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Michel Foucault – Medicina e biopolitica. La salute pubblica e il controllo sociale [Donzelli, Roma 2021]

Intervenire nel dibattito sulla medicina e la salute individuale e pubblica; affrontare nei suoi risvolti etici, politici e giuridici questioni complesse come la libera gestione del proprio corpo e della propria salute: questi e altri importanti temi di attualità attraversano le pagine di tre conferenze tenute da Michel Foucault a Rio De Janeiro nel 1974, di una sua lezione tenuta al Collége de France nel 1978 e di un’intervista del 1983 rilasciata a Robert Bono, ora raccolti nel volume Medicina e biopolitica. La salute pubblica e il controllo sociale. Come spiega Paolo Napoli, il curatore che con la sua pregevole introduzione accompagna e agevola la lettura del testo, l’oggetto degli interventi presentati è innanzitutto il processo di medicalizzazione della società, che si trovava, proprio negli anni ’70, al centro di un acceso dibattito riguardante il problema – e la crisi – del funzionamento delle istituzioni del sapere e del potere medico dell’epoca. Attraverso l’elaborazione di una «storia del corpo umano del mondo occidentale» (p. 6), Foucault situa nel decennio 1940-1950 l’acme dell’evoluzione di una medicina che ha come suo obbiettivo privilegiato quella che definisce una «somatocrazia» (p. 7). Una medicina, cioè, che in seguito al “decollo” conseguito in ambito tecnico ed epistemologico, si estende all’infuori e al di sopra di quello che convenzionalmente si ritiene essere il suo campo di interesse – la cura del malato – conquistando piuttosto un potere di disposizione politica sul corpo dell’intera popolazione. Tale processo comporta importanti cambiamenti nei due perni della nuova gestione della salute: il medico e l’istituzione ospedaliera nel suo complesso. Il primo si impone progressivamente in veste di autorità politico-amministrativa che, estendendo le sue competenze dal campo della malattia a quello della salubrità e igiene dell’ambiente urbano, «può prendere delle decisioni che riguardano una città, un quartiere, un’istituzione o un regolamento» (p. 18). La seconda, insieme, muta la sua funzione sociale, passando da istituzione caritatevole per l’assistenza dei poveri, a luogo di osservazione privilegiato della malattia, finalizzato al conseguimento di un adeguato governo della salute collettiva. Questi passaggi salienti, riassumibili entro i termini di una «medicalizzazione indefinita» (p. 15), permettono alla medicina di imporsi sugli individui quale vero e proprio atto di autorità, con funzioni di governo che vanno ben oltre l’esistenza delle malattie e la domanda di assistenza del malato, al punto che essa «comincia a non avere più campi che le siano esterni» (p.19). La costituzione di «“stati medici aperti”, in cui la medicalizzazione è senza limiti» (p. 22), tuttavia, non è esente da fenomeni di crisi e da profonde ambiguità. Nel mentre si costituiscono sistemi avanzati di Welfare, la medicina entra nel sistema dei consumi come merce: «una ricchezza che rappresenta un desiderio per gli uni e un lusso per gli altri» (p. 23). Tale sistema non annulla ma, anzi, favorisce vistose differenze sociali a causa delle quali i ceti meno abbienti vengono spesso privati dell’accesso alle prestazioni mediche. Inoltre, si rivela inefficace persino nel suo obbiettivo dichiarato di garantire una diminuzione della mortalità e un corrispettivo miglioramento delle condizioni di vita. Si assiste così al paradosso di «una crescita di consumi che non è seguita da nessun fenomeno positivo sul versante della salute, della morbosità o della mortalità» (p. 25), rispetto alle quali, dice Foucault, l’incremento di fattori ambientali quali l’istruzione, l’alimentazione, l’educazione familiare ecc. avrebbero, fuor di ogni dubbio, una maggiore incidenza. Ultimo, ma non meno importante, con l’evoluzione di questo sistema collettivo basato sul consumo individuale di salute, si assiste a un ridimensionamento della stessa figura del medico che diventa sempre più soggetto alle aziende farmaceutiche e ai loro interessi di profitto. Sebbene le contraddizioni fin qui descritte appaiano causa sufficiente a motivare le resistenze e i malcontenti nati in relazione a questo processo di medicalizzazione illimitata, Foucault dichiara insensato il tentativo di opporgli l’ideale di un «ritorno a una sorta di igiene naturale, a un orientamento bucolico paramedico» (p. 27). La medicina, avverte, «non deve essere rifiutata né adottata di per sé stessa» (p. 28), poiché la “biostoria”, il marchio indelebile lasciato dall’intervento medico sull’umanità, è uno stadio ormai acquisito della specie umana con il quale bisogna fare i conti, piuttosto che rifiutarla aprioristicamente. Così, allontanandosi da improbabili fughe dalla storia e insensate cacce alle streghe, Foucault preferisce «tentare di comprendere in cosa consista il decollo medico di queste società di tipo europeo a partire dal XVIII secolo» (p. 27) e avviare, come acutamente osservato da Paolo Napoli, una “genealogia” né astratta né soggetta a ricette universalizzanti, ma volta a mettere in luce, attraverso un’attenta indagine storica, «i legami tra la medicina l’economia, il potere e la società, per determinare in che misura è possibile rettificare e applicare il modello» (p. 28). Si apprende, così, che il processo di medicalizzazione della società è in verità un processo di lunga durata, che risale almeno all’introduzione dell’anatomia patologica nel XVIII secolo. Scardinando la tradizionale convinzione che vedeva nell’ascesa del capitalismo l’affermarsi di una medicina centrata sul rapporto privato e individualista tra medico e paziente, Foucault le riconosce, al contrario, un carattere marcatamente sociale: «la medicina moderna è una medicina sociale il cui fondamento è una certa tecnologia del corpo sociale; la medicina è una pratica sociale, e solo uno dei suoi aspetti è individualista e valorizza le relazioni tra medico e paziente» (p. 32). Tale medicina sociale si rivela, per il capitalismo, funzionale alla produzione di una sana ed efficiente forza lavoro, finalizzata alla realizzazione di una vera e propria politica dei e sui corpi, definita da Foucault “bio-politica”; espressione nota del lessico foucaultiano, che, come dichiarato dal curatore, fa la sua prima apparizione proprio in queste conferenze. «Il controllo della società sugli individui non si effettua solo attraverso la coscienza o l’ideologia ma anche nel corpo e con il corpo. Per la società capitalistica è il bio-politico a essere importante prima di tutto, il biologico, il somatico, il corporale. Il corpo è una realtà bio-politica, la medicina è una realtà bio-politica» (p. 33). Più precisamente, il tratto biopolitico della medicina moderna si manifesta pienamente nell’Inghilterra del XIX secolo quando, al termine di una lunga evoluzione storica, l’adozione di una “legge sui poveri” prima, e l’istituzione dell’Health Service del 1875 poi, mettono a regime non tanto un sistema volto a garantire l’accesso gratuito alle cure per i più bisognosi e a proteggere la borghesia dall’epidemia di colera, come si dichiarava pubblicamente, quanto un progetto di controllo medico globale su tutta la popolazione. Grazie a un servizio autoritario, coadiuvato dall’imposizione dell’obbligo vaccinale, dalla registrazione delle malattie infettive e dei luoghi insalubri, la medicina si fa ora sistema di governo pubblico. Questa nuova forma di potere determinerà lo scatenarsi di una serie di fenomeni di reazione e resistenza popolare aventi per finalità quella di «combattere la medicalizzazione, di rivendicare il diritto alla vita, il diritto di ammalarsi di curarsi e di morire secondo il proprio desiderio» (p. 57). Sembra fin troppo banale ricordare la complessa galassia di proteste e resistenze a cui abbiamo assistito in questi anni di emergenza sanitaria ma, oltre a farci riflettere sulla loro dialettica, Foucault offre una preziosa cassetta degli attrezzi per comprendere il meccanismo di strumenti e modelli di gestione della popolazione che, come il piano di quarantena varato per gestire la lebbra nel XVIII secolo, si rivelano importanti dispositivi disciplinari. Un vero e proprio modello militare, spiega l’autore, che, realizzando l’obbiettivo di «mantenere (…) la società in uno spazio compartimentato, costantemente sorvegliato e controllato da un registro, il più completo possibile di tutti gli avvenimenti intervenuti» (p. 45), verrà, come osservato da Paolo Napoli, riutilizzato sovente dalle democrazie liberali e dai sistemi autoritari del XXI secolo per gestire economie di mercato o a forte controllo pubblico. Allo stesso modo, la vaccinazione, pratica messa in campo per contrastare l’epidemia di vaiolo, figura nei termini di un dispositivo di sicurezza dalle caratteristiche di governo diametralmente opposte a quelle dei sistemi disciplinari sopra descritti, ma non per questo meno efficace. Si tratta di pratiche che appaiono rispondere all’emergere, sul finire del XVIII secolo, di una nuova nozione di popolazione, la quale, intesa nei termini di un “fenomeno naturale” soggetto a variabili differenziali, determina un accantonamento della concezione etico-giuridica dell’esercizio dell’autorità sovrana, cui si sostituisce una razionalizzazione di metodi di potere più affinati e meglio atti a gestirla. Tuttavia, come avverte il curatore, «sarebbe davvero ingenuo, oltre che metodologicamente scorretto, cedere alla tentazione di riconoscere all’analisi di Foucault una risonanza profetica» (p. XXI). La morfologia del pensiero di Foucault, descritta come «ideologicamente neutra e perciò trasversale alle militanze predeterminate» (p. XXIV), impedisce di per sé la ricerca a fortiori di presunte apologie a favore dell’una o dell’altra posizione e invita, al contrario, ad assumere uno sguardo critico e una debita distanza dai regimi di sicurezza che attraversano lo spazio sociale e politico, non ultimo quello impostosi a partire dall’attuale congiuntura pandemica, con l’acceso dibattito pubblico che ne è derivato. Se non altro, la lettura delle pagine foucaultiane, affiancate dalle preziose pagine introduttive, ci invitano a valutare con attenzione tanto l’accettazione passiva di misure da altri ritenute eccessivamente restrittive, quanto, all’opposto, il loro rifiuto, a volte semplicistico e privo di intenzione costruttiva o propositiva. Foucault, invece, come emerge nell’ultimo intervento, non si esime dal prendere una certa posizione quando, ad esempio, sembra proporre la possibilità di istituzionalizzare forme di accesso ai mezzi di salute che siano espressione di una partecipazione non imposta, ma democraticamente condivisa. Secondo il pensatore questo «avvicinamento tra gli individui e i centri di decisione dovrebbe implicare, su un piano consequenziale, che venga finalmente riconosciuto a ognuno il diritto di uccidersi quando lo si desidera in condizioni decenti» (p. 138). Una direzione non scontata, quella intrapresa dall’ultimo Foucault, che ci indica la possibilità di una “terza via” tra la mercificazione della salute e il controllo biopolitico di molti sistemi del Welfare; una via di partecipazione diretta che, nel promuovere la gestione autonoma della propria salute in un panorama che pare orientato a ben altri obiettivi, permetterebbe di impostare su basi diverse il dibattito su questioni come l’eutanasia o il suicidio assistito, rispetto alle quali la discussione pubblica, per non parlare della decisione politica, presentano così spesso, soprattutto nel nostro paese, antichi pregiudizi e inveterati conservatorismi.

Federica Fiore

S&F_n. 28_2022

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