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Sandro Gorgone – Il trionfo di Proteo. Tecnica e metamorfosi dell’umano [InSchibboleth, Roma 2021]

Il libro sintetizza e discute parte dell’ampio e serrato dibattito che da qualche decennio è dedicato al postumano. Lo fa anche da una prospettiva heideggeriana, che parte dal corretto riconoscimento del fatto che è «la critica heideggeriana dell’umanismo filosofico – che egli inserisce nella più ampia critica della metafisica occidentale – a costituire […] la base teorica di molti approcci anti-umanistici contemporanei», anche se poi aggiunge che «l’esito dell’itinerario heideggeriano sfoci nell’individuazione di un primato della Differenza che non è in alcun modo assimilabile all’eredità da cui, secondo la maggior parte delle prospettive postumanistiche, emergono le “antropotecniche” e i processi di ibridazione dell’umano» (p. 19).

Gorgone mostra dunque quanto ingiustificate siano le interpretazioni che pongono il pensare heideggeriano in continuità con la tradizione umanistica. Non si tratta di una delle tante incomprensioni, più o meno in buona fede, di questo filosofo ma di una delle più gravi poiché l’ontologia heideggeriana esclude, e non può che escludere, qualunque primato di un ente, di qualsiasi ente, dentro l’intero. Applicato alla questione della tecnica, l’antiumanismo di Heidegger fa sì che «la caratterizzazione ontologica e non meramente strumentale della tecnica […] e la sua interpretazione come “destino dell’essere” nell’epoca del compimento della metafisica, e dunque come modo d’essere dell’ente e dell’uomo come Bestand e Bestandstück» renda del tutto implausibile l’accusa che da più parti viene rivolta a questo filosofo «di cripto-umanismo o di “neoumanismo superlativo”» (nota 142, p. 209).

Su vari altri temi e questioni il testo incorre invece in errori o in interpretazioni non giustificate dai concetti che discute. La caratterizzazione degli “automi” come “autonomi” e anche per questo esercitanti fascino e attrazione sul desiderio umano di autosufficienza induce Gorgone a dare importanza centrale all’«attrattiva esercitata dai congegni che alimentano da sé il funzionamento dei propri meccanismi» (p. 75) ma non esiste nulla del genere, non esiste il moto perpetuo. Le macchine hanno sempre bisogno di un’energia che provenga loro dall’esterno, dall’ambiente, allo stesso modo di ogni e qualsiasi entità che produce lavoro e consuma risorse.

La volontà di separare Heidegger dalle tendenze postumaniste conduce a una caratterizzazione scorretta dell’antiumanismo heideggeriano come «iper-umanistica» e posta a difesa della «dignità umana» (pp. 156-157), interpretazione smentita in parte dallo stesso autore quando deplora Heidegger per l’assenza nella sua filosofia di un’etica, assenza testimoniata anche dal suo «pronunciarsi contro i valori umanistici tradizionali e in genere contro ogni tipo di valore» (p. 164), ai quali Heidegger contrappone una difesa della “dignità” umana che non ha però nulla a che fare con un qualsiasi primato antropocentrico.

Ancora: l’amore di polemica induce in molte pagine Gorgone a rimproverare le tesi postumaniste di continuità con l’umanismo, affermando tra l’altro che «i germi del postumanismo, si ritrovano, dunque, già nella tradizione umanistica» (p. 173) e in questo modo rendendo confuso e poco comprensibile l’oggetto stesso della sua indagine.

Si tratta di errori, incomprensioni e arbitri ermeneutici che derivano dal permanere di una concezione di fondo, la quale non viene mai discussa ma che è data in ogni pagina per ovvia: la separazione ontologica tra l’umano e l’animale, come se alla parola “animale” corrispondesse davvero qualcosa e non fosse invece da sempre una parola pensata per il dominio, uno strumento linguistico fondamentale per la pretesa separativa umana, un concetto insieme includente ed escludente. Includente tutto ciò che vivendo soffre ma non è umano e che, se ne deduce, può pertanto diventare strumento, sacrificio, cibo, vittima del signore umano. Escludente dal proprio perimetro semantico una sola specie, la nostra. L’enorme differenza tra le specie è irriducibile a schemi e gerarchie – un gorilla è evidentemente assai più vicino a Homo sapiens di una zanzara – ed è la dimostrazione che l’animalità è una galassia composta da miliardi di stelle, tutte accomunate e tutte diverse, dentro la quale l’umano costituisce un astro tra gli altri, con le sue potenzialità, con i suoi poteri e con i suoi limiti. Animale è un significante al quale non corrisponde un’accezione biologica ma un significato politico.

Il limite fondamentale del libro sta qui, abita nel dogma di questa separazione. Eppure le belle pagine dedicate alla metamorfosi in Goethe avrebbero potuto costituire una salvaguardia da tali cadute. Vi si legge infatti della inseparabilità nei viventi e nelle piante di Vis centrifuga – differenza – e Vis centripeta – identità. La metamorfosi non assimila né separa ma trasforma. Ogni metamorfosi è forma ed espressione del metabolismo per il quale «la dipendenza dall’ambiente esterno si coniuga, quindi, con l’indipendenza dell’organismo che possiede in sé il principio formale con cui la materia assimilata deve essere riorganizzata al suo interno» (p. 225).

Questa dinamica di identità e differenza inseparabili accomuna tutti i viventi e sta a fondamento non solo della filosofia di Goethe ma anche di quella di Heidegger e del postumanismo di Roberto Marchesini. Ed è una delle ragioni per le quali la distinzione radicale tra umano e animale – come se l’umano non fosse forma ed espressione della comune animalità – appare ed è priva di significato.

Alberto Giovanni Biuso

S&F_n. 28_2022

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