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Raymond Corbey – Metafisiche delle scimmie. Negoziando il confine animali-umani – a cura di P. Cavalieri [Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 253, € 27]


Gli uomini sono degli animali, alcuni dei quali allevano i propri simili.

Peter Sloterdijk

 

Metafisiche delle scimmie non è né un libro di filosofia, né di antropologia culturale, né di sociobiologia. È un insieme di tutte queste cose e, nel pluralismo delle voci che lo attraversano, emerge la sua novità. Quale novità? Essa è proprio davanti ai nostri occhi, palesata nel titolo e nel sottotitolo, giacché come insegnail racconto di Edgar Allan Poe La lettera rubata se si vuol nascondere qualcosa la trovata migliore è metterlo in bella vista. In primo luogo lʼautore usa il termine “metafisicaˮ al plurale, riferendosi sia al fatto che «alle scimmie è sempre stato assegnato un certo status metafisico o ontologico» (p. 35), sia a «questo insieme di assunzioni teoretiche che hanno figurato come fondazioni concettuali o teoretiche nellʼambito della ricerca scientifica» (ibid.). Ma un altro senso si radica in questa espressione di Corbey, una certa irrevocabilità e inalienabilità della conditio metafisica, ovvero: «non cʼè possibilità di sfuggire ad assunzioni metafisiche, neppure quando, o forse proprio allorché, esse vengono analizzate» (p. 36). Insomma cʼè il rischio che, anche se armati di belle intenzioni, ogni nostro sapere circa il confine che separa e unisce lʼuomo e la scimmia ricada in un pregiudizio specista. È il criterio della somiglianza con gli esseri umani a fungere da metro di giudizio di una specie non-umana, una colpa di antropomorfismo di cui non riusciamo a liberarci; e tuttavia ribatte Corbay con unʼosservazione dal carattere pragmatico: «bisogna pur cominciare da qualche parte» (p. 196). Ecco spiegato il sottotitolo, negoziando il confine animali-umani, non il confine in sé, ma il modo in cui è venuto formandosi, come viene inteso e rimarcato sulla base delle differenze e somiglianze. Nellʼimmaginario collettivo dellʼOccidente la scimmia ha per lungo tempo rappresentato lʼaltro, lʼebreo, il satiro, il perturbante, per dirla con Freud, ancora convinto che un ancestrale uomo-scimmia dominato da impulsi continuasse ad aggirarsi nelle profondità del nostro io. «Le scimmie figurano come personaggi nellʼarticolazione narrativa dellʼidentità e dell’origine umana» (p. 28). Ogni identità sociale, religiosa, economica e culturale nellʼatto della sua fondazione provvede allʼesclusione dellʼalterità, (A è A e non può essere B diremmo in termini logico-conoscitivi), che viene puntualmente messa al bando. Agamben in Homo sacer, servendosi di antiche fonti medievali, germaniche e anglosassoni, sottolinea la prossimità del bandito con il lupo, la bestia, da qui la figura dellʼuomo-lupo o lupo mannaro come «un ibrido mostro tra lʼumano e il ferino, diviso tra la selva e la città – il lupo mannaro – è, dunque, in origine la figura di colui che è stato bandito dalla comunità» (Agamben, Homo sacer, 2005, p. 117), e che per di più si situa in una zona di indifferenza, sottraendosi alla logica dellʼinclusione-esclusione, né uomo né belva abita in queste aree brumose, e ci incute paura. A tal proposito, Corbey, nel primo capitolo, intitolato non a caso Ambigue scimmie, riporta il succulento aneddoto secondo cui «gli autori patristici utilizzavano lʼicona negativa della scimmia per i pagani, gli eretici e gli altri nemici di Cristo» (p. 30). La definizione dellʼumano reca con sé lʼallontanamento, quasi la rimozione del bestiale. Dunque «lʼidentità umana è stata articolata in termini di alterità animale» (p. 51). A questa figura si affianca, per converso, quella dellʼhomo silvestrus: le scimmie antropomorfe vengono salutate come lʼincorrotto “uomo naturaleˮ. La fantasia rousseauiana dellʼhomme sauvage si nutre dei racconti, più o meno immaginari, dei viaggiatori del XVIII secolo: gli umanoidi da loro descritti potevano ben essere non creature brute ma testimoni di un état naturel incorrotto e intimamente desiderabile dove conducevano la loro esistenza pacifica. Si registra così un mutamento dellʼimmagine dellʼaltro scimmiesco, da «altro disprezzato» a «sé ideale» (p. 172). Corsi e ricorsi storici: «ogni età, ogni generazione, nei suoi modi peculiari, ha i suoi animali preferiti e vilipesi, i suoi ideali di vita armonica, i suoi modelli etici positivi e negativi per la condotta umana. Vi sono selvaggi nobili e ignobili, lupi demoniaci e fieri, squali antropofagi e delfini amichevoli» (p. 173). È possibile, a questo punto, azzardare una proporzione: la scimmia sta allʼuomo come lʼuomo a Dio; la prima è imago hominis, il secondo imago Dei. Un filo rosso congiunge la cosmologia giudaico-cristiana, allʼontologia aristotelica e al moderno razionalismo. Unʼunica convinzione muove il politico Benjamin Disraeli nellʼavanzare, in un discorso tenuto ad Oxford nel novembre del 1864, la domanda provocatoria: «lʼuomo è una scimmia o un angelo?» – e con sicumera rispondere – «Io per parte mia sto dalla parte degli angeli. Io ripudio con indignazione e disgusto queste recentissime teorie» (pp. 55-56). Possiamo immaginare il disagio emotivo di Darwin quando nel 1844 scriveva allʼamico e corrispondente Joseph Dalton Hooker: «sono quasi convinto che le specie non sono (è come confessare un delitto) immutabili» (Darwin, Lʼorigine delle specie. Abbozzo del 1842. Lettere 1844-1858. Comunicazione del 1858, 2009, p. 69), o ancora nel taccuino M «il diavolo sotto le spoglie di un babbuino è nostro avo» (Darwin, Lʼespressione delle emozioni nellʼuomo e negli animali. Taccuini M e N. Profilo di un bambino, 1982, p. 40). La questione non era solo biologica, ma anche metafisica, morale e politica. Nel III capitolo Corbey individua tre grandi narrazioni alla base delle visioni scientifiche e/o filosofiche dello sviluppo del genere umano:

1.verte sullʼesistenza di un Creatore trascendente che privilegia unʼunica categoria di creature: gli esseri umani che regnano sulla terra e possono fare uso degli altri animali;

2.deriva in un certo senso dalla prima ma si dichiara laica e vede nel progresso la storia di unʼascesa, di una redenzione dalla bestialità ferina in nome della ragione e della civiltà (si tratta della visione dominante tra la fine del XVIII secolo e lʼinizio del XIX);

3.un approccio evoluzionistico nei termini di una variazione casuale e di una ritenzione selettiva del tutto contingenti.

Le prime due narrazioni postulano un ordo naturalis, gerarchico e finalistico, e hanno dominato le prospettive evoluzionistiche per lungo tempo. In particolar modo la seconda, che è la storia di questa discesa/ascesa, per cui gli uomini sarebbero angeli caduti o scimmie progredite, in cui «la vergogna per le origini e lʼorgoglio per il progresso» – nota Corbey – «procedevano di pari passo» (p. 87). Il mito narrativo conferisce forma letteraria al paradosso antropologico, la forma discorsiva, come quella favolistica, ha lo scopo di «neutralizzare la minaccia e affrontare ciò che era emozionalmente inquietante e cognitivamente imbarazzante» (p. 112). Lʼinsidiosa prossimità dellʼuomo con la scimmia viene tenuta alla larga grazie allʼindividuazione dei caratteri che distinguono lʼuomo dalla scimmia, uno su tutti: il linguaggio. Il paradigma dellʼhomo symbolicum è duro a morire, anche se si dimostrasse in tutto e per tutto che il mondo umano dipende dalle caratteristiche forniteci dalla biologia, saremmo portati a pensare che lʼessenza dellʼuomo si radica proprio nella sua emancipazione dal dato biologico, nella sua capacità di dare un senso a quest’ultimo. Tuttavia a partire dagli anni ʼ60 del secolo scorso alcuni studi sulle antropomorfe hanno riscontrato in loro talune abilità simboliche, il riconoscimento allo specchio, indice di un’iniziale forma di consapevolezza, o pratiche, come lʼuso di strumenti, pensiamo allo scimpanzé Sultan degli esperimenti di Köhler. Insomma quelli che si credeva fossero indicatori di umanità peculiari della nostra specie, sono stati sottoposti a riesame, spostando un poʼ più in là il confine animali-umani. Come dichiara espressamente Corbay nel VI capitolo: «oggi si avverte sempre più che le differenze tra gli umani e le scimmie, per quanto grandi possano essere, sono di grado, e non di genere, e che fondamentalmente vi è continuità cognitiva» (p. 189). Vale la pena ricordare che, lasciando da parte le straordinarie abilità cognitive delle antropomorfe, esse, nella maggior parte dei casi, sʼimpegnano in attività più consuete. Sono quelle che sono, «non surrogati di umani, né umani mal riusciti o umani in potenza» afferma con una nota relativizzante il primatologo Reynolds, tantomeno – aggiunge Corbey – «umani idealizzati» (p. 190). Un’ultima questione sulla scia delle considerazioni espresse da Corbay nel § 6.3, che si apre con la seguente citazione da Lʼorigine dellʼuomo: «In una serie di forme che derivano gradualmente da qualche creatura simile alle scimmie fino allʼuomo come ora esiste sarebbe impossibile definire il punto in cui si dovrebbe adoperare il vocabolo “uomoˮ. Ma questo non ha grande importanza» (Darwin, Lʼorigine dellʼuomo e la scelta sessuale, 1982, p. 232). Siffatto battesimo dellʼumano, che riveste forse scarsa importanza dal punto di vista della biologia evoluzionistica, assume un certo peso dal punto di vista pratico e morale, e le sue conseguenze sono considerevoli. Quando uccidere diventa assassinio? Quando il mangiare carne cannibalismo? La verità è che «gli esseri riconosciuti come umani godono di uno status privilegiato» (p. 190). Per essere logicamente coerenti dovremmo chiederci con Elizabeth Costello, alter ego letterario dello scrittore sudafricano Coetzee ne La vita degli animali, cosa distingue un mattatoio da un campo di sterminio? La Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 ha sancito lʼuguaglianza tra tutti gli esseri umani, riconoscendogli pari dignità indipendentemente dalla loro razza, cultura o religione. «Ironicamente – nota Corbay – l’inclusione delle “razze” non europee nella “famiglia dellʼuomo” venne resa possibile dalla perdurante esclusione delle specie non-umane» (p. 193). Allʼindomani della Dichiarazione universale, nel clima di «umanismo biologico post-bellico» (p. 194), sorge un movimento, che trova in Peter Singer uno dei suoi principali numi ispiratori, che reclama un allargamento dei diritti umani anche agli umanoidi. La Dichiarazione sui grandi antropoidi, inclusa nel Progetto grande scimmia, domanda lʼestensione dei diritti morali e giuridici a tutti gli antropoidi (che comprendono gli umani, gli scimpanzé, i gorilla e gli oranghi). I membri di questa grande comunità umanoide non possono essere uccisi, se non per autodifesa, o torturati o imprigionati senza regolare processo. Uno scenario kafkiano? Forse, non è un caso che lo scrittore praghese sia stato tanto affascinato dal mondo bestiale, pensiamo a Pietro il rosso o al celebre racconto della Metamorfosi. «Fra tutti gli uomini Kafka è il più insicuro della propria umanità. È dunque questa – sembra dire –, è dunque questa lʼimmagine di Dio?» (Coetzee, La vita degli animali, 2003, p. 41). Si profila uno spostamento della linea di demarcazione tra l’uomo e la bestia: il genere umano, dal cyborg alla scimmia, ha confini sempre più sfumati. 

Alessandra Scotti

S&F_n. 7_2012

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