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Vallori Rasini – L’essere umano. Percorsi dell’antropologia filosofica contemporanea [Carocci, Roma 2008, pp. 185, € 16,20]


In questo testo l’autrice – in maniera acuta e suggestiva – pone dialogicamente a confronto i percorsi intellettuali dei massimi esponenti dell’antropologia filosofica tedesca: Scheler, Gehlen e Plessner. I tre filosofi, pure adottando metodologie e argomentazioni differenti, sono accomunati dal desiderio di ripensare l’umano a partire da un paradigma unitario, rinunciando a categorie antropologiche, ereditate da una tradizione veterocartesiana, rivelatesi ormai inadeguate. Se già per Kant la domanda sull’uomo costituiva la sintesi e il compito della filosofia, fra gli anni venti e quaranta del secolo scorso la “svolta verso l’uomo”, si accompagna al desiderio di scandagliare le profondità dell’ambiguo concetto di Vita. Come acutamente ha osservato Plessner: «Ogni epoca trova la propria parola redentrice. La terminologia del XVIII secolo culmina nel concetto di Ragione, quella del XIX nel concetto di Evoluzione, l’attuale nel concetto di Vita» (Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo. Introduzione all’antropologia filosofica, 2006, p. 27).

Elaborare una teoria della vita che tenesse conto delle specificità del vivente “uomo” significava, in primo luogo, porsi il problema della validità delle categorie conoscitive, era innanzitutto una questione epistemologica in base alla quale occorreva: «rinunciare all’idea che soltanto la ragione potesse costituire la fonte autentica del sapere» (Rasini, L’essere umano. Percorsi dell’antropologia filosofica contemporanea, 2008, p. 18). Allo stesso tempo «l’intuizione rivendicava propri spazi e una propria veridicità in quanto modalità conoscitiva» (ibid.)mostrandosi maggiormente capace di cogliere la fluidità della vita. Le scienze biologiche palesavano un dissidio: da un lato il desiderio di godere dei vantaggi forniti dai metodi “oggettivanti”, dall’altro il rischio di nullificare gli aspetti peculiari del vivente, obliando la complessità delle sue manifestazioni in nome di un criterio di esattezza quanto mai sterile.

La separazione diltheyana fra scienze della natura e scienze dello spirito stabilisce la progressiva specializzazione del sapere, ma – nata con l’intento di com-prendere la complessità dell’umano – finisce con l’oscurare ancor di più la sua natura. Il principio di unità psicofisica proposto dagli esponenti dell’antropologia filosofica, ha permesso di superare la frammentazione del sapere recuperando altresì l’unità dell’essere umano, avviando il riconoscimento di un uomo totale, non scisso in corpo e anima, ma corporalmente animato, sinolo inscindibile.

Cartesio rappresenta il principale obiettivo polemico degli autori in questione poiché «dividendo tutte le sostanze in “pensanti”ed “estese” ha introdotto nella coscienza occidentale una fitta schiera di errori, del tipo più grave, relativamente alla natura umana» (Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, 1997, pp. 172-173), ma la stessa definizione classica di uomo come animal rationale tradisce una concezione dicotomica che contrappone l’animalità alla ragione, intesa come qualità che riscatta l’uomo dal mondo naturale. Le conseguenze della concezione dualista di stampo cartesiano giungono piuttosto lontano, in essa il pensiero occidentale ha trovato uno schema «inconsuetamente durevole, […] un modello semplice meravigliosamente utilizzabile» (Gehlen, Prospettive antropologiche. L’uomo alla scoperta di sé, 2005, p. 29) e tuttavia come nota Rasini è stata proprio questa scissione, questa «mancata ricomposizione di interno ed esterno […] il principale ostacolo alla realizzazione di una scienza dell’umano» (p. 37).

L’antropologia filosofica nasce nel momento in cui viene colmato l’abisso scavato tra corpo e anima, e si costruisce attorno al principio di indifferenza psicofisica secondo cui: «Vi è un’unica e medesima vita che possiede una struttura che è psichica quando è interiore e fisica quando è esteriore» (Scheler, p. 174). La vita è di per sé psicofisicamente neutrale, ed entrambi gli aspetti le appartengono come forme o modalità, quindi «il processo fisiologico e quello psichico sono rigorosamente identici dal punto di vista ontologico» (ibid., p. 175) distinguendosi solo sul piano fenomenico. Per i rappresentanti dell’antropologia filosofica il comportamento è la cartina di tornasole atta a dimostrare l’inconfutabilità di tale principio: in esso convivono sempre l’aspetto interiore ed esteriore e sarebbe errato preferire la spiegazione fisiologica a quella psicologica e viceversa. Plessner analizza il comportamento mimico e nota come nei movimenti corporei non ci si trovi innanzi a un semplice corpo né a un’anima che si esprime attraverso il corpo, ma già a un’entità in sé duplice «indifferente rispetto a questa distinzione concettuale» (Plessner, p. 51). Gehlen mutua il concetto di azione da quello scheleriano di comportamento e tuttavia «il comportamento riguarda qualunque vivente, dagli organismi unicellulari all’uomo; il principio dell’azione è ritagliato invece sulle specificità dell’essere umano» (Rasini, p. 55). L’azione è un prodotto dell’uomo e va interpretata alla luce del paradigma antropologico dell’animale carente: l’uomo sarebbe l’animale meno fornito in natura, privo di corazza o di piumaggi, sprovvisto di una robusta dentatura, povero di mezzi di sostentamento e difesa adeguati, ma attraverso l’azione, che è già antropotecnica, astuzia e ragione, fuoco prometeico, si dà quella chance che la natura gli ha negato. Se per Herder il linguaggio rappresenta il salvifico bilanciamento di un’iniquità naturale altrimenti inspiegabile, per Gehlen la stampella dell’animale carente è l’azione: «Là dove “azione” in prima approssimazione deve designare l’attività indirizzata alla modificazione della natura in vista degli scopi dell’uomo» (Gehlen, p. 33). Ecco svelato il senso della celebre affermazione gehleniana: «La tecnica è vecchia quanto l’uomo» (Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, 2003, p. 32).

Un’altra importante differenza tra l’impostazione di Scheler e quella di Gehlen è che il primo ammette una continuità nella scala dell’organico che per il secondo è inaccettabile, in quanto pone di fronte a due alternative ugualmente impraticabili: 1) o si rinuncia a una distinzione essenziale tra uomo e animale; 2) o si introduce una diversa specie di capacità. Gehlen risolve l’aporia vedendo nel comportamento la manifestazione tutta immanente in grado di rivelare gli aspetti di unicità dell’essere umano, senza che vi sia bisogno di introdurre una categoria di stampo metafisico come invece accade in Scheler. Lo spirito (Geist) inerisce solo all’uomo e gli consente di collocarsi al di là della vita; grazie a un principio che si oppone a essa l’uomo diviene l’asceta della vita, «colui che sa dire di no all’impellenza dell’organicità concreta» (Scheler, p. 159). Nella cesura spirito/vita Scheler reintroduce sotto altre forme la tanto esecrata opposizione corpo/anima.

Interrogarsi sulla natura dell’uomo significa anche porsi la domanda su quale posto egli occupi nel mondo. L’essere umano è nel mondo o piuttosto ha un mondo? Sono interessanti al riguardo le ricerche di Plessner sul concetto di posizionalità e dell’avere spazialità (Raumhaft). Il corpo organico si distingue dal corpo inorganico per il suo “carattere posizionale”, non è semplicemente collocato in uno spazio, ma è in una relazione dinamica con esso. Come scrive Rasini: «Diversamente dal corpo inanimato, l’organismo non solo “è” in un luogo, ma propriamente “ha” un luogo» (p. 72). Nel chiarire i rapporti che intercorrono fra mondo umano e mondo animale i tre antropologi furono fortemente influenzati dalle scoperte etologiche di von Uexküll: egli per la prima volta condusse «al rifiuto della concezione ingenua che agli animali attribuisce il nostro mondo come se fosse il loro proprio, mentre in realtà ogni specie ha il suo proprio mondo» (Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, cit., p. 106). Fu una rivoluzione comparabile, per certi aspetti, a quella che avvenne in area pedagogica quando il bambino incominciò ad acquisire una sua dignità, e non venne più considerato come un adulto in miniatura. Iniziava a farsi strada l’idea che potesse esserci «non un mondo popolato da viventi, ma innumerevoli mondi determinati dall’esistenza dei viventi» (Rasini, p. 93). Attraverso gli organi di senso e le specificità funzionali dell’animale si può risalire alla sua Umwelt, ovvero al suo mondo individuale; ma l’uomo, data l’assenza di un “sistema relazionale fisso” con l’ambiente, «ha a che fare con una Welt, con un intero mondo, cioè con la disponibilità di una dimensione tutta da definire» (ibid., p. 103). Attribuire all’animale un condizionamento totale all’ambiente e, viceversa, all’uomo un’apertura al mondo senza limitazioni è  secondo Plessner piuttosto semplicistico, perché in questo modo non si tiene abbastanza conto del duplice aspetto della “natura” umana, e ci si lascia suggestionare dal vecchio schema corpo-anima-spirito. Un’apertura totale sarebbe possibile solo se l’uomo fosse libero dal corpo, puro spirito come le sostanze angeliche, ma ciò significherebbe ricadere nella concezione antica del soma come sema.

Nel quinto capitolo l’autrice illustra come la filosofia contemporanea abbia rivalutato la condizione corporea a partire dalla semplice quanto rivelatrice constatazione che «la vita pulsa nel corpo; senza corpo non c’è vita» (p. 119). In una linea immaginaria che da Schopenhauer passa per Nietzsche e giunge fino alla fenomenologia di Merleau-Ponty, questo tacito accadere che è il corpo trova voce; ancora una volta Rasini si sofferma su Plessner, che è forse l’interprete più originale dei tre, colui che si distacca maggiormente da un impianto metafisico. In fondo sia a Scheler sia a Gehlen è possibile muovere un’accusa di antropocentrismo latente: entrambi ristabiliscono una separazione tra uomo e natura; il primo attraverso la dote spirituale che libera l’uomo dal giogo della natura, il secondo mediante l’azione che ha un effetto progressivamente esonerante nei confronti di essa, facendo dell’uomo un animale atipico, di indole essenzialmente artificiale. Viceversa nell’impostazione della filosofia naturale di Plessner un simile allontanamento non può darsi, solo in quanto centrico l’uomo può essere eccentrico. Il corpo (Körper) è già corporalità (Leib), e per condurre la propria vita l’uomo deve imparare a giostrarsi fra questi due modi del sentire «tra la percezione immediata di un corpo gestito e la valutazione “oggettiva” del suo essere corpo tra corpi» (ibid., p. 137). La conseguenza della rivalutazione della corporeità è la rottura con la tradizione che concede solo all’uomo la prerogativa della soggettività e della coscienza, diversamente quest’ultima è presente in ogni essere vivente, ciò che manca è solo la dimensione riflessiva dell’autocoscienza.

Il testo si conclude con un accenno al problema della libertà come paradosso. In Gehlen, ad esempio, l’uomo agisce e non banalmente reagisce secondo risposte preordinate, e tuttavia questa azione si pone naturalmente contro la natura: l’uomo è l’unico animale che per vivere deve rinnegare le proprie radici. «L’uomo si scopre l’essere che solo nel paradosso più estremo può (e deve) condurre la propria esistenza. L’inquietudine ne è infine la cifra» (ibid., p. 170).

 

Alessandra Scotti

05_2010

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