S&F_scienzaefilosofia.it

Telmo Pievani – Finitudine. Un romanzo filosofico su fragilità e libertà [Raffaello Cortina, Milano 2020]

Una delle maggiori eredità scientifiche di Stephen Jay Gould è l’importanza che il celebre paleontologo statunitense assegna alla nozione storica di contingenza per la comprensione dell’evoluzione biologica. Tema ricorrente nei suoi saggi per il grande pubblico (pienamente sviluppato, com’è noto, ne La vita meravigliosa), la contingenza che intride il processo macroevolutivo comporta che la discendenza con modificazioni delle stirpi dei viventi, proprio come l’intreccio narrativo di un romanzo, si configuri come «una sequenza imprevedibile di stati antecedenti, in cui ogni mutamento importante in qualsiasi passo della sequenza avrebbe modificato il risultato finale» [Stephen J. Gould, La vita meravigliosa. I fossili di Burgess e la natura della storia (1989), tr. it. Feltrinelli, Milano 20184, p. 290]. Gould non manca di ravvisare, in tal senso, che «il tema della contingenza, così poco compreso e esplorato dalla scienza, è stato per molto tempo un cardine della letteratura. Notiamo qui una situazione che potrebbe aiutarci a infrangere i falsi confini fra arte e natura, e potrebbe permettere addirittura alla natura di illuminare la scienza» (T. Pievani, Finitudine, cit., p. 292).

Dopo aver esaminato, in Imperfezione. Una storia naturale [cfr. a tal proposito G. Altadonna, Naturalmente imperfetti, in «Vita Pensata», X, 22, 2020, pp. 90-93] le implicazioni filosofiche e scientifiche dell’imperfezione quale cifra migliore per cogliere la vera natura dell’evoluzione darwiniana, nel suo ultimo libro Telmo Pievani riesce a trarre le più feconde conseguenze, insieme teoretiche ed estetiche, da quest’altro lascito teorico di Gould: la contingenza storica. L’intera cornice narrativa del romanzo filosofico Finitudine si fonda, infatti, su una storia controfattuale: cosa sarebbe successo se Albert Camus non fosse morto nell’incidente stradale del 4 gennaio 1960?

Pievani immagina una storia pienamente plausibile: Camus, in convalescenza presso il Centre Hospitalier di Fontainebleau, e Jacques Monod, biologo dell’Istituto Pasteur e suo caro amico che periodicamente gli rende visita, scrivono a quattro mani un libro per interrogarsi sulla possibilità di un’etica laica della conoscenza e dell’esistenza, informata dal materialismo metafisico di Lucrezio quale emerge dai versi del De rerum natura, i quali, posti in epigrafe a ogni capitolo, costituiscono il fil rouge di questa indagine: «Andiamo a scoprire quanto è lucreziana la scienza di oggi» (T. Pievani, Finitudine, cit., p. 31) è una delle chiavi di lettura del testo.

In tal modo, il libro di Pievani si configura come un romanzo dentro un romanzo: in ogni capitolo, alla lettura di Monod delle bozze del loro libro sulla finitudine, segue il dialogo fra i due premi Nobel, in cui essi si confrontano sui temi del testo che stanno scrivendo, sul dramma della Seconda guerra mondiale e della Resistenza da loro vissuta in prima persona, sulle illusioni e la dittatura politica e scientifica imposte dall’Unione sovietica nei Paesi del Patto di Varsavia negli anni più critici della Guerra fredda. Il risultato è un ritratto non convenzionale di due fra i maggiori intellettuali del XX secolo, che ne enfatizza l’umanità, la fragilità, ma anche il coraggio assunto nell’affrontare le pagine più buie della storia del Novecento. I due pensatori collaborano all’insegna della condivisione intellettuale e umana delle loro esperienze di vita, guidati da una curiosità neotenica e da una forte passione civile: «La gratuità unisce la mia filosofia alla tua scienza. Forse per questo stiamo scrivendo insieme», dice Camus a Monod (ibid., 80).

La prospettiva congiunta del filosofo e dello scienziato riesce a sollevare il velo dell’illusoria certezza nella stabilità perenne dell’universo, del sistema solare, della Terra e, in definitiva, della nostra stessa esistenza come specie e come individui. Neanche gli astri, che pure ci appaiono l’ultima «regione di perenne certezza» [G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo (1958), a cura di G. Barbieri, Loescher, Torino 1979, p. 197] resistono all’implacabile entropia del tempo e dell’essere. Ammessa questa verità, che il poema di Lucrezio professa da oltre duemila anni e che la scienza contemporanea ha confermato con dati sperimentali, e che purtuttavia facciamo un’enorme fatica ad ammettere, dovremmo dunque soccombere al fatalismo e al nichilismo? Il libro è un tentativo (ottimamente riuscito, a parere di chi scrive) di rispondere a questa domanda.

La finitudine ci sgomenta; è disarmante. «C’è dell’incanto, in questa finitudine di tutte le cose» (T. Pievani, Finitudine, cit., p. 20). Un incanto che è «meraviglia», ma nel senso greco di thauma, di quello stupore inquietante che Socrate, rivolto a Teeteto, afferma essere il contrassegno della pratica filosofica: «Pare davvero, amico mio, che Teodoro non abbia espresso un giudizio sbagliato sulla tua indole: ciò che provi – la meraviglia – è un sentimento assolutamente tipico del filosofo (μάλα γὰρ φιλοσόφου τοῦτο τὸ πάθος, τὸ θαυμάζειν)» [Platone, Teeteto o Sulla scienza, 155d, tr. it. Feltrinelli, Milano 20094, pp. 68-69]. Un sentore, quello che ci coglie di fronte alla finitudine, che fa il paio (e non a caso) con «quel qualcosa di grandioso in questa visione della vita» [C.R. Darwin, L’origine delle specie (18726), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2011, p. 552] che proviamo riflettendo sulla sublime grandezza di un’evoluzione biologica indifferente alle nostre sorti, e dalla quale pure siamo derivati come ramoscello improbabile.

La non necessità della nostra esistenza, che si comprende allorquando si considera adeguatamente «la sequenza di fortunate contingenze che ci hanno condotto fin qui» (T. Pievani, Finitudine, cit., p. 33), una continuità filetica che avrebbe potuto arrestarsi in ogni momento e irreversibilmente, costituisce la versione aprioristica della finitudine: «il probabile non realizzarsi di una delle condizioni essenziali per la nostra nascita» (ibid., p. 34). Ma noi umani, irresponsabili nel nostro rapporto con l’ambiente sociale e naturale di cui siamo parte, rappresentiamo un elemento a posteriori della finitudine: «una specie che, sconsideratamente, aumenta le già non trascurabili probabilità di scomparire dalla faccia della Terra» (ibid., p. 35). La contingenza, «cioè la dipendenza dalla storia pregressa» (ibid., p. 39) comporta che, a un certo livello di complessità e di specificità, gli eventi e gli enti sono imprevedibili: contro l’antropocentrismo, occorre riconoscere che fra tali accidenti rientra anche Homo sapiens, «un evento particolare e imprevedibile dentro una biosfera particolare e imprevedibile» (ibid.). Riconoscere che l’universo non è stato apparecchiato per noi costituisce «il messaggio più radicale e sovversivo della scienza: la rottura dell’antica alleanza animistica» (ibid., p. 45). Ammesso di essere ricettivi a tale messaggio, ci sentiamo straniati e stranieri in un universo che non è più cosmos, nel quale (come già aveva capito Anassimandro) «si profila una sorta di giustizia distributiva di tutte le cose» (ibid., p. 47).

Noi non siamo in alcun modo necessari all’universo: da questa fiele per la nostra presunzione antropocentrica potremmo trarre un atteggiamento disfattista e arroccarci in escatologie consolatorie. «Oppure possiamo faticosamente imparare che questo colpo al nostro orgoglio non è una vittoria del nichilismo e del pessimismo, ma, al contrario, è un’occasione per apprezzare la nostra libertà, e la nostra conseguente responsabilità morale, in un mondo che non aveva alcun bisogno di noi, e dunque non ci impone come pensare e come agire. La grande catena dell’essere era pur sempre una catena, un ceppo dal quale ora, finalmente, ci emancipiamo» (ibid., p. 48). Eppure, fin troppo spesso riaffiora la tendenza inveterata ad attribuire alla Natura gran parte delle nostre sorti, mascherando dietro di essa le nostre responsabilità morali. La Natura non è buona o cattiva, semplicemente ci è indifferente. «La natura è una scusa troppo facile per noi umani. Se qualche evento naturale ci colpisce – un uragano, un terremoto o una nuova pandemia come la spagnola del 1918 – possiamo solo prendercela con la sfortuna, il che sarebbe abbastanza improduttivo, oppure chiederci se abbiamo fatto abbastanza per prepararci alla circostanza, in modo da farci trovare pronti la prossima volta» (ibid., p. 55). Lo scarto fra la nostra condizione di enti finiti e l’universo infinito si traduce comunque in un senso di smarrimento profondo, perché siamo consapevoli della nostra finitudine, dell’orrore della morte, del terrore del dolore: «la nostra è l’esperienza finita di esseri senzienti che dentro un universo immenso che non si prende cura di noi. È finitudine conscia» (ibid., p. 48). Ne deriva una condizione paradossale: quella di essere «effimeri cercatori di senso» (ibid., p. 52).

La finitudine, dunque, ci spaventa, ci terrorizza, facciamo di tutto per dissimularla: in tal senso, l’illusione di poter sfidare la finitudine con la tecnica (colonizzando altri pianeti, o ibernando i corpi individuali, o trasferendo la coscienza del singolo su un computer, oppure tramite la clonazione) è una riproposizione contemporanea del tradizionale tentativo di rispondere alla paura della morte da parte di quasi tutte le religioni (ibid., pp. 81-104).

Sfidare la finitudine con il progresso è un ideale che si è imposto nella cultura occidentale a partire dal XVIII secolo, che ha raggiunto l’apice nell’Ottocento, ma la cui vanità è stata dimostrata ampiamente dalla storia del Novecento. Il progresso è una dinamica da costruire giorno per giorno e, anche quando si realizza, richiede costi umani, sociali e ambientali non indifferenti. Senza negare i progressi effettivi nelle condizioni di vita del genere umano rispetto ai nostri antenati, non bisogna dimenticare che il progresso non è mai una tendenza necessaria, né della natura né della storia, ma una sfida aperta e non priva di ambiguità (ibid., pp. 121-148). «L’evoluzione, infatti, non è una legge necessaria. Semmai lo è la conservazione. La prerogativa prima degli esseri viventi non è evolvere, ma cercare di conservarsi» (ibid., p. 139). Una smentita eclatante del mito del progresso e di quello che Monod chiama il «paradigma animistico» («ipotesi secondo cui i fenomeni naturali possono e devono essere interpretati in definitiva nello stesso modo, con le stesse leggi, dell’attività umana soggettiva, cosciente e proiettiva», [J. Monod, Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea (1970), tr. it. Mondadori, Milano 1974, p. 40] proviene dalle catastrofi naturali, le quali «sui tempi lunghi dell’evoluzione sono eventi certi e banali; sui tempi brevi delle nostre generazioni di mortali sono accadimenti spaventosi e memorabili» (T. Pievani, Finitudine, cit., p. 160).

Fra tali cataclismi rientrano le pandemie, in occasione delle quali la finitudine umana e l’indifferenza della «Natura» alle sorti di noi bipedi implumi non può essere negata se non a costo di forzare l’intelletto. Eppure, qualora «un flagello sterminasse gli uomini, ma ne salvasse anche solo un piccolo manipolo, un villaggio isolato, da quei pochi la fiaccola si riaccenderebbe e tornerebbe a trasmettersi e a diffondersi. […] Forse che in quella staffetta si nasconda il segreto per sconfiggere la finitudine?» (ibid., p. 164). Questa sembra una possibilità più plausibile delle altre due per aggirare la finitudine: il contenuto di invarianza, l’informazione codificata nel DNA proprio di ogni specie, e la sua trasmissione fedele di generazione in generazione può forse costituire davvero la cifra dell’immortalità: com’è noto, proprio con l’espressione «replicatore immortale» si conclude Il gene egoista di Richard Dawkins [R. Dawkins, Il gene egoista (1976), tr. it. Mondadori, Milano 2017, p. 284]. Senonché l’invarianza dell’informazione genetica non è monolitica, bensì «è perennemente perturbata. Ecco la magnifica ambivalenza del DNA: essere invariante e mutevole allo stesso tempo. Il DNA tiene insieme Platone ed Eraclito» (T. Pievani, Finitudine, cit., p. 174). L’invarianza del DNA è infatti soggetta a mutazioni casuali le quali, vagliate dalla selezione naturale, possono rivelarsi dannose all’organismo portatore oppure vantaggiose per la sua fitness. Le perturbazioni genetiche sono casuali in senso essenziale: l’effetto funzionale della mutazione è del tutto indifferente alla sua causa (ibid., pp. 176-177). La combinazione esponenziale della relativa imperfezione del meccanismo di replicazione da cui derivano le mutazioni, da un lato, e della relativa fedeltà dello stesso meccanismo che consente a tali mutazioni, se vantaggiose, di conservarsi e diffondersi nella popolazione, dall’altro, è il paradosso dell’evoluzione per selezione naturale. «Il caso e la necessità, unendosi, danno origine alla possibilità, che è la vera categoria della vita» (ibid., p. 171). Possibilità della comparsa di nuove specie e, in primo luogo, di nuovi individui della medesima specie, fra loro simili ma non identici. Il DNA, dunque, non ci fornisce un argine contro la marea montante dell’angoscia per la finitudine perché ciascuna combinazione genetica, sebbene sia composta delle stesse quattro lettere, dalla mosca al bacillo, alla balena, all’uomo, è unica per ogni individuo, e si dissolve con la morte di questo. La morte individuale è forse la manifestazione più immediata e più dolorosa dell’entropia universale: «è, a tutti gli effetti, una verifica, e una vittoria, del secondo principio della termodinamica. […] La natura tende allo stato più disordinato possibile. L’invecchiamento è un processo di lenta sconfitta dei sistemi biologici» (ibid., pp. 181-182).

Esiste, allora, un messaggio positivo che si può ricavare dalla finitudine? Nella finzione letteraria di Pievani, Monod e Camus propongono una risposta affermativa a tale quesito: occorre instaurare, sulla consapevolezza dei limiti temporali, biologici e ontologici dell’umano, una libertà autentica che metta l’uomo in condizione di affrontare con coscienza e senza fatalismo il futuro di cui egli è, almeno in parte, responsabile (ibid., pp. 239-263). «L’amara verità della finitudine di tutte le cose ci restituisce allora libertà, la tragica libertà di chi non crede più nei migliori mondi possibili, ma nemmeno si lascia intrappolare nel nichilismo più angoscioso. Una libertà in bilico tra la certezza di morire e la passione di vivere» (ibid., p. 58). Bisogna dunque «assumere la finitudine, accettarla, smettere di tradirla invano, e tuttavia affrontarla a viso aperto in piena libertà. La consapevolezza della finitudine ci rende umani» (ibid., p. 241). Il punto d’arrivo di questo itinerario teoretico, al contempo punto di partenza di un cammino etico, è perciò l’etica della conoscenza. Infatti, «etica e conoscenza sono legate, benché radicalmente distinte. Sono associate nel discorso e nell’azione, che si basano tanto sulla conoscenza quanto sui valori. Non solo: la definizione stessa della conoscenza vera si fonda, in ultima analisi, su un postulato di ordine etico, su una rivolta contro i sistemi tradizionali, su una scelta che stabilisce la norma oggettiva della conoscenza» (ibid., p. 243). Se il paradigma animistico garantisce sicurezza e consolazione (a costo però di limitare la libertà in nome di una Natura o di un Cosmo che decide per noi il nostro destino), d’altra parte l’etica della conoscenza, se ci rende consapevoli della nostra fragilità ontologica, ci avverte tuttavia del ventaglio quasi infinito delle possibilità entro cui possiamo e dobbiamo scegliere, in quell’intervallo fra la nascita e la morte che chiamiamo vita. «Ci siamo, potevamo non esserci, siamo capitati: questo è tutto, questo è meraviglioso» (ibid., p. 252). La nostra vita è meravigliosa perché si colloca, niente affatto scontata, stretta fra l’abisso del passato e l’incognita del futuro. Un futuro che almeno in parte dipende da noi, e un passato che avrebbe potuto prendere direzioni molto diverse da quella effettivamente realizzatisi, inclusa l’interruzione irreversibile della continuità: «Noi siamo stati migliaia e migliaia di volte così vicini (metti il pollice a un millimetro circa di distanza dall’indice) a essere cancellati in conseguenza dell’avviarsi della storia lungo una direzione diversa non meno ragionevole di quella che ha scelto. […] È davvero una vita meravigliosa» [S.J. Gould, La vita meravigliosa, cit., p. 297].

«La finitudine è il fondamento della nostra comunità di destino» [T. Pievani, Finitudine, cit., p. 252; su tale nozione cfr. anche E. Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro (1999), Raffaello Cortina editore, Milano 2001], dal momento che tutti i viventi e tutti gli enti particolari condividono la sorte della trasformazione entropica, opporsi alla quale è fatica di Sisifo. Un’impresa eroica, appunto, come quella, su più piccola scala, di chi fa ricerca: «Il lavoro dello scienziato è fatica di Sisifo. Aggiunto un macigno alla montagna della conoscenza, trovata la risposta alle domande che tormentavano i predecessori, ecco affacciarsi nuove domande, ancor più difficili: altri macigni da portare. Con il passare del tempo, gli interrogativi aumentano anziché diminuire. Più si sa e più si possiedono strumenti per capire che non si sa» (T. Pievani, Finitudine, cit., p. 275).

E tuttavia, come la finitudine della conoscenza non deve impedirci di continuare a studiare, così la finitudine dell’esistenza non deve impedirci di continuare a vivere.

Giovanni Altadonna

S&F_n. 26_2021

Print Friendly, PDF & Email