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Tra Humanitas Animalitas e Deitas: intorno alla maschera di Pulcinella

Autore


Fabiana Gambardella

Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


  1. Senza identità
  2. Tra Humanitas, Animalitas e Deitas
  3. La catarsi del riso e il limite del linguaggio
  4. Una spazialità diffusa

 

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S&F_n. 15_2016

Abstract


Between Humanitas Animalitas and Deitas: about Pulcinella’s Mask


Pulcinella is an archetypal character found all over the world, but the persistence of the stock  character in public imagination, far from being connected to any particular attribute, is due to his lack of any pronounced identity. Actually Pulcinella is a sort of empty space where the spectator can project his repressed impulse and enjoy a cathartic effect through the laughter that the stock character provokes. Pulcinella is an hybrid subject, that condenses in himself Humanitas, Animalitas and Deitas. He breaks the dichotomy of occidental metaphysics, and its separation between Logos and Bios.


Esiste, nelle estreme e più lucenti terre del Sud, un ministero nascosto per la difesa della natura dalla ragione;

un genio materno, d’illimitata potenza, alla cui cura gelosa e perpetua è affidato il sonno in cui dormono quelle popolazioni.

Se solo un attimo quella difesa si allentasse, se le voci dolci e fredde della ragione umana potessero penetrare quella natura, essa ne rimarrebbe fulminata […]

Qui il pensiero non può che essere servo della natura.

Se appena manifesta qualche tendenza a correggere la celeste conformazione di queste terre,

a vedere nel mare soltanto acqua, nei vulcani altri composti chimici, nell’uomo delle viscere, è ucciso.

A.M. Ortese, Il mare non bagna Napoli

  1. Senza identità

Sebbene possa apparire fortemente radicata all’identità partenopea e quasi dare corpo e sostanza a quel genio materno posto nelle terre del Sud a difesa della natura, contro le voci fredde della ragione, in verità la maschera di Pulcinella è presente ovunque nell’immaginario collettivo, dalla Francia, all’Inghilterra, alla Spagna, fino addirittura alla Russia e alla Turchia. Eppure a voler individuare con precisione il motivo della sua resistenza nella coscienza condivisa, si resterebbe disorientati, poiché il suo permanere non sta tanto nel possesso di una qualche definita peculiarità, quanto al contrario nell’assenza di un’identità precisa.

È un soggetto debole Pulcinella, una figura della metamorfosi lieve e beffarda, un’identità ibrida e costantemente in transizione, che proprio per questo assurge a universale, si fa archetipo e mito: «La caratteristica tipologica di Pulcinella non sta nella sua identità ma nella sua orrenda e sacrale, misterica e fascinosa mancanza di identità: contenitore amorfo, ha segnalato in un controllo di varianti esteriori (maschera, abito, cappello, bastone, voce-pivetta) la funzione unitaria del tipo e, nella molteplicità delle variazioni interiori, la mancanza di una identità, la negazione di quell’unità»[1].

Benedetto Croce, che pure alla maschera si interessò, incappò nella stessa impossibilità di definirla: è vero che per tutti Pulcinella nasce da un uovo ed è per l’appunto una specie di pulcino dal naso adunco e dalla voce stridula, eppure «Chi voglia dare una definizione di Pulcinella, o prende una sola di quelle rappresentazioni e arbitrariamente la alza a canone, o cercando il comune tra il particolare, il costante tra il vario, c’è il rischio che non gli resti altro in mano che un nome»[2].

Tuttavia questa originaria “penuria d’essere”, che è tale laddove si voglia definire l’identità come essenza certa, costante e inamovibile, diventa al contrario sovrabbondanza quando l’identità venga considerata esito mai raggiunto di costanti ibridazioni e metamorfosi, nonché luogo della contraddizione non risolta e che neanche aspira a ricomporsi in una sintesi superiore.

Del resto l’ambiguità della maschera pare essersi annidata già nel nome Pulcinella, che non solo evoca l’animalitas, così come il suo aspetto esteriore, ma che addirittura si declina al femminile; femminile è inoltre la sua stessa corporeità, che sebbene presenti nelle fattezze molti riferimenti fallici, è caratterizzata anche da un palese ermafroditismo: «i rigonfiamenti del petto (gobbe o seni che siano) […] i glutei polputi e rotondeggianti da efebo; la voce stridula e rotta di castrato»[3]; ma Pulcinella è anche «uomo scimunito e deforme»[4], una sorta di mostro oggetto di orrore e raccapriccio, un «aborto di natura»[5]. L’animalitas dunque, l’elemento femmineo, tellurico e spesso anche l’insania, una certa dose di stoltezza, fanno della maschera il perturbante contenitore del mostruoso, di tutto quanto è ricusato dalla ratio occidentale: in Pulcinella «ogni dettaglio è fuori misura, fuori posto, fuori tempo, abnorme, irregolare, anacronistico»[6].

Pulcinella è l’altro, l’alieno, lo straniero, e come tale ha sempre anche a che fare col sacro e con l’ambivalenza che il sacro reca in sé: «[…] Di qui viene che un uomo malvagio e impuro suole essere chiamato sacro»[7]; alle origini del sacro ci sarebbe infatti un’originaria «indifferenza tra sacro e impuro», che determinerebbe quel misto di orrore e venerazione[8].

Pulcinella presenta consustanzialmente questa ambiguità di fondo che lo rende indecifrabile e perturbante a un tempo: è sempre contemporaneamente sacro e impuro, angelico e demonico, maschio e femmina, umano e divino. Per Rudolph Otto il numinoso è «Il completamente altro […], quel che è al di là della sfera dell’usuale, del comprensibile, del familiare» e il rapporto con esso consta di due momenti emozionali, il tremendum e il fascinans: «Il demonico divino può apparire allo spirito come oggetto di orrore e di raccapriccio, ma in pari tempo si offre come qualcosa di adescante e di ammaliante»[9].

 

  1. Tra Humanitas, Animalitas e Deitas

Le origini della maschera si perdono nella notte dei tempi, per molti si tratta dell’erede di Maccus, il protagonista della tradizione comica delle farse atellane.

Richiama inoltre il mito del briccone, tra le «più antiche forme d’espressione dell’umanità […] riconoscibile sia presso le popolazioni più primitive, come tra i popoli più evoluti»[10]. L’archetipo ha un aspetto teromorfico e la tendenza a una costante trasformazione che impedisce di cristallizzarlo all’interno di un’essenza definita. Secondo Jung quello del briccone è un vero e proprio psicologema, una struttura psichica archetipa, immagine di una coscienza umana ancora indifferenziata, che persiste nei secoli evolvendosi da rappresentazioni primitive fino a mescolarsi coi prodotti più differenziati ed elevati della cultura[11]. Il briccone incarnerebbe tendenze antagoniste presenti nell’inconscio, una specie di seconda personalità agente in ognuno di noi, dal carattere infantile e inferiore che lo studioso definisce “ombra”[12].

Per Jung il briccone «è un precursore del Salvatore ed è, come lui, dio, uomo e bestia»[13]; è sempliciotto, clownesco, a volte stupido e tuttavia il topos prevede che ottenga con la stupidità quello che gli altri non riescono a ottenere attraverso l’ingegno. Sovrumano e subumano a un tempo, sembra sintetizzare in sé humanitas, animalitas e deitas.

La caratteristica predominante del briccone, come quella di Pulcinella è l’incoscienza, un’infantile smemoratezza[14] che lo libera dal passato e dal suo così fu. Jung scrive che il briccone «non ha coscienza di se medesimo al punto che non costituisce un’unità, e le sue mani possono combattere l’una contro l’altra […] Può trasformarsi in donna e partorire dei figli»[15]. Ci sono topoi che vedono Pulcinella dividere all’infinito il suo corpo facendo agire le parti in maniera indipendente. Anche l’ermafroditismo rappresenta un tema ricorrente all’interno delle avventure che coinvolgono Pulcinella, che si innamora delle donne ma partorisce figli dalla gobba.

Per Agamben con Pulcinella si spezza la falsa articolazione tra corpo e logos, tra zoe e bios e dunque l’intera macchina antropologica dell’Occidente: «Per questo il suo corpo – ilare e, insieme, deforme, né propriamente umano, né veramente animale – è così difficile da definire»[16].

In Pulcinella emerge un primato della vita, vita che potremmo declinare nella sua accezione più originaria, come perseveranza nell’essere, radicale legame alla natura prima ancora di ogni sovrastruttura di tipo culturale, una vita al di là del bene e del male: «Pulcinella non è che la delizia che un corpo riceve dal suo essere in contatto con se stesso e con altri corpi – non è che un certo uso dei corpi»[17].

Resta fedele alla terra Pulcinella, attraverso la sua fame atavica, la sua greve materialità, le sue insaziabili pulsioni erotiche. È una maschera antiplatonica che fa a pezzi ogni dicotomia di matrice metafisica, l’originaria e insanabile scissione tra un mondo che appare e un altro più autentico che si cela al di là di esso. E lo fa a partire dall’interruzione della dialettica volto/maschera: per Agamben a Pulcinella non è dato togliersi la maschera dopo lo spettacolo, non può mostrare al pubblico il vero celato dietro l’apparenza, semplicemente perché quel vero non esiste, poiché al di là della maschera non c’è nulla, alcun volto, che, guardato dal pubblico sia per esso conforto e consolazione: in questo modo Pulcinella «liquida ogni problema “personale”, congeda ogni teologia»[18].

Né vivo né morto, o al di là della vita e della morte, Pulcinella si trova spesso a tu per tu con la signora con la falce, che affronta come qualsiasi altra avventura, con la leggerezza del lazzo. Contro la morte fa a pugni, si batte, ma sembra che nulla possa mai ucciderlo veramente: viene condannato a morte, decapitato e la sua testa continua a vivere schernendosi dell’uccisore; la testa infatti può essere separata dal corpo senza causarne la morte. «E la vita di Pulcinella è questa vita che è per la morte non perché si vota ad essa, ma perché ne fa comicamente le veci, perché beffa la morte»[19].

 

  1. La catarsi del riso e il limite del linguaggio

Secondo Helmuth Plessner il riso e il pianto sono espressioni paradossali: l’uomo è l’unico ente ad “abitare il riso e il pianto” e tuttavia in una maniera affatto singolare; egli sembra infatti piuttosto “essere abitato”, agito da queste espressioni, non le controlla, ne è sopraffatto. Nel riso così come nel pianto, si assiste ad una sospensione del linguaggio e del logos a esso legato: il linguaggio che “non sa più dire” determina l’irruzione a tradimento del riso. Riso e pianto appaiono allora «come sfoghi indocili e indisciplinati di un corpo resosi come indipendente. L’uomo precipita in essi»[20].

Questa rivincita della vita e del corpo sul logos, questa rovesciata dialettica servo-padrone, trovano incarnazione nella figura del servo per antonomasia, Pulcinella. Ma cosa suscita il riso in Pulcinella?

La maschera è per ogni spettatore «l’incarnazione di una diversità», una figura di confine, proveniente da un altrove rispetto all’occhio osservante, una specie di acrobata del limite, una differenza radicale eppure sempre troppo simile a chi la osserva.

Il riso che suscita è catartico, perché determina il ritorno del rimosso, di tutto quanto la nostra coscienza razionale vuole espellere dal suo quotidiano commercio con le cose. In questo senso Pulcinella è differenza per antonomasia, che «consuma nella forme consentite dal comico la dialettica io/altro, interno/esterno, proprio/estraneo […] è la diversità integrabile, e perciò arricchente e gioiosa, ma mai del tutto integrata e per questa ragione repellente e sinistra»[21]. Questa figura nella quale lo spettatore allo stesso tempo allontanandosi si riconosce, consente «a ciascuno di accarezzare le forme represse del proprio desiderio, ritrovare un’immagine segreta e perduta di sé, entificandola nel diverso»[22].

La vertigine che provoca la vista di questa mostruosa differenza, che resta nondimeno alterità troppo vicina alle proprie istanze rimosse, scatena il riso, che si presenta allora come dispositivo idoneo a superare la crisi suscitata dall’inquietante prossimità: «Il corpo, uscito dal rapporto con l’uomo, si incarica per lui della risposta, non più in qualità di strumento dell’azione, del linguaggio, del gesto simbolico o dell’atteggiamento gestuale, ma come corpo»[23].

Il rimosso cui la maschera dà voce e sostanza non emerge tuttavia come evento traumatico che mette a rischio la presenza, perché si tratta di un rimosso «culturalmente controllato», condiviso dal punto di vista di una comunità che nei limiti accoglie le provocazioni della differenza e del caos[24] in modo che siano portatori di nuovi significati, necessari all’assetto della vita associata per continuare a essere.

 

  1. Una spazialità diffusa

Come figura dell’immanenza radicale Pulcinella appartiene al mondo; la sua è una spazialità diffusa, per certi versi ubiqua, perché Pulcinella è pellegrino: dal vicolo scuro della città ai luoghi più improbabili ed esotici, dal vecchio al nuovo mondo, senza soluzione di continuità, fa capolino il profilo adunco della maschera; e nella sua ambiguità di “né vivo né morto”, Pulcinella abita anche gli inferi.

I suoi viaggi non sono quelli di Ulisse né quelli di Abramo: a peregrinare non lo induce la nostalgia né la speranza. Non porta sulle spalle il fardello del passato, né serba nell’animo la promessa del futuro, per questo in Pulcinella «tutto ciò che è nel tempo diventa leggero»[25]; da buon antieroe gira il mondo senza nulla cercare, il suo errare è privo di meta, se non quella di soddisfare qui e ora le insaziabili brame del suo ventre.

Non ha casa perché «in casa Pulcinella è triste, cerca la strada, perché egli è di passaggio»[26].

Molti studiosi hanno tuttavia cercato di determinare il suo spazio d’origine e molti hanno sostenuto che se anche non fosse stata davvero Napoli a dare i natali alla maschera, la città rappresenterebbe comunque la  sua patria d’elezione, poiché «a Napoli Pulcinella aveva trovato la sede propria per i suoi pensieri»[27].

Fin dal suo primo apparire sulle scene la maschera sembra incarnare in pieno lo spirito della città che «a partire dalla sua fondazione greco-cumana era stata descritta come otiosa, docta, epicurea», portatrice di una «cultura dionisiaca, libera, gioiosa e investigante»[28], priva di quel senso del peccato, che in seguito la Chiesa tenterà, abbastanza invano, di instillarle.

Pulcinella si identifica appieno con la città porosa, nella quale lo spazio sembra essere organizzato in modo da rendere ogni anfratto il teatro di nuove impreviste circostanze. A Napoli non c’è mai «il definitivo, il codificato. Nessuna situazione, così com’è, sembra pensata per sempre, nessuna forma si impone: “così e non altrimenti”»[29].

La città appariva a Benjamin proprio come Pulcinella, e cioè priva di una forma conclusa, pensata per sempre. Napoli, come la maschera, sembrerebbe sfuggire al principio di non-contraddizione, per il quale una cosa è se stessa e non può confondersi con altro da sé.

Solo in uno spazio che si sottrae alla sistematizzazione definitiva diventa possibile il lazzo pulcinellesco. Solo in uno spazio del genere sembra potersi infatti manifestare appieno la trasgressione della maschera, che, come vuole Agamben è «pura parabasi», poiché «non recita in un dramma, lo ha già sempre interrotto, ne è sempre già uscito, per una scorciatoia o una via traversa»[30], per un vicolo del ventre di una città che ben si presta ad ogni tipo di di-versione.

È in questo spazio di instabilità per antonomasia, nella città che come una spugna tutto assorbe senza nulla veramente trattenere per sempre, che la maschera va prendendo atto «dei limiti dell’esperienza intellettuale […] Pulcinella ha costituito il dubbio […] sulla costruzione razionale della realtà, il dubbio che ogni sistema di certezze porti con sé tutte le loro possibili negazioni»[31]

E il dubbio che lo sostanzia determina la messa in questione del primato dell’azione: «Egli testimonia, ogni volta, che non si può agire l’azione né dire la parola – che, cioè, vivere la vita è impossibile e che questa impossibilità è il compito politico per eccellenza»[32].

 


[1] F. C. Greco, Quante storie per Pulcinella, ESI, Napoli 1988, p. 28.

[2] B. Croce, Pulcinella e il personaggio del napoletano in commedia, Ermanno Loescher&C, Roma 1899, p. 59.

[3] D. Scafoglio, L.M. Lombardi Satriani, Pulcinella. Il mito e la storia, Leonardo Editore, Milano 1992, p. 222.

[4] Ibid., p. 327.

[5] Ibid.

[6] Ibid., p. 328.

[7] G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 2005, p. 79.

[8] Ibid., p. 85.

[9] R. Otto, Il sacro. L'irrazionale nell'idea del divino e il suo rapporto col razionale, tr. it. Zanichelli, Bologna 1926, p. 49.

[10] P. Radin, C. G. Jung, K. Kerényi, Il briccone divino, tr. it. Bompiani, Milano 1965, p. 25.

[11] Ibid., p. 184.

[12] Ibid., p. 187.

[13] Ibid., p. 188.

[14] G. Agamben, Pulcinella ovvero Divertimento per li regazzi, Nottetempo, Roma 2015, p. 113.

[15] P. Radin, C. G. Jung, K. Kerényi, op. cit., p. 189.

[16] G. Agamben, Pulcinella, cit., p. 123.

[17] Ibid.

[18] Ibid., p 61.

[19] Ibid., p. 77.

[20] H. Plessner, Il riso e il pianto. Una ricerca sui limiti del comportamento umano, tr. it. Bompiani, Milano 2007, p. 31.

[21] D. Scafoglio, L.M. Lombardi Satriani, op. cit., p. 109.

[22] Ibid., p. 108.

[23] H. Plessner, op. cit., p. 112.

[24] D. Scafoglio, L.M. Lombardi Satriani, op. cit., p. 109.

[25] G. Agamben, Pulcinella, cit., p. 14.

[26] R. De Maio, Pulcinella. Il filosofo che fu chiamato pazzo, Sansoni Editore, Firenze 1989, p. 30.

[27] Ibid., p. 2.

[28] Ibid., p. 3.

[29] Si cfr. W.Benjamin, Immagini di città, tr. it. Einaudi, Torino 2007.

[30] G. Agamben, Pulcinella, cit., p. 45.

[31] D. Scafoglio, L. M. Lombardi Satriani, op. cit., p. 111.

[32] G. Agamben, Pulcinella, cit., p. 72.

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