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Spazio, tempo, sé: nuove ontologie digitali

Autore


Cristian Fuschetto

Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


1. Spettrali? Anche no 

2. Ontologia del supermercato  

3. Tempo tra iperstoria e programmabilità

4. Il sé

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S&F_n. 18_ 2017

Abstract


Space, Time, Self: new digital Ontologies


The digital is deeply transforming reality. This is much obvious and uncontroversial. The real questions are why, how, and so what. The digital “cuts and pastes” reality, in the sense that it couples, decouples, or recouples features of the world—and therefore our corresponding assumptions about them—which we never thought could be anything but indivisible and unchangeable. Self-identity and personal data have not always been glued together as indistinguishable as they are today, when we speak of personal identity of data subjects. he Internet is not a physical space, the physical space of geography, and the logical space of the digital. This is a new, variable “geometry” that we are still learning to manage.


1. Spazi spettrali? Anche no

Si dice che la rivoluzione digitale stia annullando spazio e tempo, più correttamente si dovrebbe dire che li reinventa. La compressione delle distanze, l’irrilevanza della geografia, l’“always on” come condizione esistenziale, la conquistata simultaneità di processi che nemmeno dieci anni fa avrebbero richiesto un consistente “jetlag” (il globo vale oggi la distanza di un tweet), tutto fa credere che i bit abbiano consumato il reale. Intellettuali di calibro come Manuel Castells, Douglas Rushkoff ancora Paul Virilio ci spiegano che viviamo l’epoca del “tempo senza tempo”[1], dell’“eterno adesso”[2] e della “tirannia del tempo reale”[3], astri nascenti della filosofia digitale come Byng-Chul Han, docente di Studi culturali all’Università Kunste di Berlino, arrivano addirittura ad additare la comunicazione digitale come l’ineffabile ancella di spazi spettrali. Han chiama in causa Kafka e spiega

Già la lettera appariva a Kafka un medium comunicativo disumano, che avrebbe prodotto nel mondo una spaventosa rovina delle anime. In una lettera a Milena scrive “Come sarà nata mai l’idea che gli uomini possono mettersi in contatto tra loro mediante lettere? A una creatura umana distante si può pensare e si può afferrare una creatura umana vicina, tutto il resto sorpassa le forze umane”.

La lettera si rivolgerebbe a dei fantasmi. […] La comunicazione postale – sentenzia il filosofo, senza peraltro far notare nemmeno en passant il raffinato paradosso di giudicare disumano un mezzo mentre lo si sta utilizzando – nutrirebbe solo fantasmi»[4]. Alla posta sono seguiti l’internet e le e-mail, smartphone e social network, cosucce che Kafka, secondo Han, giudicherebbe come “una nuova generazione di spettri, più voraci, spudorati e chiassosi”[5].

L’internet delle cose produce nuovi spettri: le cose che un tempo erano mute, cominciano a parlare. La comunicazione automatica tra le cose, che si attua senza alcun intervento umano, nutrirà sempre di più i fantasmi: essa rende il mondo spettrale. […] E’ possibile descrivere la storia della comunicazione come la storia di una progressiva illuminazione della pietra. Il medium ottico, che invia l’informazione alla velocità della luce, conclude definitivamente l’età della pietra della comunicazione. Lo stesso silicio rimanda al termine latino silex, che significa “ciottolo”[6].

A questo punto Han cita Heidegger (il che, considerati i toni non proprio gaudenti, un po’ ce lo aspettavamo).

In Martin Heidegger la pietra ritorna spesso come esempio prediletto della mera cosa, come qualcosa che si sottrae alla visibilità. […] La pietra come cosa è antagonista della visibilità, appartiene alla terra, all’ordinamento terraneo e indica ciò che è nascosto e chiuso. Oggi le cose perdono sempre più di significato: si sottomettono alle informazioni, che però nutrono sempre più i fantasmi. Il nostro ambiente diventa sempre più soft, nebuloso, spettrale[7].

Un mondo spettrale è un mondo vuoto, privato della sostanza di cui sono fatte le cose che danno peso a spazi terranei e perdurano nel tempo. Con l’avvento degli  smart objects sparirebbe dunque il perimetro esistenziale nel quale hanno finora preso forma le nostre vite. Oggetti intelligenti in costante connessione tra loro e distribuiti in ogni dove alterano la percezione della realtà fisica in cui in fin dei conti ci troviamo a campare, mettendo in crisi l’immagine cartesiana di una scatola geometrica in cui si muovono oggetti galileiani. Software, codici, algoritmi e sensori modificano radicalmente questo paesaggio creando nuove realtà con interfacce sempre meno visibili tra dimensione analogica e dimensione digitale. Carbonio e silicio si mescolano e non c’è molto da stupirsi se qualcuno, al cospetto di un’ibridazione tra mondi così lontani, lamenti lo smarrimento di certezze maturate in una porzione di realtà più familiare. Fatto sta che la liquidità dei bit sta colonizzando le meccanica della fisica e le geometrie degli spazi, ponendo condizioni di esistenza di mondi nuovi. Tutti già ampiamente avviati.

Solo per fare qualche esempio, un’auto di oggi incorpora molto più potere computazionale di quanto ne disponesse la Nasa per inviare astronauti sulla Luna nel 1969. Una automobile media oggi possiede più di 50 sistemi Ict, è in grado di monitorare e registrare eventi come lo stato del manto stradale, comunicarli in rete, processare i dati e adeguare in tempo reale il sistema di frenatura[8]. Siamo in auto, niente di nuovo, eppure è chiaro che lo spazio che abitiamo non è più quello fisico dell’abitacolo ma un ambiente esteso intessuto di informazioni. Siamo in quella che Luciano Floridi definisce un’“infosfera”.

Le nostre concezioni newtoniane riguardo alla natura ultima della realtà sono ancora newtoniane e appartengono alla modernità: siamo cresciuti con auto, edifici, arredamenti, abiti e ogni altra sorta di gadget o tecnologia a nostra disposizione che non erano interattivi o capaci di rispondere, comunicare, apprendere o memorizzare. Tuttavia il mondo offline di cui tuttora facciamo esperienza sta gradualmente diventando un ambiente costituito da processi informativi wireless diffusi, operanti in ogni luogo e in qualsiasi momento, in cui ogni oggetto è potenzialmente connesso a ogni altro[9].

2. Ontologia del supermercato

Cambia la prospettiva sulla natura ultima della realtà, non più materialistica ma informazionale, popolata da oggetti “privati della loro connotazione fisica per essere concepiti indipendentemente dal loro supporto materiale”[10]. Eccole qui le cose non-più-solo-cose che inquietano pensatori come Byng-Chul Han: gli “oggetti privati della loro connotazione fisica”. La pietra di Heidegger svanisce e manda in crisi ontologie spaziali e temporali alle quali avevamo intrecciato a doppio filo non solo il nostro modo di concepire il mondo, anche il nostro modo di concepirci umani[11]

Se dalla macchina ci spostiamo al supermercato la reinvenzione digitale dello spazio si fa ancora più evidente. Dal magazzino alle casse, ogni azione è computerizzata al punto tale da perdere senso nel caso in cui il software gestionale dovesse smettere di funzionare. Il codice spazializza il luogo al punto tale da renderlo quello che è. Se infatti il codice si spegne il luogo che conosciamo come un supermercato smette di essere un supermercato e diventa un semplice magazzino, un deposito di merci pressoché impossibili da vendere. Quando si dice che il codice ridefinisce l’ontologia dello spazio si intende nient’altro che questo.

L’immaterialità digitale reinventa luoghi e non potrebbe essere altrimenti. “In questa prospettiva lo spazio è una creazione in costante divenire ed è il codice software l’elemento chiave che produce continuativamente lo spazio e il suo senso”[12]. Gli studiosi di filosofia digitale chiamano l’atto generativo di spazio innescato da codici software con il termine “transduzione”. Siamo di fronte, anzi siamo dentro spazi transdotti perché viviamo in contesti le cui condizioni di esistenza dipendono da codici, scritture della realtà che trasformano in un divenire modulabile quel che abbiamo sempre immaginato newtonianamente come un dato assoluto o kantianamente come una categoria gnoseologica. L’informatizzazione degli artefatti genera una spazialità rinnovata, sintesi delle traiettorie computazionali disegnate da codice, sensori, algoritmi e una quantità crescente di dati. Si può dire che tutto questo conduca all’inaridimento del mondo e alla nascita uno spazio fantasmatico animato da spettri, si può tuttavia anche dire di assistere a mondi nuovi. Non aumentati ma nuovi. Lo spazio ridisegnato da Google Maps, per fare un altro esempio, non è semplicemente aumentato da informazioni, come se a uno spazio fisico si sovrapponesse uno spazio virtuale. Ragionare in termini addizionali porterebbe fuori strada perché significherebbe lasciare immutate le due spazialità, materiale e immateriale, del luogo fisico in cui mi trovo e del luogo esteso che invece abito. Il fatto che le condizioni di esistenza di uno spazio (per esempio l’abitacolo di un’automobile, un supermercato, la strada che percorro guidato da Google Maps) dipendano dal funzionamento di un codice attesta che quel codice crea una spazialità inedita, non più scomponibile tra porzione fisica e porzione digitale.  

3. Tempo tra iperstoria e programmabilità

La digitalizzazione del mondo, insieme allo spazio, reinventa anche il tempo. In riferimento alle tecnologie di codificazione delle informazioni, Floridi introduce per esempio il concetto di “iperstoria” per indicare l’epoca  dell’infosfera rispetto a quella storica e preistorica. L’era della iperstoria può essere descritta come l’ultima tappa di un missile a tre stadi che caratterizza l’evoluzione umana:

La preistoria in cui non ci sono ICT; la storia, in cui ci sono ICT che registrano e trasmettono informazioni ma le società umane dipendono principalmente da altre tipologie di tecnologie che riguardano le risorse primarie e l’energia; l’iperstoria, in cui ci sono ICT che registrano, trasmettono e soprattutto processano informazioni, in modo sempre più autonomo, e in cui le società umane dipendono in modo cruciale dalle ICT e dall’informazione in quanto risorsa essenziale per la loro stessa crescita[13]

Ma prima ancora che la dimensione storica del tempo, il codice modifica la dimensione esistenziale della temporalità. Sensori, algoritmi, software intercettano e processano dati in anticipo rispetto ai nostri sensi in modo da restituirci un mondo di fatto attingibile solo in un secondo momento dalla nostra percezione e coscienza. Hansen parla di “presente operazionale della sensibilità” e spiega che il presente degli uomini è diverso da quello delle macchine:

Gli odierni micro sensori computazionali inaugurano l’operazione di un nuovo livello dell’essere presente che insieme supplementa e supera il ruolo centrale e privilegiato, storicamente giocato dalla coscienza come agente dell’essere presenti[14].

In parole un po’ meno criptiche Hansen vuol dire che la realtà percepita dagli uomini tende a essere progressivamente una realtà precedentemente sensorizzata da sistemi di intelligenza artificiale. Rispetto al già noto scarto temporale che contraddistingue il momento dell’attivazione cerebrale rispetto a quello della consapevolezza, transita in questa prospettiva fuori dalla neurofisiologia per essere assimilato da tecnologie digitali. Quando utilizzo Google Maps (oltre allo spazio Big G modifica ance il tempo) la realtà con cui faccio i conti è mediata da tecnologie che producono un nuovo tappeto sensoriale che mi permette di muovermi.

Il ritardo neuronale tra i nostri sensi e la coscienza (neuronal delay) diventa un ritardo tecnologico (technical delay) programmabile. Interessante notare come questo ritardo, proprio perché programmabile, ha un carattere anticipatorio. Le compagnie aeree, per esempio, fanno un larghissimo uso di predictive analytics per ottimizzare costi imprevisti dovuti a problemi nella gestione del traffico dovuti a condizioni meteo o interventi di manutenzione straordinaria. Decisioni e strategie di intervento della compagnia, vale a dire azioni che coinvolgono centinaia di persone, sono quindi basate su un presente processato da tecnologie che guardano al futuro. C’è chi parla di una vocazione precognitiva delle tecnologie del XXI secolo. Assistiamo a una “spinta verso un tempo anticipato operazionalizzato da sensori e nuove tecnologie di processa mento dei dati raccolti da intelligenze artificiali”[15]. Espressione di questo trend è per esempio il crescente successo dell’anticipatory design, l’insieme di processi che quotidianamente ci profila per agevolare preferenze, progetti, gusti. Ci muoviamo in una temporalità rinnovata da ambienti informatizzati.

4. Il sé

Cambia lo spazio, muta il tempo, si trasforma per forza di cose anche la soggettività. In contesti risemantizzati dal digitale la questione della soggettività non può più continuare a essere considerata in termini analogici. Occorre ripensare l’identità alla luce della programmabilità del reale. A partire da Alan Turing (cos’è l’Imitation Game se non il superamento dell’antropologia umanistica di Cartesio, Newton e Kant?) emerge con forza la possibilità di interpretare gli uomini non più o comunque non solo come agenti unici e isolati, ma come organismi informazionali connessi ad altri agenti, siano essi umani o artificiali. Volendo azzardare una formula per tracciare passaggi filosofici epocali a proposito della definizione del reale, si potrebbe dire che l’interazione è oggi quel che per i moderni è stata la percezione (“Esse est percipi”, spiegava il reverendo George Berkeley) e per i medievali l’immutabilità (“Esse est unum” sentenziava San Tommaso d’Aquino).

Ora, l’interazione non riguarda esclusivamente le cose o gli uomini, investe piuttosto cose e uomini.  “Stiamo accettando l'idea di non essere i soli e unici Robinson Crusoe su un'isola bensì Inforgs, organismi informazionali reciprocamente connessi in un ambiente (infosfera) che condividiamo con altri organismi sia naturali sia artificiali, che processano informazioni logicamente e autonomamente” [16]. Inforgs non fa rima con cyborgs: nessuna umanità geneticamente modificata, abbiamo a che fare con qualcosa di più perché cambia non il Dna ma la nostra concezione di cosa significhi essere umani.

La soggettività deve essere concettualizzata come possibilità sensoriali emergenti dentro ambienti mediali e reti. Nelle nostre interazioni con i media atmosferici del XXI secolo, non possiamo più concepire noi stessi come soggetti quasi autonomi, separati da oggetti mediali distinti; siamo noi stessi composti in quanto soggetti di processi multi-scalari, alcuni dei quali sembrano più incorporati (processamento neurale) e altri più in-mondati (sincronizzazione ritmica con eventi materiali)[17].

Ci sono cose che processiamo grazie alla sola dotazione biologica, altre che processiamo per mezzo di strumenti digitali, altre ancora che processiamo solo dopo un processamento tecnologico, altre ancora che non comprenderemmo affatto se non grazie all’interazione con altri agenti (non strumenti ma vere e proprie soggettività) artificiali. La risignificazione dello spazio e del tempo porta con sé una risignificazione della soggettività non circoscritta all’umano. Vaste programme. Prima dell’esplosione del digitale così come oggi lo conosciamo, Bruno Latour centrava la questione con parole che ricordare. «Dove sono i Mounier delle macchine, i Lévinas degli animali, i Ricoeur dei fatti? L’umano, ormai lo comprendiamo, non si può cogliere e salvare senza restituirgli quell’altra metà di sé, la parte delle cose. Finché l’umanesimo nasce dal contrasto con l’oggetto lasciato all’epistemologia, non possiamo comprendere né l’umano né il non umano»[18].

 

 


[1] Cfr. M. Castells, L' età dell'informazione: economia, società, cultura (1996), tr. it. Università Bocconi Editore, Milano 2004.

[2] D. Rushkoff, Presente continuo. Quando tutto accade ora (2013), tr. it. Codice, Torino 2014.

[3] P. Virilio, La velocità di liberazione (1995), tr. it. Mimesis, Milano 2000.

[4] B. Han, Nello sciame. Visioni del digitale (2013), tr. it. Nottetempo, Roma 2015, p. 71.

[5] Ibid., p. 72.

[6] Ibid.

[7] Ibid., p. 73.

[8] Cfr. L. Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo (2014), tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2017, p. 9.

[9] Ibid., p. 53.

[10] Ibid., p. 55.

[11] Cfr. M. Heidegger, Lettera sull’umanismo (1946), tr. it Adelphi, Milano 1995.

[12] C. Accoto, Il mondo dato, Egea, Milano 2017, p. 90.

[13] L. Floridi, op. cit., p. 7.

[14] M. B. N. Hansen, Feed-Forward. On the Future of Tweenty-First Century Media, Chicago 2015, p. 192.

[15] C. Accoto, op. cit., p. 87.

[16] Cfr. L. Floridi, op. cit., p. 106.

[17]M. B. N. Hansen, op. cit., p. 3.

[18]   B. Latour, Non siamo mai stati moderni. Saggio di antropologia simmetrica, tr. it. Elèuthera, Milano 1995, p. 44.

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