Readings in the philosophy of technologies, Rowman & Lettlefield, Lanham 2009, p. 345.

[29] Pensiamo, ad esempio, a Kurzweil o a Hans Moravec, al movimento estropiano e altri.

[30] G. Vatinno, Il transumanesimo. Una nuova filosofia per l’uomo del XXI secolo, Armando Editore, Roma 2011, p. 18.

[31] Cfr. A. Caronia, Il cyborg. Saggio sull’uomo artificiale, Shake, Milano 2008, p. 138.

[32] A. Clarke, Il volto del futuro (1964), tr. it. Sugar, Milano 1965, p. 243.

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