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Jean-Pierre Changeux – Paul Ricoeur – La natura e la regola. Alle radici del pensiero – tr. it. a cura di M. Basile [Raffaello Cortina Editore, Milano 1999, pp. X-308, € 25]


Gli straordinari progressi conseguiti dalla biologia e dalla medicina nel corso degli ultimi decenni hanno condotto a un notevole ampliamento delle conoscenze relative all’architettura e al funzionamento del cervello umano. Tale conquista da parte del sapere scientifico ha avuto implicazioni decisive nello studio della mente e del comportamento dell’uomo. All’interno di quest’ambito di ricerca, tradizionalmente di competenza delle scienze umane, un ruolo sempre più determinante è stato affidato alle neuroscienze. Queste ultime si sono trovate a confrontarsi con diverse discipline nel tentativo di afferrare e di rendere spiegabile la complessità dell’umano.

Della necessità di avviare un confronto tra diverse discipline si è sempre mostrato pienamente consapevole il neurobiologo francese Jean-Pierre Changeux. La sua opera prima, L’uomo neuronale (1979) (tr. it., Feltrinelli, Milano 1986), sintesi delle principali conoscenze acquisite dalle scienze del sistema nervoso, nasce in seguito a un dialogo con lo psicoanalista Jacques-Alain Miller. Quest’incontro, sottolinea lo scienziato, «ha consentito di misurare la distanza che resta da percorrere perché gli scambi di punti di vista diventino costruttivi e si raggiunga una grande sintesi» (ibid., p. 7).

L’esigenza di superare la rigida separazione tra i diversi campi del sapere ha spinto Changeux ad avvicinarsi alla riflessione filosofica. Di qui l’incontro col filosofo Paul Ricoeur, i cui continui dialoghi con le scienze umane, in particolar modo con la psicologia e la psicoanalisi, hanno sempre mostrato una profonda apertura verso la ricerca interdisciplinare. Il loro intenso dibattito, adeguatamente sostenuto dall’editore Odile Jacob, è stato fedelmente riportato nel testo La natura e la regola. In esso il lettore ha modo di entrare nel vivo di una discussione che non si piega a facili conciliazioni, ma rimanda, piuttosto, a innumerevoli questioni aperte.

Il dialogo prende le mosse dai recenti sviluppi delle neuroscienze e dal loro tentativo di individuare i nessi tra le componenti neuronali e le funzioni cognitive e comportamentali complesse. Tutto questo, osserva Changeux, «ci conduce a riesaminare la questione fondamentale di ciò che si è convenuto chiamare il rapporto tra corpo e mente» (p. 10). Il riconoscimento della correlazione sussistente tra la sfera psichica e la dimensione corporea induce a rivedere anche il rapporto che intercorre tra le forme di conoscenza a esse relative. La netta separazione tra comprensione e spiegazione oggettiva introdotta da Dilthey viene a cadere, mentre diventa sempre più evidente che la conoscenza dell’uomo nella sua globalità non può che richiedere l’intersezione di approcci differenti.

Alla luce di tali considerazioni, dunque, i due interlocutori intraprendono un serrato confronto tra la neurobiologia e la fenomenologia, con lo scopo di far luce sulla natura del loro rapporto. In questione c’è la possibilità di configurare un terzo discorso che possa fungere da ponte tra i due diversi orizzonti disciplinari, consentendo una visione unitaria dell’uomo. Su questo punto le posizioni dei due relatori divergono, dando origine a un articolato contraddittorio.

Sulla scorta di un’ingente mole di dati empirici e con lucido rigore espositivo Changeux insiste sulla possibilità di sviluppare un discorso unificato sull’uomo, avanzando la proposta di una sintesi tra neurobiologia e fenomenologia. Alla base del suo progetto c’è la consapevolezza che il campo d’azione delle neuroscienze oltrepassa i confini dell’organismo. La localizzazione delle aree cerebrali deputate al linguaggio, l’introduzione di nuove tecniche di visualizzazione delle strutture e delle attività del cervello o anche l’utilizzo di sostanze chimiche per alterare gli stati emotivi, come ad esempio le benzodiazepine, dimostrano che l’indagine sulle reti neurali passa necessariamente per la comprensione degli stati mentali. Si può, in effetti, pensare che la stessa fondazione della neuropsicologia rappresenti una chiara testimonianza di questo riconoscimento. Il modo di procedere di quest’ultima, consistente nella descrizione delle modificazioni cognitive e comportamentali collegate a specifiche lesioni cerebrali (D. Grossi – L. Troiano, Lineamenti di neuropsicologia clinica, Carocci, Roma 2007, p. 17), induce, tuttavia, a ritenere che il rapporto tra mente e cervello sia di natura causale. Risulta, allora, evidente che il dialogo che Changeux intende instaurare con la fenomenologia sia in ultima istanza finalizzato a estendere il sapere oggettivo all’intera dimensione psichica, delineando in tal modo una vera e propria «fisica dell’introspezione» (J.-P. Changeux – P. Ricoeur, La natura e la regola, cit., p. 68).

Le argomentazioni di Changeux lasciano immaginare che, nel suo incontro con le neuroscienze, la fenomenologia si trovi a ricoprire un ruolo ancillare. Di questo esito è consapevole Ricoeur che, pur non negando la possibilità di una relazione tra neurobiologia e fenomenologia, ricorda che «i discorsi tenuti da entrambe le parti dipendono da due prospettive eterogenee, cioè non riconducibili l’una all’altra e non derivabili l’una dall’altra. In un discorso si parla di neuroni, di connessioni neuronali, di sistema neuronale; nell’altro si parla di conoscenza, di azione, di sentimento, ovvero di atti o di stati caratterizzati da intenzioni, motivazioni, valori» (p. 14). La diversità dei referenti ultimi dei loro discorsi segna, pertanto, la reciproca autonomia dei due ambiti disciplinari.

Il «dualismo semantico» (ibid.) appena introdotto rende impossibile descrivere la relazione tra mente e corpo secondo i criteri della causalità lineare. Alla luce di tale considerazione e con un esplicito riferimento alla teoria aristotelica delle quattro cause, in particolar modo alla causalità materiale, il filosofo francese propone allora di sostituire il binomio causa-effetto con la coppia substrato-indicazione. Diventa a questo punto possibile affermare che «il cervello è substrato del pensiero» e, al contempo, «il pensiero è indicazione di una struttura neuronale soggiacente» (p. 47). Ciò consente di istituire un rapporto tra lo psichico e il neuronale pur mantenendo la specificità dei loro rispettivi discorsi. Non più semplice fusione di approcci conoscitivi differenti, dunque, l’incontro tra fenomenologia e neurobiologia viene concepito da Ricoeur nei termini di una relazione dialogica.

Il confronto tra i due interlocutori prosegue e si approfondisce ulteriormente nel momento in cui la discussione si sposta sulla possibilità di individuare una correlazione tra organizzazione cerebrale e comportamento morale. «Come può», si chiede Changeux, «un uomo neuronale essere un soggetto morale?» (p. 7). Può l’etica trovare un fondamento nel discorso biologico, oppure i due piani si danno nei termini di un’assoluta eterogeneità? Su queste domande verte la seconda parte del dibattito che vede il filosofo e il neuroscienziato impegnati a stabilire se tra l’evoluzione biologica della specie e lo sviluppo culturale e sociale possa essere riconosciuta o meno una continuità (p. 177).

Sul versante dell’uniformità propende decisamente Changeux. Attraverso un’attenta lettura della teoria darwiniana della selezione naturale, lo scienziato avanza la tesi che l’agire umano sia diretto da un «istinto sociale» (p. 188), frutto della lunga evoluzione della specie. Numerosi sono i dati che sembrano avvalorare questa posizione e che sono in questa sede prontamente illustrati. Dagli studi di Blair sui meccanismi inibitori della violenza (p. 218) alla scoperta, da parte di Turiel, della capacità dei bambini di distinguere sin dalla tenera età tra convinzioni sociali e obblighi morali (p. 237), questi esempi mirano a dimostrare che l’essere umano è caratterizzato da un’originaria socievolezza. La scelta dei valori morali procederebbe, dunque, in accordo con le predisposizioni naturali dell’uomo (p. 234).

A garantire l’evoluzione della vita morale intervengono, secondo Changeux, dei meccanismi selettivi del cervello che consentono, durante la trasmissione culturale, di conservare determinati valori e di modificarne altri. La conoscenza di questi meccanismi da parte delle neuroscienze rappresenterebbe, pertanto, un contributo decisivo nello sviluppo di un sistema di valori morali non più circoscritto a una particolare comunità, ma finalmente esteso all’intera specie umana (p. 239). Lo scienziato insiste sull’urgenza di elaborare «un’etica naturale e universale» (p. 261) in un’epoca segnata da cruenti conflitti tra civiltà. Gli esiti violenti cui sono andati incontro i diversi fondamentalismi religiosi diventano in questa sede indice della necessità di abbandonare i particolarismi culturali per riconciliarci col nostro fondo comune. Un’ideale di pace, dunque, permea il progetto di Changeux. Viene, tuttavia, da chiedersi se l’elaborazione di un’etica in senso naturalistico non possa portare a intolleranze ben più radicali, magari riconducendo comportamenti non riconosciuti dalla morale comune all’annosa quanto pericolosa distinzione tra normale e patologico.

Una risposta a tale domanda viene da Ricoeur che, contro le argomentazioni sostenute da Changeux, evidenzia l’autoreferenzialità propria della riflessione morale, riconoscendo, così, una discontinuità tra discorso etico e discorso biologico (p. 222). Nel tentativo di Changeux di risalire alle basi evoluzionistiche della morale il filosofo rileva l’adozione di uno «sguardo retrospettivo», che prima elabora una “regola aurea” e, in un secondo momento, ne cerca una convalida nei dati empirici (p. 192). La ricerca di ciò che potrebbe, e non senza ambiguità, essere definito «fondamento naturale» dell’etica, dunque, lungi dall’individuare le origini della morale, costituisce un tentativo di legittimare una peculiare visione del mondo (p. 259).

All’interno di una società democratica tale visione del mondo si affianca naturalmente ad altre che premono ugualmente per un proprio riconoscimento. Questa constatazione induce Ricoeur a dichiarare che «qui più che altrove si deve tener presente la pluralità. Il problema è, allora, quello della pace tra le convinzioni, della loro assistenza reciproca» (p. 275).

Il problema della pluralità porta con sé quello dei conflitti cui spesso essa conduce. Questi ultimi nascono dai tentativi di ciascuna convinzione, sia essa religiosa o anche scientifica, di universalizzare se stessa. Nell’intento di superare questa prospettiva, Ricoeur mette in luce la necessità di restaurare uno spazio comunicativo entro cui le singole discipline, tra cui anche la neurobiologia, possano dialogare liberamente, riconoscendo la loro pari dignità e la reciproca autonomia epistemologica. Consapevole del fatto che la conoscenza passa per il confronto, il filosofo si professa «contro “l’angelismo” anche nella sua versione razionalistica, al quale rischia di cedere un’apologia del consenso senza dissenso» (p. 304).

La posizione di Ricoeur si riflette pienamente nel suo peculiare stile comunicativo. I suoi interventi frammentari, che a un primo impatto sembrano denotare una debolezza argomentativa, diventano, alla luce delle sue dichiarazioni, una chiara espressione della sua apertura a una molteplicità di punti di vista. Questi ultimi possono trovare una convalida soltanto misurandosi reciprocamente mediante una perpetua discussione a cui ciascuno di noi è chiamato a partecipare.

Anna Baldini

05_2010

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