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L’immagine dell’uomo in Durkheim e Mauss: perché ci riguarda

Autore


Delio Salottolo

Università di Napoli "L'Orientale"

Indice


 

  1. Introduzione. Posizione del problema
  2. Il piano delle rappresentazioni collettive
  3. L’uomo a tre dimensioni
  4. Note conclusive

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S&F_n. 16_2016

Abstract


The human Image in Durkheim and Mauss: the Reasons why it may concern us


In this paper we intend to analyse the topic of the image of man in the sociology of Durkheim and Mauss. The idea is that this topic is crucial to understand some aspects of the contemporary world and the fundamental question is intentionally ironic: who came first the man or the social? The path that we will follow is divided into three stages: first, we will analyse the position of the problem and why the question on the social appears with modernity; second, we will approach the thought of Durkheim and the key issue of the collective representations (in connection with the device of the unconscious and history); finally, we will examine the question of man in three dimensions and anthropological synthesis in Mauss. The brief conclusions explain why this path concerns everyone.


  1. Introduzione. Posizione del problema

Si intende qui attraversare una delle pagine più importanti della storia delle idee della fine del XIX e degli inizi del XX secolo, il momento della nascita e dello sviluppo delle scienze sociali e l’immagine dell’uomo che ne deriva nella riflessione di Durkheim prima e Mauss dopo – il tutto cercando di mostrare come quell’insieme di discussioni, riflessioni, incontri e scontri, ci riguardino ancora oggi a distanza di circa un secolo. È un dato di fatto che le esperienze di pensiero che attraversano la stagione aurorale della sociologia – dalla definizione del suo metodo (in relazione a quello delle scienze naturali) alla relazione con la psicologia, passando, infine, per la determinazione della sintesi antropologica – abbiano un’importanza ancora decisiva nel nostro tempo: le domande alle quali si fatica sempre di più a dare risposta riguardano proprio la posizione dell’uomo nel mondo naturale e nel mondo sociale, quale sia il suo ruolo in assoluto e il ruolo di ogni singolo individuo, come avvenga la formazione della soggettività, e quale rapporto, insomma, vi sia fra individuale e sociale nella costruzione dell’identità umana. Dobbiamo, però, porci una questione preliminare – e questo è il senso di questo studio – e si tratta della domanda che sembra leggersi in controluce all’interno delle prime forme di analisi della sociologia francese, e questa interrogazione è necessario porla a partire dalla rivoluzione della modernità (rivoluzione economico-sociale, innanzitutto, poi anche giuridico-politica e filosofico-soggettivistica) e può riassumersi in questa forma molto “semplice” e (volutamente) naïf: è nato prima l’uomo o il sociale? Si tratta, ovviamente, di giocare con un vecchio modo di dire, ma è anche vero che le due domande che caratterizzano la modernità matura – quella per intenderci post-rivoluzione francese – non possono che essere le seguenti: da un lato che cos’è l’uomo – e su questo punto Foucault, appoggiandosi al Kant dell’Antropologia (e della Logica) ma proseguendo in assoluta autonomia, ne ha identificato le intensità e le emergenze[1] – e dall’altro cos’è la società – ed è su questo punto che si innestano le scienze sociali, partendo dal presupposto che una domanda sulla dimensione del sociale a partire dalla differenziazione non può che essere in stretta connessione con le rivoluzioni della modernità[2]. Con questo intendiamo dire semplicemente che, per quanto riguarda la genealogia delle scienze sociali e, in particolar modo, per l’immagine dell’uomo che ne viene fuori, non è utile utilizzare la dinamica dei precursori, secondo le indicazioni (se vogliamo) metodologiche dell’epistemologia storica di Canguilhem[3] e del post-strutturalismo di Foucault[4]: la volontà intellettuale di costruire un sapere scientifico sulla società è strettamente connessa – e ne rappresenta una delle forme di emergenza fondamentali – al regime di sapere della modernità matura; e così se è vero che anche precedentemente sono state prodotte riflessioni sulla costituzione della comunità politica e sulla costruzione dell’immagine umana all’interno di essa, è almeno altrettanto giusto affermare che la dimensione del sociale (con le sue contraddizioni fondamentali e fondanti le scienze sociali – dalla sociologia francese di Durkheim a quella tedesca di Simmel) non era comunque ancora emersa. Ci troviamo, allora, in un momento decisivo nella costruzione della mappa dei saperi della nostra epoca e le scienze sociali rappresentano un osservatorio privilegiato per lo studio e l’analisi di questi fenomeni e di queste trasformazioni. Insomma, la verità è che le due domande, che cos’è l’uomo e che cos’è la società, mostrano la propria complessità proprio nel momento in cui si intrecciano – ma la questione veramente importante è che, nella modernità matura, queste due inchieste non solo si intrecciano ma devono intrecciarsi. Se l’uomo è davvero un animale politico (come diceva Aristotele) oppure sia assolutamente un egoista impaurito e aggressivo (come voleva, invece, Hobbes), se, dunque, l’immagine dell’uomo debba analizzarsi a partire dall’individuo o dalla società, al di là della dimensione del contratto, il tutto muovendo dalle trasformazioni economiche e sociali della rivoluzione capitalistica, questo significa entrare pienamente nel mondo delle idee e nella mentalità della modernità matura e questo breve intervento – muovendosi in questa direzione – intende maggiormente porre problemi che non tentare soluzioni.

Insomma, se l’interrogazione sull’uomo muta – o si propone in maniera assolutamente rinnovata dopo la cesura fondamentale della modernità e come centrale nell’insieme degli enunciati filosofico-scientifici della nostra epoca – è perché, come racconta il primo Foucault, cambia completamente il quadro di riferimento e, tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo, sono avvenute una serie di trasformazioni nei regimi di pensabilità e di dicibilità, smottamenti che avrebbero prodotto un riassestarsi dei saperi intorno alla figura dell’uomo, un tempo non centrale. Ma perché, appunto, diviene centrale? E perché, contemporaneamente, nasce l’interrogazione sul sociale? L’espressione fintamente ironica “è nato prima l’uomo o il sociale?” significa proprio sottolineare un aspetto determinante della modernità matura: il problema dell’origine.

 

  1. Il piano delle rappresentazioni collettive

Durkheim sembra riprendere una delle più antiche e consolidate interpretazioni del fenomeno umano che la tradizione occidentale e non solo ci ha lasciato: la «dualità costituzionale della natura umana»[5]. Eppure, il quadro di riferimento e il regime discorsivo all’interno del quale si posiziona la riflessione di colui che può essere considerato il vero fondatore della sociologia risulta essere profondamente mutato: la “classica” contrapposizione natura/cultura si identifica mediante l’utilizzazione di due dispositivi propri della modernità matura, l’inconscio e la storia. La riflessione di Durkheim parte, infatti, da un dato di fatto empirico e cioè che «una credenza così universale e permanente non potrebbe essere puramente illusoria» e per spiegare il motivo per cui «in tutte le civiltà conosciute, l’uomo si sente duplice, è necessario che vi sia in lui qualcosa che ha dato vita a questo sentimento»[6]. A questo punto, nel fondamentale saggio in questione, Il dualismo della natura umana e le sue condizioni sociali, Durkheim effettua una vera e propria ricostruzione genealogica di questa problematizzazione all’interno delle tradizioni di pensiero più consolidate e che possono richiamarsi, sempre in via tipologica, alle due “scuole” dell’empirismo e dell’idealismo. Il dispositivo della storia interviene nel momento in cui è necessario chiedersi: «noi oggi sappiamo che il nostro organismo è il prodotto di una genesi, perché dovrebbe essere altrimenti per la nostra costituzione psichica?»[7]. Ma come opera questo dispositivo? In realtà, si tratta di uno dei grandi problemi che accompagna le scienze sociali e, successivamente, le scienze antropologiche (che vorrebbero funzionare da sintesi tra sociologia e psicologia): la descrizione della società e dell’uomo, spesso, sono condotte in via strutturale (laddove non va utilizzato il termine strutturalismo nel significato specifico che ha assunto a cavallo tra la prima e la seconda metà del XX secolo, ma come intuizione e intenzione del mondo delle idee della modernità occidentale), seguendo per così dire il principio della statica sociale; eppure, per comprendere la differenza specifica che assume una determinata possibilità di descrizione – nonché la dinamica sociale – deve intervenire necessariamente la storia. La questione è davvero complessa e incrocia un insieme di problemi che rappresentano il tessuto del nostro tempo: innanzitutto, qual è la storia che si addice meglio al racconto della società? E, ancor di più, qual è la storia più adatta alla descrizione del fenomeno umano? In Durkheim, che come ogni fondatore è ricco di contraddizioni produttive, da un lato assistiamo al ricorso al dispositivo storico, seppur ridotto alla sua forma tipologica, dall’altro non possiamo non notare un’esigenza di analisi strutturale della relazione tra uomo e società. In effetti, il dispositivo dell’immagine dell’uomo in Durkheim funziona in questo modo: da un lato, mediante la determinazione di ciò che egli chiama rappresentazioni collettive che guidano e “costringono” gli uomini alla solidarietà, dall’altro mediante la definizione di un percorso che la vicenda umana dell’uomo starebbe attraversando. È chiaro, comunque, che in Durkheim abbia maggiore valenza la dimensione strutturale rispetto a quella storica, il tutto determinandosi all’interno di un percorso a ritroso, volto a porre la domanda storica fondamentale che attraversa la modernità, quella riguardante l’origine – ma la ricerca dell’origine diviene essa stessa tentativo di racconto della struttura a-temporale dell’uomo: questa la complessità fondamentale. Insomma, la contraddizione tra storia e struttura, in questa sua forma aurorale, si gioca proprio all’interno di un dispositivo che da un lato intende raccontare la forma strutturale di funzionamento dell’umano, dall’altro non può farlo se non indietreggiando verso una presunta origine storica. Il movimento di pensiero di Durkheim, in questo senso, è assolutamente paradigmatico: la sua prima opera[8], infatti, analizza la questione della solidarietà sociale all’interno delle società contemporanee, nella loro differenza con le società cosiddette “primitive” o “arcaiche” lungo la linea del tempo – dunque ci troviamo dinanzi a una spiegazione che ha al proprio centro la problematizzazione storica del presente; l’ultima opera[9], invece, analizza le forme della mentalità religiosa, ritrovando, attraverso un meccanismo di ritorno all’origine, la spiegazione delle caratteristiche della società moderna e dell’uomo tout court. Ma la dicotomia tra storia e struttura si ripresenta anche alla luce del dispositivo dell’inconscio. Al di là della definizione della problematizzazione in Freud, è chiaro come questa questione – il fatto che l’uomo non domini in maniera consapevole tutte le sue rappresentazioni – fosse già presente e circolasse nel XIX secolo. Quando, infatti, Durkheim parla di rappresentazioni collettive non può che riferirsi all’ambito dell’inconscio individuale, come maniera mediante la quale questi elementi trascendenti funzionano all’interno del singolo individuo, e dell’inconscio collettivo, come forma di produzione comunitaria, senza soggetto e che si posiziona in un luogo altro rispetto alla coscienza che una comunità ha di se stessa: tutto ciò conduce a un’altra contraddizione fondamentale, com’è possibile una rappresentazione senza soggetto? Chi è il soggetto che rappresenta le rappresentazioni collettive? Ha ancora un senso ritenere che l’uomo sia innanzitutto un individuo e poi un essere sociale? Chi viene prima, l’uomo o la società?

La duplicità della natura umana raccontata da Durkheim, dunque, ha a che vedere con il rapporto tra rappresentazioni individuali e rappresentazioni collettive, ma il problema è che la duplicità non sempre viene manifestata come assolutamente irriducibile, il che ne stempererebbe la stessa dimensione di spiegazione. Insomma, all’interno dell’individuo, preso singolarmente, si dibattono da un lato le rappresentazioni individuali – connesse, come dice in più parti Durkheim, al corpo dell’uomo[10] - e dall’altro le rappresentazioni collettive che «sono esterne alle coscienze individuali» per il fatto che «non derivano dagli individui presi isolatamente, ma dalla cooperazione» per cui «ognuno contribuisce all’elaborazione del risultato comune; ma i sentimenti privati diventano sociali soltanto incontrandosi con l’azione delle forze sui generis prodotte dall’associazione: per effetto di queste combinazioni e delle alterazioni reciproche che ne risultano essi diventano qualcosa d’altro»[11]. Il motivo per cui perlopiù obbediamo alle richieste sociali del nostro gruppo di appartenenza risiede nella forza di costrizione che queste rappresentazioni collettive producono sul e nel singolo individuo: questa forma di costrizione (contrainte) affonda, evidentemente, nella singola coscienza, e il soggetto ne è inconsapevole; la sua dimensione di funzionamento è, dunque, essenzialmente inconscia[12].

Ma l’immagine dell’uomo in Durkheim è complicata da un’evoluzione interna della sua riflessione alla quale non possiamo non fare cenno. Se vogliamo ragionare in chiave di “sistema” dobbiamo riflettere sul fatto che la descrizione del “sociale” in Durkheim si compone di tre dimensioni. La prima è quella della morfologia sociale che rappresenterebbe il substrato fondamentale del fatto sociale e che viene descritta in questi termini da Durkheim (ed è su questo aspetto che gli sono arrivate le accuse di materialismo, anche se, poi, gli arriveranno anche quelle di idealismo a partire proprio dalle rappresentazioni collettive – su questa ennesima contraddizione propria delle scienze sociali, nei limiti di questo scritto, non possiamo andare a fondo):

La vita sociale si basa su un substrato che è determinato nella sua grandezza come nella sua forma. Ciò che lo costituisce, è la massa degli individui che compongono la società, la maniera mediante la quale sono disposti sul suolo, la natura e la configurazione delle cose di ogni tipo che influenzano le relazioni collettive. A seconda che la popolazione è più o meno considerevole, più o meno densa, a seconda che essa sia concentrata nelle città o dispersa nelle campagne, a seconda del modo in cui le città e le case sono costruite, a seconda che lo spazio occupato dalla società sia più o meno esteso, a seconda che vi siano frontiere che lo limitano, vie di comunicazione che lo attraversano, etc., il sostrato sociale è differente. Da un altro lato, la costituzione di questo substrato influenza, direttamente o indirettamente, tutti i fenomeni sociali, allo stesso modo in cui tutti i fenomeni psichici sono in rapporti, mediati o immediati, con la costituzione del cervello[13].

 

In questo passaggio si chiarisce che la società e le rappresentazioni che gli individui se ne fanno sono influenzate da una specifica organizzazione dello spazio all’interno del quale si determinano non solo appunto le configurazioni sociali più o meno estese, più o meno dense, etc., ma anche – ed è questo l’aspetto materialista della riflessione di Durkheim – tutto ciò che si trova al di sopra di questo sostrato: comprese le istituzioni e le rappresentazioni[14]. L’immagine dell’uomo che ne viene fuori è quella, indubbiamente, di un essere determinato fino a un certo punto dall’ambiente all’interno del quale si trova a vivere e ad agire, nella stessa maniera – dice Durkheim – di come i nostri stati psichici sono sempre e comunque influenzati da una certa costituzione della massa cerebrale. Senza una certa morfologia cerebrale, per così dire, non vi sarebbe psiche (al di là che si ritenga che vi sia più o meno “libertà” nella costituzione degli stati psichici), così come senza una determinata morfologia sociale non si darebbero società né propriamente gli stessi individui (al di là che si ritenga che vi sia più o meno “libertà” nelle forme di costituzione del sociale e dell’individuale).

Questa la prima forma di determinazione dell’umano.

Ma il sociale si compone successivamente – e risalendo dal basso – anche delle istituzioni che lo governano e che vengono definite da Durkheim nei termini di pratiche e credenze che, a un certo punto e per motivazioni che si intrecciano con gli altri piani, si sono consolidate in norme: l’obbligatorietà di fondo che le caratterizzerebbe sarebbe connessa al fatto che riguardano un determinato “interesse”. Si tratta, in parole semplici, della sfera normativa del sociale e che riguarda non solo le norme strettamente giuridiche, ma anche i dogmi religiosi, i precetti morali, le forme che determinano le relazioni tra gli individui, come la struttura economica e i ruoli sociali dei singoli individui al suo interno, le convenzioni e i tabù linguistici, ma anche modelli di comportamento oramai codificati e, infine, usi e credenze di carattere collettivo. Ma, ancora una volta, il problema è quello della genesi di queste norme e che relazioni intrattengono con il substrato morfologico. Anche su questo punto, c’è grande difficoltà da parte di Durkheim a delineare un sistema di spiegazioni chiaro e coerente, soprattutto perché il sociologo rifiuta tutte le teorie utilitaristiche, da quelle classiche alle versioni sue contemporanee di Spencer, per cui l’origine delle istituzioni non può essere ritrovata né semplicemente nel fatto che siano “utili” né mediante la definizione di una dinamica allo stesso tempo individuale e sociale per cui determinati comportamenti, allo stesso tempo rivelando “utilità” e svelando la verità dell’uomo, si siano poi cristallizzati in norme – del resto, in questo modo, un’istituzione sarebbe necessariamente positiva nella misura in cui rivelerebbe un atteggiamento aurorale consolidatosi a tutto vantaggio dell’uomo. Per Durkheim, volendo essere diretti, le istituzioni non rappresentano la realizzazione dei fini umani né esprimono la natura a-temporale dell’uomo, esse hanno un’origine complessa che guarda verso il basso – sono determinate in una certa misura dalla specifica morfologia sociale di un determinato gruppo umano – e verso l’alto – sono determinate in una certa misura anche dalle rappresentazioni collettive che dominano la dimensione simbolica dell’umano. Certo, le istituzioni, nella percezione che ne possiamo avere, hanno perso rapporto con la loro origine sia morfologica che simbolica, ed è per questo che, per non cadere nelle tentazioni dell’utilitarismo, forma culturale tipica delle società capitalistiche avanzate a forte divisione del lavoro (con pericolo costante di anomia), per comprenderne il loro consolidarsi, non si può non riflettere sulla funzione che esse svolgono nell’insieme del fatto sociale. Ma il concetto di funzione non può essere forse interpretato nei termini di una forma di utilità? Non rischierebbe il sociologo di far rientrare dalla finestra ciò che era stato gentilmente accompagnato alla porta, e cioè l’individualismo e l’utilitarismo? La verità è che Durkheim ha cercato in ogni modo di difendere la sua idea di funzione da quella di utilità nella sua battaglia contro l’individualismo utilitaristico: l’istituzione ha sicuramente una funzione altrimenti non si spiegherebbe la permanenza di una certa configurazione sociale – dunque ha un dimensione di produzione collettiva, per così dire – mentre il dispositivo dell’utilitarismo parte sempre dall’individuo solitario che, per propria convenienza, produce una determinata configurazione mediante la dinamica del contratto e dell’interesse. In parole semplici: la funzione è necessariamente sociale, l’utile è necessariamente individuale. Nasce prima il sociale e poi l’uomo, probabilmente Una questione sulla quale non possiamo soffermarci riguarda intanto la dimensione della dinamica sociale: la descrizione durkheimiana determina e chiarisce la statica sociale, ma sulle forme di transizione o trasformazione – perché una determinata istituzione a un certo punto “finisca”, esaurisca la sua funzione e sopravvenga una nuova configurazione (per intenderci: il problema della rivoluzione) – il suo discorso risulta essere sicuramente carente. E anche questo è un sintomo del significato e del ruolo che assumono le scienze sociali nell’insieme dei saperi e delle pratiche della modernità matura e nella complessa fase storica della fine del XIX e degli inizi del XX secolo.

Tornando al nostro discorso, l’istituzione rappresenta la seconda determinazione dell’umano.

E, infine, troviamo le rappresentazioni collettive, intorno alle quali già ci siamo soffermati e che, nella loro distanza dalle rappresentazioni individuali, restituiscono la terza immagine di determinazione dell’umano: nel conflitto interiore che si sviluppa a partire dall’introiezione delle rappresentazioni collettive (con il loro potere di imporre determinazioni e formazioni), si definisce il disagio dell’individuo, disagio accresciuto – checché ne possano pensare i pensatori liberali suoi contemporanei – dal processo di differenziazione sociale e di divisione del lavoro che coltiva le pretese individualistiche dell’uomo e lo allontana dalla sua altra dimensione, quella sociale e collettiva. L’anomia è già sempre dietro l’angolo, in una società individualista, borghese e capitalista.

Per concludere questa rapida disamina, non si può non sottolineare un ulteriore aspetto che si ritrova proprio nell’ultima opera di Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, all’interno della quale si chiarisce (o, per meglio dire, si vorrebbe chiarire) qual è l’origine del dualismo umano: esso non sarebbe altro che il rispecchiamento che assume la partizione fondamentale del reale tra sacro e profano, laddove il mondo del sacro è il mondo del collettivo, mentre il mondo del profano rappresenta il mondo dell’individuo. A partire da questa duplicità, allo stesso tempo simbolica e spaziale, si configurerebbe il dualismo di una natura umana che guarda a se stessa e al proprio utile/bisogno (il profano dell’uomo, il suo corpo, i suoi bisogni) ma che non può che realizzarsi all’interno di rappresentazioni e istituzioni di carattere collettivo, che sono necessariamente trascendenti e vissute come forze superiori (religione) o immanenti (morale e diritto) ma che mantengono la forza di costrizione propria che proviene dall’appartenere a un mondo (il sociale, il collettivo) che eccede e sovrasta il singolo individuo.

 

  1. L’uomo a tre dimensioni

Tralasciando i rapporti di parentela e la vera e propria devozione che Mauss provava per Durkheim, possiamo dire che l’immagine dell’uomo che viene fuori dalla sua “sintesi antropologica” porti a una complessificazione del discorso e all’apertura di una nuova possibile visione, un passaggio dalla bidimensionalità (durkheimiana) alla tridimensionalità (maussiana). Per comprendere il clima culturale degli inizi del XX secolo, occorre sottolineare come le scienze umane, che si contendevano il discorso definitivo sull’uomo, fossero essenzialmente tre: la fisiologia – da Claude Bernard in poi e il problema della de-complessificazione del fenomeno umano; la psicologia descrittiva e l’incipiente psicanalisi; la sociologia durkheimiana che relegava il fisiologico e lo psicologico nella dimensione (per certi versi, squalificata e squalificabile) della rappresentazione individuale. Sullo sfondo, restava l’aurorale antropologia su base etnografica che sembrava, allo stesso tempo, raccontare un passato dell’uomo ma anche la sua struttura a-temporale più semplice ed evidente.

Marcel Mauss, sin dagli inizi della sua esperienza di pensiero, sembra muoversi nella direzione segnata dalla metodologia e dalla riflessione durkheimiana, ma cercando di scioglierne alcuni nodi e alcune contraddizioni, soprattutto quelli che sembravano avvolgere la fumosa questione del rapporto tra rappresentazione individuale e rappresentazione collettiva. Insomma, compare piano piano, nella riflessione di Mauss, la figura dell’uomo totale, vale a dire un’immagine che intende raccontare e descrivere la totalità indivisa dell’individuo socializzato. Il discorso del sociologo/antropologo, dunque, si muove alla ricerca della maniera attraverso la quale, nella complessità fisiologica e psicologica individuale, interviene il piano della socializzazione: la sociologia come scienza, nei suoi intenti, non deve soltanto spiegare la forma assunta dalle rappresentazioni collettive in relazione alla morfologia sociale e alle istituzioni (come voleva Durkheim), ma cercare di identificare, mediante la sintesi antropologica, la complessità vitale e sociale del fenomeno umano.

Mauss delinea questa immagine nel saggio Rapporti reali e pratici tra la psicologia e la sociologia, tentando di portare avanti il discorso di Durkheim, ma aprendo a un confronto con le istanze della psicologia. Si tratta di un discorso per certi versi necessario sia dal punto di vista accademico (definire i rapporti tra scienze umane e scienze sociali), sia per la definizione delle aperture teoriche necessarie alla produzione di una descrizione quanto più complessiva è possibile (e meno contraddittoria è possibile) del fenomeno umano:

L’uomo totale. Sia che studiamo fatti speciali o fatti generali, abbiamo sempre da fare, in fondo, con l’uomo completo, come vi ho già detto. Ritmi e simboli, per esempio, non impegnano semplicemente le facoltà estetiche e immaginative dell’uomo, ma anche tutto il suo corpo e tutta la sua anima, a un tempo. Nella società stessa, quando studiamo un fatto speciale, abbiamo da fare con il complesso psico-fisiologico totale[15].

 

In realtà, in questo saggio, Mauss sembra allo stesso tempo aprire alla psicologia ma anche restituirle, in maniera perentoria, quello che riteneva dovesse essere il suo luogo specifico: in parole semplici, fermo restando l’idea di una totalità dell’individuo socializzato, il sociologo francese sembra dire che soltanto la sociologia, divenuta antropologia, può rendere conto del perché della complessità umana. La psicologia e la fisiologia sono fondamentali, ma soltanto nella misura in cui possono rendere conto e accrescere la problematizzazione degli effetti della socializzazione, ed è per questo che la battaglia culturale tra le scienze dell’uomo sembra essere stemperata soltanto nella forma: la centralità è data comunque alla dimensione sociale e non alla dimensione individuale.

Mauss porta avanti il suo programma soprattutto all’interno di alcuni saggi brevi di grande importanza e dal forte impatto culturale.

Il saggio Effetto fisico nell’individuo dell’idea di morte suggerita dalla collettività del 1926 intende andare proprio in questa direzione. Si tratta del più classico degli studi antropologici di scuola francese, dove, a partire da riflessioni di carattere descrittivo e basate su resoconti di etnografi, si intende andare oltre l’immagine meramente empirica per muoversi nella direzione di una descrizione del fenomeno umano tout court: sullo sfondo, l’idea che il “primitivo”, nella sua maggiore semplicità, possa fornire, come in uno specchio, l’immagine esatta della struttura dell’uomo, anche del “civilizzato”, nel quale, a causa dell’individualismo utilitaristico della modernità capitalistica, sembra divenire più complessa l’identificazione dell’immagine di uomo totale.

Il punto di partenza è il seguente:

Prenderemo in considerazione, perciò, soltanto i casi in cui l’uomo che muore non crede o non sa di essere malato, ma crede soltanto di trovarsi in uno stato prossimo alla morte per cause precise di natura collettiva. Questo stato coincide generalmente con una rottura della comunione, causata sia da magia sia da peccato, con le potenze e le cose sacre la cui presenza, normalmente, serve a sostenerlo. La coscienza è allora interamente invasa da idee e sentimenti che sono interamente di origine collettiva e che non tradiscono alcun disturbo fisico[16].

 

Nel nostro discorso non intendiamo raccontare e descrivere con dovizia di particolari quali siano le esperienze etnografiche di cui discute Mauss: si tratta di fatti australiani e di fatti neozelandesi e polinesiani all’interno dei quali si racconta come alcuni individui, avendo trasgredito determinati tabù di carattere sociale (dal mangiare l’animale proibito all’essere vittima di incantesimi), si lascino realmente morire e la fisiologia li accompagni verso la fine senza alcuna eziologia possibile connessa a un funzionamento patologico dell’organismo.

Secondo Marcel Mauss, questi resoconti non mostrano un “primitivismo” – la schiavitù del “selvaggio” nei confronti di forze magiche inesistenti – ma rivelano una struttura fondamentale del funzionamento del fenomeno umano, anche del “civilizzato”: il fatto che la dimensione sociale (quelle che Durkheim chiamava il piano delle rappresentazioni collettive) riesca a raggiungere in profondità anche i meccanismi di funzionamento fisiologico del corpo umano. Nelle conclusioni del saggio, Mauss si rivolge allo stesso tempo agli psicologi e ai sociologi (di scuola durkheimiana) e la sua presa di posizione risulta essere illuminante per il nostro percorso. Ai primi dice, chiaramente, che è impossibile spiegare in termini esclusivamente fisiologici, esclusivamente psicologici o anche psico-fisiologici la morte verso cui si lasciano andare questi individui – non basta, innanzitutto, la fisiologia, nella misura in cui si tratta di individui assolutamente sani e che, in alcuni casi, riacquisiscono la salute grazie a un incantesimo (o a un’altra tipologia di intervento) che li riporta all’interno del consenso sociale; non basta, poi, la psicologia perché l’individuo che si trova in quella determinata condizione non risponde più pienamente del controllo della propria personalità; e, infine, risulta essere inutile cercare il luogo di confluenza tra fisiologico e psicologico all’interno della costituzione psico-fisica individuale, perché si darebbe una descrizione monca della complessità umana. Ai sociologi (di scuola durkheimiana) dice invece che la vita associata, essa sola, non può rendere conto in maniera complessiva di quanto accade all’interno della psiche di questi uomini e che il piano delle rappresentazioni collettive non può spiegare, esso solo, come possa una “condanna sociale” portare alla morte dell’individuo.

Il punto centrale della riflessione, dunque, è il seguente: da un lato ribadire comunque la centralità del discorso sociologico (perché è ciò che manca nelle spiegazioni di carattere psicologico e fisiologico e, allo stesso tempo, è ciò che riesce a chiarirn

e l’intero dispositivo) e dall’altro raccontare di un fenomeno umano che si definisce dall’incontro e, a volte, lo scontro tra tre dimensioni, quella fisiologica, quella psicologica e quella sociale. Mauss, nelle conclusioni, rende un nuovo omaggio a Durkheim, sottolineando come questi fatti non rappresentino altro che delle conferme della sua immagine dell’homo duplex, ma è chiaro che si tratti niente più che di una forma di rispetto nei confronti di un maestro scomparso da non molto tempo e di cui si sente ancora il peso accademico e teorico. È possibile, comunque, affermare che, con Mauss, si abbia davvero il dominio della dimensione sociale nell’immagine dell’uomo: se in Durkheim, infatti, la differenza di natura tra le due dimensioni manteneva in vita una certa distanza e una dicotomia tra il piano individuale e il piano della socializzazione, con Marcel Mauss, di fatto, anche la fisiologia diviene qualcosa da affrontare in termini sociologici. L’intuizione aurorale di Comte circa il passaggio dalla biocrazia alla sociocrazia e degli stretti legami tra l’ultima arrivata tra le scienze naturali e la vera scienza definitiva dell’uomo sembra raggiungere la sua forma più fulgida. Ma per compiere un ulteriore passo nella definizione della tridimensionalità umana, occorre discutere un altro saggio di Mauss, sempre molto breve (e illuminante): Le tecniche del corpo.

Innanzitutto, la definizione: «intendo con questa espressione [tecniche del corpo] i modi in cui gli uomini, nelle diverse società, si servono, uniformandosi alla tradizione, del loro corpo»[17]. Si tratta sicuramente di uno studio che ha avuto un’importantissima funzione non solo nello svolgimento della riflessione maussiana, ma anche per il procedere delle scienze umane e sociali. Se anche in Durkheim vi era stata l’intuizione della funzione del corpo come centrale all’interno della dimensione rappresentativa individuale dell’umano, è soltanto con Mauss che si inizia a parlare di tecniche in senso stretto connesse alla corporeità. Cosa significa? Già l’espressione sembra indicare un superamento del paradigma della duplicità umana: il termine “tecnica” non può che richiamare a una dimensione culturale, mentre il “corpo” sembra rappresentare quanto di più fisiologico e biologico, dunque naturale, vi sia nell’umano; ebbene, l’impatto che hanno le rappresentazioni collettive – o, in genere, la dimensione sociale e l’educazione (che è il tramite mediante il quale si riproduce) – sulla dimensione corporale dell’uomo ha aperto a una nuova immagine dell’uomo e rappresenta la sua definizione più tipica nell’intera riflessione francese del XX secolo: se un filosofo come Foucault ha potuto parlare di dispositivi di disciplinamento per l’organizzazione dei corpi nella modernità, o se un Bourdieu ha potuto introdurre la nozione complessa di habitus, tutto questo dipende indubbiamente da queste intuizioni maussiane. 

Il sociologo francese, nel saggio in questione, discute alcune esperienze quotidiane di cui è stato spettatore o partecipe: innanzitutto, il cambiamento nelle tecniche del nuoto e i modi di insegnarle ai bambini; in secondo luogo, la differenza nei modi di zappare la terra tra francesi e inglesi (che ha avuto modo di notare durante la guerra); infine, la marcia, il modo di camminare, le posizioni della mano e la corsa. «Ho avuto, dunque, per molti anni la nozione della natura sociale dell’habitus» dice Mauss «e io conclusi che non si poteva avere una visione chiara di tutti questi fatti, della corsa, del nuoto, ecc., se non si faceva intervenire una triplice considerazione al posto di una considerazione unica, fosse essa meccanica e fisica, come una teoria anatomica e psicologica della marcia, o fosse, al contrario, psicologica o sociologica. È il triplice punto di vista dell’”uomo totale” che è necessario»[18].

Ma perché le tecniche del corpo assumono questa importanza e possono aiutare a rivelare la complessità del fenomeno umano? Mauss ci tiene a precisare che una tecnica del corpo, per essere davvero tale, deve essere sentita dal soggetto che la mette in atto come un qualcosa di automatico; del resto, il modo di zappare si apprende attraverso una tradizione e quando si compie il gesto lo si compie come se fosse una cosa naturale. Ma la tecnica, al di là che la si applichi al proprio corpo o a oggetti e cose al di fuori della nostra unità psico-fisica, sono tali soltanto se sono tradizionali ed efficaci: con questo, Mauss intende dire che non esistono tecniche se non c’è trasmissione e tradizione sociale, in parole semplici se non c’è una determinata educazione (o disciplinamento – come si sarebbe iniziato a dire a partire dagli anni ‘50 e ‘60).

E ancora una volta la “gestione” del corpo non è una questione individuale, ma sociale, il corpo dell’uomo è già sempre attraversato da correnti sociali:

Il corpo è il primo e il più naturale strumento dell’uomo. O, più esattamente, senza parlare di strumento, il corpo è il primo e più naturale oggetto tecnico e, nello stesso tempo, mezzo tecnico, dell’uomo […] Prima delle tecniche basate sugli strumenti, c’è l’insieme delle tecniche del corpo. Io non esagero l’importanza di questo genere di lavoro, lavoro di tassonomia psico-sociologica. […] L’adattamento costante a uno scopo fisico, meccanico, chimico (quando beviamo, per esempio) viene perseguito attraverso una serie di atti collegati non semplicemente dall’individuo, ma da tutta la sua educazione, da tutta la società di cui fa parte, nel posto che egli vi occupa[19].

 

La discussione di Mauss, dunque, identifica due passaggi decisivi. Il primo riguarda ancora una volta i rapporti tra psicologia e sociologia: nel passaggio da biologico a sociale (che per Comte doveva essere immediato e senza passaggio per il piano individuale), afferma il sociologo, interviene anche la psicologia, ma soltanto come ingranaggio e non come causa. Cosa significa? Che soltanto nei periodi (rari) di invenzione, vi è l’intervento della dimensione individuale come fondamentale, perché, attraverso l’educazione, la maggior parte delle nostre posture fisiologiche e biologiche sono caratterizzate dalla vita in comune, dal contatto con gli altri uomini, dai dispositivi di socializzazione che invadono tutti gli aspetti della vita individuale. E la conclusione è tanto decisa quanto schietta: «non è grazie all’inconscio che si ha un intervento della società, ma è grazie alla società che si ha un intervento della coscienza. È grazie alla società che si ha sicurezza di movimenti pronti, dominio del cosciente sull’emozione e l’inconscio»[20].

 

  1. Note conclusive

Ed ecco allora che si chiarisce la tridimensionalità del fenomeno umano: i tre piani – il fisiologico, lo psicologico e il sociologico – rappresentano aspetti differenti della medesima unità psico-fisica dell’individuo; a intervenire, in ogni momento, sono tutti e tre i livelli, ma quello che ne determina il dispositivo di funzionamento e che orienta gli altri due è sempre il piano della società e del sociale. Le dicotomie storia/struttura e conscio/inconscio, in Mauss, si definiscono attraverso uno “spostamento” nei confronti dell’interrogazione del maestro Durkheim: non si tratta più di tenere separati i due piani dell’umano – la loro separazione essendo (come appunto dice Durkheim stesso!) l’immagine privilegiata che l’uomo in tutti i tempi e di tutte le culture ha voluto dare a se stesso – ma cercare di definirne le relazioni. La polarità fondamentale resta, se si vuole, quella comtiana: nell’immagine dell’uomo, a un capo troviamo la fisiologia e all’altro troviamo la società, lo psicologico servendo come meccanismo che permette la connessione e il passaggio da un polo all’altro dell’esperienza umana. Se la storia, dunque, diviene ancora più importante – ma sempre per definire la struttura dell’uomo –anche l’inconscio assume una funzione ancora più determinante nella riflessione maussiana, nella misura in cui è ciò che permette a una rappresentazione collettiva, estranea, superiore e ulteriore, di funzionare fin dentro i meccanismi più complessi dei tessuti organici.

Per concludere, l’immagine dell’uomo che viene fuori all’interno di questo percorso determinante guarda da vicino a tutte le problematizzazioni che stanno attraversando il nostro presente: cosa significa e a partire da cosa è possibile parlare di “identità” (i problemi che vanno sotto la rubrica di “sociologia della cultura”), qual è il ruolo della tradizione (e della sua invenzione), come si costruiscono le comunità e qual è il futuro dell’uomo e delle collettività che produce. L’emergenza (allo stesso tempo storica e concettuale) di questi problemi è possibile ritrovarla proprio in questa fase di cui abbiamo cercato di restituire un quadro, sicuramente parziale, ma comunque fondamentale e fondativo.

 


[1] Cfr. M. Foucault, Introduzione all’«Antropologia» di Kant (1961), in I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico, tr. it. Einaudi, Torino 2010. Sarebbe complesso ricostruire il rapporto tra Foucault e Kant in una nota: sottolineiamo, comunque, che il filosofo francese ritrova nel pensatore tedesco il punto di emergenza di una problematizzazione che riguarda non solo, archeologicamente, la nascita dell’oggetto di conoscenza “uomo”, ma anche una rinnovata relazione con il presente, basata su un’ontologia dell’attualità. Su questi aspetti, ci permettiamo di rinviare a D. Salottolo, Una vita radicalmente altra. Saggio sulla filosofia di Michel Foucault, Mimesis, Milano-Udine 2013.

[2] Non è il luogo per ricostruire la genealogia delle scienze sociali a partire dalla rivoluzione francese e seguendo l’asse che da Saint-Simon arriva fino a Durkheim. È un dato di fatto, però, che la rivoluzione economica, politica, giuridica e sociale che ha portato a una delle più importanti soglie nella storia dell’uomo moderno, la nascita e l’affermazione del sistema capitalistico, siano alla base delle riflessioni della nascente sociologia. La differenziazione sociale – come fenomeno nuovo – è centrale sia in Durkheim (cfr. La divisione del lavoro sociale (1893), tr. it. Edizioni di Comunità, Milano 1977) sia in Simmel (cfr. La differenziazione sociale (1890), tr. it. Laterza, Roma-Bari 1982).

[3] Cfr. G. Canguilhem, Il ruolo dell’epistemologia nella storiografia scientifica contemporanea, in Ideologia e razionalità nella storia delle scienze della vita (1977), tr. it. La Nuova Italia, Firenze 1992, pp. 1‐22.

[4] Cfr. M. Foucault, L’archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura (1969), tr. it. BUR, Milano 2005. Sulle questioni di carattere strettamente epistemologico, in connessione con gli ambienti culturali dell’epoca, cfr. M. Foucault, Due risposte all’epistemologia (1967-1968), tr. it. Lampugnani Nigri, Milano 1979.

[5] É. Durkheim, Il dualismo della natura umana e le sue condizioni sociali (1914), in La scienza sociale e l’azione, tr. it. il Saggiatore, Milano 1972, p. 344.

[6] Ibid., p. 345.

[7] Ibid., p. 354.

[8] Cfr. Id., La divisione del lavoro sociale, cit.

[9] Cfr. Id., Le forme elementari della vita religiosa (1912), tr. it. Edizioni di Comunità, Milano 1971.

[10] «Vi è da una parte la nostra individualità, e, più specificatamente, il nostro corpo che la fonda; dall’altra tutto ciò che in noi esprime altro da noi stessi» (Id., Il dualismo della natura umana e le sue condizioni sociali, cit., p. 347).

[11] Id., Rappresentazioni individuali e rappresentazioni collettive (1898), in Educazione come socializzazione, tr. it. La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 45.

[12] In realtà, Durkheim – e può essere utile sottolinearlo – ha parlato innanzitutto di coscienza collettiva, poi, intuendo evidentemente la dimensione inconscia del dispositivo di funzionamento della costrizione, ha parlato successivamente di rappresentazioni collettive. Il problema era fondamentalmente che il termine “coscienza” richiamava immediatamente una dimensione di consapevolezza, la quale non sembra poter essere presente completamente nell’uomo. Sulla questione cfr. K. Thompson, Émile Durkheim (1982), tr. it. Il Mulino, Bologna 1987, pp. 73-77.

[13] É. Durkheim, Morphologie sociale, in «L’Année Sociologique», 2, 1897-1898, pp. 520-521. È liberamente consultabile sul sito della BNF http://gallica.bnf.fr/ e la traduzione è nostra.

[14] Queste precisazioni di Durkheim hanno avuto un’importanza fondamentale per lo sviluppo della sociologia che ha, nel tempo, recepito queste indicazioni e si è dedicata successivamente all’elaborazione di riflessioni sullo spazio, la vita quotidiana, etc.

[15] M. Mauss, Rapporti reali e pratici tra la psicologia e la sociologia (1924), in Teoria generale della magia e altri saggi, tr. it. Einaudi, Torino 1991, p. 320.

[16] Id., Effetto fisico nell’individuo dell’idea di morte suggerita dalla collettività (Australia, Nuova Zelanda) (1926), tr. it. in Teoria generale della magia, cit., p. 331.

[17] Id., Le tecniche del corpo (1934), in Teoria generale della magia, cit., p. 385.

[18] Ibid., p. 389.

[19] Ibid., pp. 392-393.

[20] Ibid., p. 409.

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